• Mondo
  • Venerdì 4 marzo 2022

Cos’è una “no-fly zone”

Significa impedire il sorvolo di aerei nemici su un territorio, e c'è una ragione per cui la NATO finora non ha voluto imporla in Ucraina

Un aereo da guerra americano in una no-fly zone in Iraq, in una foto non datata (U.S. Air Force/Getty Images)
Un aereo da guerra americano in una no-fly zone in Iraq, in una foto non datata (U.S. Air Force/Getty Images)

Da giorni il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e altri leader locali chiedono ai paesi occidentali di imporre una “no fly zone” (NFZ) sull’Ucraina, cioè un divieto di sorvolare lo spazio aereo del paese. Sia gli Stati Uniti che la NATO hanno per ora scartato l’ipotesi, perché metterla in pratica comporterebbe di fatto l’entrata in guerra dell’Occidente. La NATO ne ha ridiscusso venerdì, diverse ore dopo il grave bombardamento russo contro la centrale nucleare ucraina di Zaporizhzhia, arrivando però alla stessa conclusione dei giorni precedenti.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la “no-fly zone” – area di interdizione al volo, quindi usata per bloccare il sorvolo degli aerei nemici su un determinato territorio – non è un’azione difensiva, ma offensiva. Può essere dichiarata da organizzazioni internazionali, come la NATO, l’ONU o l’Unione Europea, ma anche da singoli governi.

Chi la impone deve svolgere attività di pattugliamento e, in caso di violazione dello spazio aereo, può arrivare all’abbattimento del velivolo nemico. Pattugliamento include anche assicurarsi di avere il controllo di quell’area senza il rischio di subire attacchi da terra: per questo, chi dichiara la “no-fly zone” deve anche identificare, bloccare e distruggere le risorse antiaeree presenti a terra, in modo che non possano essere usate dall’avversario. Nel caso ucraino, imporla significherebbe impiegare delle forze NATO anche per attaccare l’artiglieria russa già presente sul territorio ucraino: quindi fare attivamente la guerra ai russi.

È per questo motivo che la “no-fly zone” viene equiparata a «un atto di guerra». Lo ha detto per esempio la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, ma anche esponenti di alcuni governi europei, tra cui il ministro della Difesa del Regno Unito, Ben Wallace. Per ora i paesi occidentali sembrano quindi intenzionati a non mettere in pratica questa ipotesi, anche perché l’esercito russo è grosso, potente e ha un vasto arsenale di forze aeree.

– Leggi anche: Com’è oggi l’esercito della Russia

Ad oggi le “no-fly zone” sono state usate contro nazioni militarmente molto meno avanzate della Russia: uno dei motivi per cui durante la guerra in Siria l’allora presidente americano Barack Obama si rifiutò di imporre una “no-fly zone” fu proprio evitare un confronto con la Russia, sostenitrice del regime siriano di Bashar al Assad.

Una “no-fly zone” fu imposta anche in Libia  nel marzo 2011, nella guerra tra il regime di Muammar Gheddafi e i ribelli. Il 17 marzo l’ONU dichiarò l’imposizione di una “no-fly zone”. Due giorni dopo le forze aeree francesi, seguite poi da quelle britanniche e statunitensi, entrarono nello spazio aereo libico e colpirono con oltre un centinaio di missili le forze antiaeree di Gheddafi: quel giorno, di fatto, segnò l’entrata delle forze occidentali nella guerra civile libica.

La “no-fly zone” fu usata anche durante la guerra del Golfo nel 1991: Stati Uniti, Francia e Regno Unito ne dichiararono due in Iraq per contrastare gli attacchi dell’allora presidente Saddam Hussein contro la popolazione civile. Funzionò in parte, dato che il regime continuò ad attaccare via terra.

La “no-fly zone” fu imposta inoltre dalla NATO durante la guerra in Bosnia, tra il 1993 e il 1995: in quel caso, per farla rispettare, gli aerei da guerra statunitensi spararono su quelli serbi, che avevano violato l’area per bombardare alcune fabbriche. Anche in quel caso l’operazione non fermò gli attacchi via terra, e incontrò anche varie difficoltà nei tentativi di colpire i velivoli nemici.

L’efficacia delle “no-fly zone”, in generale, è piuttosto dibattuta: qualche anno fa, sul sito War on the Rocks, John T. Kuehn, ex pilota statunitense che aveva pattugliato diverse “no-fly zone” sia in Iraq che in Bosnia, spiegava per esempio che è molto difficile non provocare ugualmente morti tra i civili e non creare situazioni che aggravino ulteriormente la guerra in corso, anziché arginarla. Le “no-fly zone”, scriveva Kuehn, vengono proposte per limitare i danni, ma l’idea stessa di farlo con questo strumento «vìola il proposito di partenza».

– Leggi anche: Quanto sono credibili le minacce nucleari di Putin