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  • Lunedì 21 febbraio 2022

Putin è pronto a correre un rischio

Sa che l'invasione dell'Ucraina danneggerebbe la Russia, ma negli ultimi anni è diventato più bellicoso e sicuro dei suoi mezzi

Vladimir Putin in una foto del 2019 (AP Photo/Pavel Golovkin)
Vladimir Putin in una foto del 2019 (AP Photo/Pavel Golovkin)

La maggioranza degli osservatori di politica estera è piuttosto scettica sul fatto che un’invasione dell’Ucraina possa convenire al presidente russo Vladimir Putin: secondo molti analisti, un’operazione via terra potrebbe facilmente diventare complicata e pericolosa per l’esercito russo, provocherebbe dure sanzioni da parte dell’Occidente che schianterebbero l’economia e isolerebbe la Russia a livello internazionale. Come ha scritto di recente l’Economist, con le sue minacce d’invasione Putin sta «danneggiando la Russia».

Sulla base di questo ragionamento, per diverse settimane molti analisti erano stati portati a pensare che l’accumulo di oltre 150 mila soldati russi al confine con l’Ucraina fosse più che altro un bluff per ottenere concessioni dal governo ucraino e dai leader occidentali: Putin è sempre stato considerato un leader internazionale astuto e cauto, che nelle sue decisioni di politica estera è guidato dalla razionalità e che non inizierebbe mai una guerra rischiosa che non è sicuro di vincere.

Da qualche tempo, però, ha cominciato a farsi strada una seconda teoria: che negli ultimi anni, per varie ragioni, Putin sia diventato meno cauto, più paranoico nella gestione della politica interna ed estera e che le sue decisioni siano condivise esclusivamente con un ristretto gruppo di consiglieri molto aggressivi. Di fatto, alcuni ritengono che il presidente russo abbia perso parte di quell’eccezionale razionalità che gli analisti gli attribuiscono in tutte le scelte strategiche, e che questo potrebbe portarlo a fare mosse quasi unanimemente considerate arrischiate, come un’invasione dell’Ucraina, che in questi giorni appare sempre più imminente.

Che Putin negli ultimi anni sia cambiato, anche a livello personale, è un’impressione condivisa sia da molti osservatori di cose russe sia dalle persone che hanno avuto a che fare con lui. «Putin è diventato molto più duro, anche in privato, rispetto al 2014», ha detto al Financial Times un funzionario diplomatico francese che ha accompagnato il presidente Emmanuel Macron nel suo recente viaggio a Mosca.

Come ha scritto il New York Times, il lunghissimo tavolo usato da Putin per tenersi lontano da Macron (ufficialmente per mantenere il distanziamento fisico) è tra le altre cose una metafora del fatto che, in questi due anni di pandemia, Putin è diventato sempre più isolato e ha ridotto la sua cerchia di consiglieri e confidenti a pochissime persone. Da due anni, al contrario dei suoi colleghi occidentali, Putin vive praticamente isolato in una bolla sanitaria in cui pochi possono entrare. Tiene la maggior parte delle riunioni in videoconferenza, esce molto raramente dalla Russia e tiene altrettanto raramente incontri di persona sia con altri leader internazionali sia con collaboratori fuori da una ristretta cerchia.

Ha anche ridotto drasticamente gli eventi pubblici a cui partecipa: il mese scorso ha partecipato alla messa del Natale ortodosso da solo, in una cappella vuota in cui c’erano soltanto lui, il celebrante e un cameraman (al contrario dell’anno precedente, in cui aveva partecipato alla messa con un piccolo gruppo di persone).

L’isolamento di Putin ha accentuato un fenomeno già in corso da qualche anno, cioè l’aumento dell’influenza di un piccolo gruppo di consiglieri con posizioni molto radicali, su cui Putin farebbe affidamento quasi esclusivo per tutte le decisioni strategiche. Questi consiglieri condividono il background di Putin: sono tutti ex funzionari militari e degli apparati di sicurezza – quasi tutti del KGB, come Putin – nati all’inizio della Guerra fredda e sono definiti siloviki, parola con cui nel gergo russo si indica un politico proveniente dagli apparati di sicurezza.

I siloviki vicini a Putin hanno posizioni radicali sulla politica estera, sui rapporti con l’Occidente ed esprimono una forma piuttosto rigida di nazionalismo russo. Tra loro ci sono Nikolai Patrushev, ex membro del KGB amico di Putin fin dagli anni Settanta e oggi suo principale consigliere per la sicurezza nazionale, che è ritenuto l’organizzatore di varie operazioni sotto copertura della Russia, compreso l’avvelenamento di Alexander Litvinenko; Sergei Naryshkin, attualmente capo dei servizi d’intelligence esterni, che di recente ha equiparato l’Ucraina alla «occupazione di Hitler»; Sergei Shoigu, ministro della Difesa che ha definito i nazionalisti ucraini come «non-umani» e Alexander Bortnikov, capo dei servizi d’intelligence interni.

Secondo vari osservatori, i siloviki avrebbero assunto così tanta influenza da escludere dalle decisioni più importanti tutti i ministri più liberali del governo, che ricoprono posizioni soprattutto di gestione dell’economia del paese, ma che sono di fatto estromessi da ogni questione che non riguardi il loro limitato settore di competenza. «Il circolo dei suoi contatti si sta facendo più piccolo e influenza il suo modo di pensare», ha detto di Putin un ex importante funzionario del Cremlino al Financial Times. «Un tempo pensava a 360 gradi, adesso soltanto a 60 gradi».

Come ha scritto su Foreign Policy Tatiana Stanovaya, un’analista politica russa, i siloviki non soltanto condividono una visione estrema e nazionalista, ma hanno anche un certo interesse ad alimentare le divisioni tra Russia e Occidente: «L’aumento degli scontri e le sanzioni non spaventano i siloviki ma, al contrario, aprono loro nuove possibilità».

Un’altra ragione per cui Putin potrebbe compiere un atto rischioso come l’invasione dell’Ucraina, sempre secondo Stanovaya, è che negli ultimi anni è cambiata la percezione che Putin e l’establishment russo hanno della posizione del loro paese nel mondo: se fino a pochi anni fa Putin si comportava ancora come il leader «di uno stato vulnerabile dal punto di vista geopolitico, circondato da altri più potenti e ostili», e dunque agiva con estrema cautela, negli ultimi tempi i suoi notevoli successi in politica estera (in Crimea come in Siria) e il grosso potenziamento dell’esercito russo lo hanno convinto che la Russia è pronta a tornare una grande potenza rispettata e temuta.

Putin, ha scritto il New Yorker, vuole porre fine a un lungo periodo di «umiliazione» cominciato con la caduta dell’Unione Sovietica.

Il nazionalismo, le teorie del complotto anti-occidentali e la nuova sensazione di potenza militare finiscono tutti per avere un grosso effetto sulle decisioni che riguardano l’Ucraina, per la quale Putin ha una nota ossessione, legata a un’interpretazione parziale della storia russa e al desiderio di rinnovare il potere imperialista dell’Unione Sovietica.

L’atteggiamento più arrischiato e sprezzante di Putin si è visto più volte negli ultimi anni: il tentativo di avvelenamento di Alexei Navalny e la persecuzione nei confronti della sua organizzazione, per esempio, contraddicono una credenza piuttosto diffusa fino a qualche anno fa secondo cui Putin avrebbe lasciato spazio all’opposizione come innocua valvola di sfogo del malcontento politico. E più in generale, l’adozione di politiche sempre più radicali da parte del governo russo sarebbe dimostrata dal fatto che la repressione del dissenso non è mai stata così forte dal periodo sovietico: i giornali indipendenti sono stati chiusi o resi inoffensivi, l’opposizione di fatto eliminata e sono state approvate varie leggi repressive dei diritti politici.

Michael Kofman, un analista militare che lavora per il centro studi CNA, ha detto al Washington Post: «La gente dice: “[Putin] non oserà. Non oltrepasserà la linea di una guerra su larga scala in Europa”. Vorrei essere d’accordo anche io. Ma negli ultimi tre anni l’ho visto oltrepassare moltissime linee che pensavo non avrebbe mai superato».