• Sport
  • Giovedì 20 gennaio 2022

Un altro guaio per il Beitar di Gerusalemme

Moshe Hogeg, proprietario della squadra degli ultranazionalisti israeliani, sembrava avesse intenzione di cambiarla veramente, ma è stato accusato di gravi reati

I tifosi del Beitar Gerusalemme a un comizio di Benny Gantz, ex capo di stato maggiore e attuale ministro della Difesa israeliano (Getty Images)
I tifosi del Beitar Gerusalemme a un comizio di Benny Gantz, ex capo di stato maggiore e attuale ministro della Difesa israeliano (Getty Images)

A dicembre del 2020 la squadra di calcio del Beitar Gerusalemme, nota per essere storicamente legata alla destra nazionalista israeliana, cedette la metà delle sue quote ad Hamad Bin Khalifa al Nahyan, descritto come uno sceicco appartenente alla famiglia reale degli Emirati Arabi Uniti. La notizia circolò molto, anche all’estero, perché il Beitar e soprattutto i suoi tifosi si erano distinti negli anni per la loro linea ferocemente anti-araba, raccontata anche dal documentario Forever Pure, vincitore di un premio Emmy.

L’artefice di quell’accordo era stato Moshe Hogeg, imprenditore israeliano nel settore tecnologico e presidente del Blockchain Research Institute all’Università di Tel Aviv. Hogeg era subentrato alla presidenza del Beitar con l’intenzione, almeno all’apparenza, di cambiarne radicalmente la storia. Una volta diventato proprietario si era scontrato più volte con la cosiddetta “Familia”, il gruppo estremista del tifo organizzato a seguito della squadra. Aveva allontanato i più violenti di loro dal Teddy Stadium di Gerusalemme, e convinto altri a evitare le solite dimostrazioni razziste e anti-arabe durante partite e raduni.

La vendita delle quote aveva causato disordini e scontri tra tifosi, ma era sembrata anche un buon segnale per Hogeg e per la squadra. Al suo arrivo Al Nahyan aveva infatti promesso investimenti per oltre 75 milioni di euro, citando gli accordi presi in quel periodo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti. Nel tempo, però, la sua solidità finanziaria aveva sollevato non pochi dubbi, confermati dalle indagini della federazione calcistica israeliana, che ha notato come molti dei fondi da lui indicati fossero in realtà obbligazioni non negoziabili emesse dal governo venezuelano.

Le sue società, inoltre, si erano rivelate una rete di controllate che non conduceva a nulla. Anche i legami di Al Nahyan con la famiglia reale degli Emirati Arabi Uniti sono stati messi in dubbio, senza che si sia arrivati ancora a una risposta.

Moshe Hogeg nel 2020 tra i tifosi del Beitar Gerusalemme (Getty Images)

Negli ultimi mesi le perplessità sono passate da Al Nahyan a Hogeg, prima considerato vittima di un raggiro e successivamente arrestato assieme ad altri sette soci accusati di una lunga serie di reati, compresa un truffa piramidale in criptovalute. Hogeg ha inoltre ricevuto accuse di frode, furto, appropriazione indebita e riciclaggio di denaro, ma anche traffico di prostituzione e aggressioni sessuali.

«Se le accuse saranno provate in tribunale — ha scritto il quotidiano Haaretz — Hogeg passerà da prodigio e impavido combattente contro il razzismo a essere considerato il lato oscuro del settore tecnologico israeliano». Haaretz ha scritto inoltre che parte delle indagini sul suo conto si sta concentrando sulla possibilità che l’acquisto del Beitar sia stata una copertura per il riciclaggio di denaro.

In quel caso, non sarebbe il primo proprietario del Beitar ad aver usato la squadra per scopi personali. Nel 2018 il suo predecessore, Eli Tabib, cambiò temporaneamente il nome del club in Beitar Trump dopo il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel-Aviv a Gerusalemme. Lasciò la proprietà dopo una condanna per frode e da allora ha subìto tre tentativi di omicidio.

Nei primi anni Duemila, invece, l’oligarca russo di origini israeliane Arcadi Gaydamak si presentò a Gerusalemme investendo nella squadra svariati milioni di dollari che portarono alla vittoria di due campionati nazionali. Nel 2008 si candidò alle elezioni per il sindaco di Gerusalemme, e lì si iniziò a capire quali fossero le sue reali intenzioni. Gaydamak aveva comprato il Beitar per ottenere consensi, ma non ebbe successo e alle elezioni ottenne poco più del 3 per cento. Dopo la sconfitta elettorale abbandonò progressivamente il Beitar fino a lasciarlo al miglior offerente.

Secondo Haaretz, considerando queste recenti esperienze, non è difficile capire perché, mentre a Gerusalemme «non mancano i filantropi disposti a finanziare istituzioni pubbliche e programmi comunitari, nessun investitore serio e rispettabile sia disposto ad acquistare la più grande squadra di calcio della città», che anche in campionato non se la sta passando bene: è quartultima e dovrà faticare per non retrocedere.