La rinascita del Festival di Sanremo
L'edizione che è appena finita è stata la più vista e apprezzata da anni, ma è un successo costruito nell'arco di un decennio e da conduttori diversi
di Luca Misculin
A pochi giorni dalla conclusione del 72esimo Festival di Sanremo, finito sabato con la vittoria dei cantanti Mahmood e Blanco, i dirigenti della Rai stanno esibendo in lungo e in largo i dati dell’audience, mai così alti da una ventina d’anni a questa parte. Ma il successo del Festival è confermato da molti altri fattori riscontrabili in questi giorni, come la rotazione costante delle canzoni in gara sulle radio nazionali, i numeri enormi di ascoltatori sulle piattaforme di musica in streaming che hanno reso la playlist delle canzoni in gara fra le più ascoltate al mondo, i giornali pieni di curiosità, retroscena e biografie degli artisti che più si sono fatti notare.
«Il Festival è tornato ad avere quel prestigio, quella centralità, ma anche quella coolness, quella brillantezza che negli ultimi anni si era appannata», sintetizza Luca Barra, che insegna Storia della radio e della televisione all’università di Bologna. E gli esperti e gli addetti ai lavori confermano quest’impressione, sostenendo che sia in corso una nuova “epoca d’oro” del Festival di Sanremo, arrivata nel suo pieno dopo una specie di percorso di rinascita cominciato una decina di anni fa.
All’inizio degli anni Dieci, infatti, il Festival era da tempo in crisi di ascolti e di identità. I conduttori e il format cambiavano ogni anno, ma il risultato rimaneva lo stesso: uno spettacolo scadente e poco premiato dagli ascolti. «Fra gli artisti la convinzione era che a Sanremo ci andavi per salvare la carriera», racconta Emiliano Colasanti, fondatore della casa discografica 42Records, quella di Colapesce e Dimartino, Cosmo e tanti altri.
Ora invece gli artisti sgomitano per partecipare, anche quelli che provengono da contesti diversi dal pop più radiofonico. Ogni anno le case discografiche sottopongono al Festival centinaia di canzoni, consapevoli che accedere al concorso potrebbe lanciare carriere di successo – come avvenne per Mahmood, che da semisconosciuto ha vinto due edizioni nel giro di quattro anni – e in un modo spesso slegato dal piazzamento finale.
Gli addetti ai lavori con cui ha parlato il Post raccontano che la ricostruzione del Festival è partita da lontano, ed è riconducibile solo in parte ai pur evidenti meriti di Amadeus, che nelle ultime tre edizioni è stato conduttore e direttore artistico, la figura cioè che ha almeno sulla carta il controllo creativo del Festival, e a cui spettano importanti responsabilità nella selezione delle canzoni in gara.
La proprietà intellettuale del Festival appartiene al Comune di Sanremo, che dagli anni Settanta fino al 1994 l’aveva appaltato con alterne fortune a consorzi di impresari vicini alle esigenze delle case discografiche. Il metro di giudizio di una certa edizione del Festival, quindi, era la quantità di dischi venduti dagli artisti in gara. La RAI era soltanto un contenitore, il canale tramite cui le canzoni finivano nelle orecchie dei potenziali compratori di dischi. Fu soltanto nel 1994 che la tv pubblica decise di gestire direttamente il Festival tramite una convenzione con il Comune. Senza saperlo, lo fece nel peggiore momento possibile.
«Alla fine degli anni Novanta arrivarono Internet e Napster, e il modello di business dell’industria musicale basata sulla vendita del prodotto fisico andò in crisi», spiega Eddy Anselmi, autore televisivo e storico della musica contemporanea. Con il diminuire delle entrate dovute alla vendita dei dischi, le case discografiche e gli artisti diventarono sempre meno interessati a frequentare il Festival. La qualità delle canzoni e degli artisti in gara si ridusse moltissimo: un detto che circola a Sanremo, forse nato in quegli anni, vuole che durante le esibizioni degli artisti molti spettatori cambino canale.
«La RAI decise allora che la gara di canzoni doveva passare in secondo piano: l’obiettivo diventò quello di costruire un varietà televisivo con la musica al suo interno», racconta Anselmi. «I Festival di quegli anni cercavano un impatto televisivo immediato, poi se le canzoni non finivano in radio non era importante. Alla fine è il meccanismo dietro ai talent show: l’importante è quello che succede in diretta», sintetizza Colasanti.
Fra il 2004 e il 2010 si alternarono alla conduzione presentatori televisivi molto noti come Simona Ventura, Antonella Clerici, Giorgio Panariello, Paolo Bonolis, Piero Chiambretti e Pippo Baudo, che nel 2007 e nel 2008 lo condusse per la dodicesima e tredicesima volta. In quegli anni il concorso fu vinto spesso da artisti che avevano appena partecipato al talent show Amici di Maria De Filippi come Marco Carta e Valerio Scanu, che quindi avevano già un pubblico di riferimento, da meteore della musica italiana come Povia o sconosciuti che imbroccavano la canzone giusta, come i vincitori del 2008 Giò Di Tonno e Lola Ponce.
Proprio l’edizione del 2008 fu la meno vista della storia: fece in media il 36,56 per cento di share. “Colpo di fulmine”, la canzone di Ponce e Di Tonno, rimase in classifica per sole tre settimane e poi sparì. Nel 2010 arrivò invece seconda di pochissimo “Italia amore mio” di Pupo, Emanuele Filiberto di Savoia e del tenore Luca Canonici, una canzone giudicata quasi all’unanimità terribile e il cui posizionamento fu considerato da molti indicativo della qualità della proposta musicale di quel periodo.
Diversi addetti ai lavori rintracciano la prima inversione di rotta al Festival condotto da Fabio Fazio e Luciana Littizzetto nel 2013. Presentando gli artisti in gara Fazio spiegò di avere messo insieme «un cast che rispetti il senso della musica di oggi», e che il suo obiettivo non era quello di comporre «un cast televisivo». Scomparvero o quasi gli artisti provenienti dai talent show, mentre furono incluse la band indie rock Perturbazione, il cantante ska Giuliano Palma e l’elettronica dei Bloody Beetroots, che si presentarono col giovane pianista Raphael Gualazzi.
Gli ascolti non andarono benissimo, anzi: ma oggi in molti riconoscono a Fazio di avere riagganciato il Festival alla musica che esisteva e funzionava davvero anche fuori dal Teatro Ariston: nelle radio, nei locali, nei palazzetti, nelle classifiche dei dischi più venduti.
Anche i due successivi conduttori e direttori artistici, Carlo Conti e Claudio Baglioni, andarono nella stessa direzione. «Dalla direzione di Conti in poi si è cominciato a usare il criterio della radiofonicità per selezionare le canzoni, che sconvolse il criterio della tipica canzone sanremese, cioè la ballata d’amore» che negli anni precedenti aveva prevalso, spiega Colasanti. Se è vero che il Festival del 2015 fu vinto dal Volo, forse il gruppo più conservatore nella storia recente italiana e ispirato a una tradizione, quella della musica lirica, per nulla contemporanea, arrivarono terza e quarta due cantanti credibilmente pop come Malika Ayane e Annalisa. Nel 2016 nella sezione Giovani Proposte c’erano Mahmood, Francesco Gabbani, Ermal Meta e Irama: i primi tre avrebbero vinto il festival nei tre anni successivi.
Con Baglioni la qualità delle canzoni in gara aumentò ulteriormente. «Fu lui a togliere le eliminazioni», ricorda Anselmi, andando incontro alle richieste degli artisti che temevano che essere esclusi durante la competizione avesse ricadute negative sulla propria immagine. Colasanti ricorda inoltre che Baglioni «alzò il limite massimo delle canzoni da tre minuti e mezzo a quattro minuti», permettendo quindi agli artisti in gara di presentare pezzi più strutturati e aumentando le possibilità espressive.
Gli addetti ai lavori capirono che le cose erano cambiate con la vittoria di “Soldi” di Mahmood, nel 2019: «una proposta di musica urban che dominava le classifiche ma che fino ad allora non era presente nel contesto di Sanremo», spiega Colasanti.
La vittoria di Mahmood attivò un circolo virtuoso che dura ancora oggi. I giovani si accorsero per la prima volta da quando ne avevano conoscenza che il Festival offriva anche musica in grado di soddisfare i loro gusti. Le industrie discografiche annusarono l’opportunità di allargare il pubblico di cantanti che magari andavano occasionalmente bene nelle classifiche, ma che non avevano ancora una vera base di fan.
Nel frattempo si era definitivamente affermato lo streaming come modello principale di fruizione della musica, cosa che tra le molte conseguenze consentì alle case discografiche di pianificare meglio le carriere dei propri artisti. Da qualche anno nessuno arriva a Sanremo per caso: il Festival è diventato la stessa cosa delle Olimpiadi per uno sportivo professionista, cioè un appuntamento a cui presentarsi nelle migliori condizioni possibili e da preparare con estrema cura nei mesi che lo precedono.
«Il Festival è diventato un acceleratore molto più efficace di prima», dice Colasanti: «anche solo rispetto all’anno scorso abbiamo notato un aumento del 30 per cento degli ascolti in streaming. C’è molta più gente interessata a seguire il Festival nel target di chi ascolta la musica».
Anche perché in Italia, così come nella maggior parte degli altri paesi europei, non esiste una vetrina paragonabile. Dei vecchi festival nazionali della canzone è rimasto quasi solo Sanremo: e questo in un certo senso sta facendo la sua fortuna.
Sia “Soldi” sia “Zitti e buoni”, la canzone con cui i Måneskin hanno vinto l’edizione del 2021 e subito dopo l’Eurovision Song Contest, sono entrate nelle classifiche di mezzo mondo. Il 2 febbraio di quest’anno la playlist di Spotify dedicata alle canzoni in gara al Festival è stata la seconda più ascoltata al mondo. «Viviamo in un mondo in cui la velocità di propagazione dei prodotti culturali è enorme, e Sanremo non sfugge a questa legge», spiega Anselmi.
Buona parte del successo delle ultime edizioni, comunque, si deve ad Amadeus, che dal 2019 ricopre il ruolo di conduttore e direttore artistico. Secondo gli addetti ai lavori gli ultimi Festival sono riusciti così bene, sia dal punto televisivo che da quello musicale, proprio perché Amadeus ha grande dimestichezza con entrambi i mondi, frequentandoli entrambi da quasi trent’anni. E dal 2019 a oggi è riuscito a tenere insieme le esigenze di quasi tutti.
La sua lunga esperienza di conduttore di quiz e varietà, nonché, banalmente, la notorietà del suo volto, sono servite a conservare gli spettatori tradizionali di Rai1. Persino un critico televisivo esigente come Antonio Dipollina ha scritto che quest’anno Amadeus «ha saputo gestire ogni momento con gli ospiti alla perfezione». La proposta musicale invece ha attirato soprattutto i più giovani: cosa che per anni era stata tutt’altro che scontata.
«Se pensi che i sedicenni sono quelli che ascoltano Marco Carta, perdi una larga fetta di loro. Oggi Sanremo è come un grande banchetto di frutta: se non ti piace la mela c’è la pera, così come se non ti piace Sangiovanni ci sono le Vibrazioni. Ci trovi di tutto, ed è sempre più ricco», racconta Anselmi. Poi certo, le canzoni possono piacere o non piacere: l’impressione di diversi addetti ai lavori, per esempio, è che nell’edizione di quest’anno ci siano state meno canzoni belle rispetto a quelle del 2021. Eppure l’edizione è stata ancora più di successo rispetto a quella, già celebrata, dell’anno scorso.
Ma Amadeus non si è limitato a seguire una formula algebrica: molti gli attribuiscono un grande lavoro portato avanti con produttori e musicisti durante l’anno, mesi prima dell’inizio del Festival. Nel 2021 Colasanti portò al Festival forse il vero successo di quell’edizione: “Musica Leggerissima” di Colapesce e Dimartino, in cui Amadeus credette fin da subito, nonostante fosse una canzone molto al di fuori dei classici canoni del Festival.
«Noi eravamo consapevoli che il pezzo era bello», racconta Colasanti, «ma lui ci avvertì fin dal primo ascolto che avevamo in mano qualcosa di grosso: e anzi, nonostante la canzone fosse già lunga ci suggerì addirittura di aggiungere un ritornello alla fine del pezzo. Anche in questo si è dimostrato coraggioso».
In molti si domandano se la rinascita del Festival di Sanremo possa continuare anche senza Amadeus, che già nel 2021 aveva annunciato che non avrebbe più condotto il Festival, per poi cambiare idea pochi mesi dopo.
Anselmi fa notare che oltre ad Amadeus negli ultimi anni hanno svolto un ottimo lavoro anche i dirigenti e gli autori assunti dalla RAI, «gli eroi sconosciuti del Festival», che verosimilmente rimarranno al loro posto anche nelle prossime edizioni, a prescindere da chi sarà il conduttore e direttore artistico. Colasanti spiega che sarebbe difficile tornare indietro e prendere un’altra strada, ora che quella seguita da Amadeus – e tracciata prima di lui da Fazio, Baglioni e Conti – si è rivelata così di successo.
Come ogni evento televisivo e culturale anche la vita del Festival di Sanremo si sviluppa per cicli, ed è nell’ordine delle cose che possa tornare in crisi. Ci sono due ulteriori motivi, però, che rendono piuttosto certi gli addetti ai lavori che il buon momento del Festival durerà almeno qualche altro anno.
Il primo è che da un paio di edizioni a questa parte il Festival sembra si sia saldato perfettamente con le abitudini digitali non solo dei più giovani: il Festival lo si guarda sul divano ma nello stesso tempo lo si commenta con i propri figli o nipoti su WhatsApp, o con una platea più ampia su Twitter o su Instagram. Persino TikTok, un social network usato quasi solo da adolescenti, negli ultimi giorni era pieno di contenuti che provenivano da Sanremo. Ad oggi i video pubblicati con l’hashtag #Sanremo2022 su TikTok hanno ottenuto 708 milioni di visualizzazioni. Quest’anno, inoltre, il gioco del Fantasanremo è arrivato sul palco dell’Ariston citato da quasi tutti i cantanti in gara, a ulteriore conferma di come la rilevanza online sia diventata importante anche in televisione.
«Il coinvolgimento di internet è un elemento che ha fatto aumentare gli ascolti che potevano crescere solo ringiovanendo il pubblico, visto che le altre fasce di età rimangono stabili e fidelizzate da diversi anni. L’apporto nuovo non poteva che venire da internet», ha scritto nei giorni scorsi il critico televisivo Aldo Grasso.
C’è un altro elemento, più sottile, che riguarda più in generale l’approccio ai prodotti culturali e mediali, molto cambiato negli ultimi anni. Luca Barra ha cercato di spiegarlo nel suo ultimo libro pubblicato qualche settimana fa per Laterza, La programmazione televisiva. Palinsesto e on demand, e ritiene che si applichi molto bene a Sanremo. «Per un po’ ci siamo convinti, e siamo stati convinti dalle dinamiche della bolla, che vogliamo vedere le cose dove ci pare e quando ci pare, che cerchiamo la libertà totale delle nostre fruizioni mediali», spiega Barra. «In realtà questo risponde solo in parte ai nostri bisogni. Ho il sospetto che Sanremo stia andando così bene perché è una specie di antidoto alla frammentazione. Più siamo abituati e consapevoli della frammentazione delle nostre vite, più abbiamo bisogno di raccoglierci almeno qualche volta all’anno attorno a eventi collettivi e condivisi, di sincronizzare le nostre visioni e i nostri discorsi a una temporalità trasversale e generalista».