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  • Martedì 15 febbraio 2022

Il New York Times ha vinto contro Sarah Palin, per ora

La causa contro il giornale per un grave errore nel 2017 è stata rigettata dal giudice, ma sta dentro un attacco più esteso alle libertà dei media americani

Sarah Palin parla coi giornalisti fuori dalla Corte federale a New York, lunedì (Michael M. Santiago/Getty Images)
Sarah Palin parla coi giornalisti fuori dalla Corte federale a New York, lunedì (Michael M. Santiago/Getty Images)

Aggiornamento: martedì pomeriggio la giuria si è associata alla sentenza del giudice Rakoff, comunicando una decisione sfavorevole a Sarah Palin, che respinge la sua richiesta.

Il giudice federale di Manhattan incaricato di decidere sulla causa per diffamazione contro il New York Times, intentata da Sarah Palin, ha annunciato lunedì che respingerà le richieste dell’ex candidata Repubblicana alla vicepresidenza degli Stati Uniti per il partito Repubblicano. La decisione del giudice Jed Rakoff è stata comunicata mentre la giuria è ancora chiusa in camera di consiglio (una situazione legittima ma piuttosto anomala, hanno spiegato gli esperti): qualunque sia il verdetto dei nove giurati, la causa verrà respinta perché secondo il giudice gli avvocati di Palin non hanno portato prove di “effettiva malafede” da parte del quotidiano. L’ex governatrice dell’Alaska potrà fare appello.

Palin aveva citato per diffamazione il quotidiano per un editoriale del 2017 in cui veniva accusata di aver contribuito a incoraggiare azioni terroristiche violente contro i membri del Congresso, con particolare riferimento all’attentato che coinvolse la deputata Gabrielle Giffords del 2011. Il New York Times riportò informazioni errate a proposito di alcuni post sui social network del comitato politico di Palin; l’editoriale venne corretto in seguito alle segnalazioni dell’errore e alle proteste, ma il giornale fu comunque citato in giudizio da Palin. Dopo un percorso pre-processuale durato 4 anni e mezzo, rallentato anche dalla pandemia, nelle scorse settimane è iniziato il dibattimento presso una Corte federale.

Il processo era considerato particolarmente significativo e delicato non solo per la notorietà delle parti in causa (da una parte una delle politiche più in vista e discusse dei Repubblicani nel primo decennio degli anni Duemila, dall’altra la maggiore istituzione giornalistica mondiale, di orientamento progressista e con 170 anni di storia), ma anche per le possibili implicazioni sulla legislazione riguardo alla stampa e alla libertà di espressione, che negli Stati Uniti è particolarmente protetta. Nel corso delle udienze sono inoltre emerse molte questioni illuminanti sul funzionamento dei giornali: la principale è la contraddizione quotidiana tra le pressioni sui tempi immediati di pubblicazione e la necessità di verifiche attente.

Al centro della causa c’era l’editoriale “America’s Lethal Politics”, pubblicato la sera del 14 giugno 2017, poche ore dopo che James Thomas Hodgkinson aveva sparato al deputato della Louisiana Steve Scalise e ad altri esponenti del partito Repubblicano che si stavano allenando per una partita di baseball vicino a Washington (sei persone furono ferite). L’articolo fu scritto in una prima versione da Elizabeth Williamson, ma revisionato dal direttore delle pagine di commenti e opinioni del New York Times (che sono autonome dal resto del giornale), James Bennet, che – come ha raccontato lui stesso in aula – aggiunse le parti oggetto della causa legale ritenendo che l’editoriale fosse troppo debole per l’occasione.

L’editoriale indicava l’estremizzazione dei toni del dibattito politico come una delle cause degli attacchi violenti agli esponenti del Congresso. Nel commentare l’evento di quel giorno faceva riferimento al precedente attentato del 2011 a Tucson, in Arizona, che causò sei morti e il grave ferimento della deputata Democratica Gabrielle Giffords. Nella stesura definitiva Bennet parlò di “chiari legami” fra l’azione dell’attentatore e i messaggi sui social del comitato politico di Sarah Palin, definendo quest’ultima colpevole di “evidente incitamento”. E citò erroneamente un post accompagnato da una mappa in cui le foto di Giffords e altri esponenti del partito sarebbero state inserite in un mirino simile a quello dei fucili di precisione. In realtà al centro dei mirini, nell’immagine a cui si riferiva, non c’erano i politici, bensì i collegi elettorali a cui puntava il partito Repubblicano, come fu indicato dalle richieste di correzione accolte dal giornale.

L’errore nei fatti è stato riconosciuto dal New York Times e dallo stesso Bennet, che se ne è assunto la responsabilità: e non è mai emerso nessun legame oggettivo fra quei post e qualche attentato. Per avere successo la denuncia di Palin – che ha ritenuto insufficiente la correzione rispetto al danno comunque subito – avrebbe dovuto dimostrare che l’errore non fosse stato compiuto per disattenzione, come sostenuto dal quotidiano, ma fosse frutto di “effettiva malafede” (“actual malice”).

È una discriminante prevista dalla legislazione americana, una delle più garantiste al mondo riguardo alla libertà di stampa, introdotta da una sentenza della Corte Suprema del 1964, in un caso relativo sempre al New York Times (New York Times v. Sullivan). L’accusa doveva dimostrare che il giornale aveva pubblicato informazioni pur essendo pienamente cosciente della loro falsità, o con un totale disinteresse riguardo alla loro veridicità: in questo dedicando parte dei suoi argomenti all’inclinazione politica del giornale e a presunti pregiudizi contro Palin. Per questo gli avvocati di Palin hanno cercato di dimostrare che Bennet fosse “prevenuto” nei suoi confronti e hanno chiesto di ricostruire tutti i passaggi che avevano portato alla pubblicazione dell’editoriale. Lo stesso giudice Rakoff, nel rifiutare gli argomenti contro il giornale, ha sottolineato la gravità dell’errore e ha detto di non essersi stupito della scelta di Palin di fare causa.

Nonostante la decisione del giudice, il “caso Palin” potrebbe avere un seguito, visto che un appello pare scontato. L’errore del direttore della sezione Opinioni può portare, in caso di ribaltamento della sentenza, a effetti potenzialmente dirompenti. Prima del verdetto annunciato lunedì il Washington Post e la sua esperta di giornalismo e media Margaret Sullivan ritenevano che non fosse «inconcepibile che Palin v. Times approdi fino alla Corte Suprema», che oggi è a maggioranza conservatrice dopo le nomine della presidenza Trump.

Due dei giudici, Clarence Thomas e Neil Gorsuch, avevano fatto intendere in passato di poter prendere in considerazione una revisione delle norme del 1964 sull’informazione. E ormai da diversi anni le destre americane – a cominciare dall’ex presidente Donald Trump – conducono attacchi molto aggressivi contro le maggiori testate giornalistiche e le loro libertà. Molti osservatori – ma naturalmente sui media statunitensi in queste settimane prevalgono le opinioni di osservatori interessati – temono che una eventuale cancellazione della necessità di “actual malice” possa incentivare una serie di cause milionarie per richieste danni contro i giornali, col risultato di limitare di fatto la stessa libertà di stampa. Il New York Times non perde una causa per diffamazione da 50 anni.

Intanto il dibattimento in aula e la ricostruzione degli sviluppi che hanno portato all’ideazione e alla pubblicazione dell’editoriale hanno già esposto questioni molto attuali sui meccanismi alla base del funzionamento dei giornali, compresi quelli i cui standard di rigore e accuratezza sono universalmente riconosciuti come alti e sopra la media. Bennet, a capo della sezione Opinioni del New York Times dal 2016 al 2020, ha raccontato che in quella giornata il quotidiano riteneva necessario un editoriale sulla sparatoria, ma di aver convenuto che la prima versione non fosse sufficientemente “incisiva”, secondo il suo parere e quello di alcuni colleghi.

Visti i tempi stretti per pubblicare online e andare in stampa per l’edizione cartacea del giorno successivo – dati dalla necessità di proporre ai lettori un commento ai drammatici fatti del giorno – aveva deciso di modificare personalmente il testo, inserendo le frasi incriminate e gli errori per «eccessiva fretta» e per l’impossibilità di effettuare una reale revisione e svolgere una verifica approfondita, come nelle norme abituali del giornale. L’editoriale era stato pubblicato intorno alle 21 e subito aveva suscitato critiche e contestazioni sui social network. Le correzioni erano state pubblicate la mattina seguente, dopo quella che Bennet ha definito una notte «tormentata».

James Bennet oggi non lavora più al New York Times: si era dimesso nel giugno del 2020, dopo un altro caso controverso. In quell’occasione la sezione Opinioni aveva ospitato un articolo del senatore Repubblicano Tom Cotton che chiedeva l’intervento dell’esercito per gestire le proteste contro il razzismo in corso in tutti gli Stati Uniti. In un primo momento Bennet aveva difeso la pubblicazione dell’articolo di Cotton, molto criticato e accusato di imprecisioni, forzature ed espressioni minacciose. Poi, dopo che più di 800 dipendenti del giornale avevano firmato una lettera di protesta criticando la scelta di pubblicare l’articolo, si era scusato, ammettendo di non averlo letto prima dell’invio in stampa.

L’editore del New York Times, A. G. Sulzberger, aveva definito l’accaduto «un cortocircuito, non il primo che abbiamo avuto negli ultimi anni». L’autonomia delle pagine delle Opinioni dal resto del giornale è stata negli ultimi anni responsabile di diverse altre polemiche, per quella che alcuni giudicano un’eccessiva libertà concessa ad alcuni autori esterni e per la difficoltà dei lettori a percepire chiaramente l’autonomia in questione, e distinguere le opinioni ospitate dalla linea del giornale.

– Leggi anche: Ci sono opinioni che il New York Times non dovrebbe pubblicare?

Nel caso del giugno 2017, la redazione Opinioni sentì l’esigenza di un editoriale immediato dopo la sparatoria, anche se, come si legge nelle chat interne, non era chiaro che direzione far prendere al commento («Non vedo ancora dove potremmo andare» scrisse un componente della redazione). La prima ipotesi fu di concentrarsi sul controllo delle armi, per passare poi alla “retorica della demonizzazione”. I tempi stretti autoimposti fecero saltare i normali controlli e le consuete verifiche, e la necessità di seguire il mandato ricevuto dall’editore Sulzberger di rendere la sezione «più audace, veloce e sorprendente» portò a una revisione dell’articolo per renderlo più incisivo.

La rivista online Slate ha riassunto così l’accaduto: «Per chiunque lavori nei media è il classico disastro annunciato: un giornalista vicino all’orario di chiusura, in cerca di un titolo forte». Se questo disastro dovesse risolversi non solo nelle frequenti e gravi conseguenze per chi è coinvolto nell’errore – in questo l’accusa di avere incentivato terroristi e assassini – ma anche in una maggiore pressione sui rischi giudiziari di questo tipo di errori e sulla facilità di essere portati a processo, potrebbero cambiare molte cose per l’informazione americana.