Il James Webb Space Telescope è in viaggio

Dopo 25 anni di preparazione, il telescopio spaziale più grande e potente mai realizzato è partito oggi, alla ricerca di come tutto ebbe inizio

di Emanuele Menietti – @emenietti

Il JWST poco dopo il lancio, con la Terra sullo sfondo (NASA)
Il JWST poco dopo il lancio, con la Terra sullo sfondo (NASA)

Oggi, alle 13:20 ora italiana è stato lanciato il James Webb Space Telescope (JWST), il telescopio spaziale più grande e potente mai realizzato, che ci aiuterà a migliorare radicalmente le nostre conoscenze dell’Universo.

Il JWST è partito dalla Guyana francese su un razzo Ariane 5, e ha intrapreso un viaggio di milioni di chilometri per raggiungere il punto, a debita distanza dalla Terra, dal quale osserverà il cosmo come non era mai stato possibile fare prima. Esplorerà galassie lontanissime, consentendoci in un certo senso di viaggiare nel tempo.

Il grande specchio da 6,5 metri di diametro di JWST, il sistema ottico che raccoglie la luce e la indirizza verso i sensori del telescopio, ha trascorso diverso tempo ripiegato su se stesso all’interno del razzo in attesa degli ultimi preparativi per il lancio. Ora che è in viaggio, si aprirà come un origami, effettuando una complicata coreografia di movimenti mai tentata prima nello Spazio e cruciale per la riuscita della missione.

“Semplice” non è del resto la prima parola che viene in mente pensando al nuovo telescopio.

Un grande telescopio, grande
L’idea di spedire nello Spazio un telescopio così grande iniziò a circolare tra gli astronomi e la NASA negli anni Novanta, poco tempo dopo il lancio del telescopio spaziale Hubble, che in circa 30 anni di carriera ha permesso di effettuare innumerevoli osservazioni e scoperte su stelle, galassie, nebulose e buchi neri.

Hubble fu la migliore dimostrazione della possibilità di costruire un osservatorio in orbita, escludendo le distorsioni causate dall’atmosfera terrestre che complicano spesso la vita ai telescopi qui sulla Terra. Se era possibile farlo con uno strumento dotato di uno specchio dal diametro di 2,4 metri, allora c’erano buone possibilità di costruire e portare in orbita telescopi ancora più grandi, pensarono diversi esperti di astronomia e ingegneri.

All’epoca Alan Dressler, ora all’osservatorio Carnegie di Pasadena (California), era il responsabile di un comitato incaricato di esplorare la possibilità di costruire un grande telescopio di nuova generazione, in grado di osservare corpi celesti a miliardi di anni luce da noi, talmente distanti da essere stati tra i primi a prodursi durante la turbolenta fase di formazione dell’Universo circa 13,8 miliardi di anni fa.

Le prime proposte furono per un telescopio spaziale con un diametro di 4 metri, poco meno del doppio rispetto ad Hubble, e con strumenti tarati per compiere osservazioni nell’infrarosso, cioè la radiazione elettromagnetica con una frequenza inferiore a quella della luce visibile che non può essere colta dai nostri occhi, ma che permette di osservare oggetti luminosi a grandissima distanza. L’intera iniziativa sarebbe costata circa un miliardo di dollari e avrebbe richiesto tempi relativamente brevi per essere realizzata. Almeno così pensavano Dressler e le altre persone del comitato.

L’amministratore di allora della NASA, Dan Goldin, manifestò l’interesse dell’agenzia spaziale statunitense per il progetto, ma con un po’ più di ambizione, forse troppa. Contestò a Dressler di essere stato troppo cauto e disse che l’iniziativa avrebbe avuto senso solo realizzando un telescopio con uno specchio molto più grande, da 8 metri di diametro.

L’annuncio fu accolto con grande interesse dalla comunità astronomica, ma fu anche il punto di partenza di uno dei progetti più difficili, travagliati e costosi nella storia recente della NASA e dell’Agenzia spaziale europea (ESA) e canadese, entrambe partner nel progetto.

Lo specchio primario di Hubble a confronto con quello del JWST (NASA)

Il piano molto ambizioso fu in seguito rivisto, arrivando al compromesso di uno specchio di 6,5 metri che comunque non sarebbe stato possibile portare in orbita già aperto, a causa dell’ingombro rispetto allo spazio offerto da qualsiasi razzo. Fu quindi necessario pensare a un sistema mai sperimentato prima e che, insieme ad altre modifiche al progetto, determinò un aumento considerevole dei costi di realizzazione.

La data di consegna slittò svariate volte a causa dei problemi tecnici, derivanti per lo più dalla necessità di sviluppare soluzioni tecnologiche del tutto nuove e inesplorate. La NASA ipotizzò di avere il JWST pronto per la fine del 2011 spendendo in totale circa 5 miliardi di dollari, ma i ritardi si accumularono, tanto che a un certo punto il Congresso degli Stati Uniti (che decide i finanziamenti per la NASA) valutò la possibilità di bloccare il progetto, che però era ormai in fase troppo avanzata per essere fermato.

Alla fine furono necessari 25 anni per progettare e terminare il telescopio, con una spesa di 10 miliardi di dollari.

Origami
A vederlo nelle fotografie e nelle animazioni al computer, il JWST sembra più un’avveniristica astronave che un telescopio. Colpiscono la sua forma, le superfici riflettenti e naturalmente il grande specchio dorato che sormonta l’intera struttura.

È formato da diciotto esagoni rivestiti da una sottilissima lamina di oro, che rende la superficie resistente e soprattutto riflettente. Dodici esagoni costituiscono il corpo centrale dello specchio, mentre altri sei (tre per lato) sono ripiegati in modo da occupare meno spazio e si apriranno una volta in orbita, un po’ come una pala d’altare.

Test di apertura dello specchio del JWST (NASA)

Anche lo specchio secondario, che raccoglie la luce proveniente dagli esagoni, viaggia ripiegato e si aprirà grazie ad alcuni lunghi supporti che lo faranno rimanere sospeso davanti allo specchio principale a 7,4 metri di distanza.

Test di apertura dei supporti dello specchio secondario (NASA)

Scudo
Per raffreddare gli strumenti ed evitare che gli sbalzi di temperatura influiscano sulle rilevazioni, il JWST farà affidamento su un grande scudo termico, una specie di parasole, grande quanto un campo da tennis.

È fatto di Kapton, una materia plastica piuttosto resistente e che viene impiegata per lo strato esterno delle tute spaziali. Ne sono stati messi insieme cinque strati, separati tra loro, che avranno il compito di dissipare il calore e riflettere la luce solare, lasciando gli specchi del telescopio a una temperatura media intorno ai -230 °C.

Lo scudo termico del JWST in una fase di assemblaggio nell’estate del 2014 (NASA Goddard Space Flight Center)

Anche lo scudo termico dovrà aprirsi, ed è stato uno degli elementi più difficili da realizzare, e tra le cause dei ritardi nello sviluppo del telescopio. Nel 2018 un test per provare a farlo dispiegare andò storto: parte del Kapton si impigliò in un altro elemento del telescopio e iniziò a tagliarsi. In precedenza, un altro test aveva evidenziato un problema nella tenuta di alcune viti se sottoposte a certe vibrazioni. Furono poi rilevati problemi di tenuta di alcune valvole, che avrebbero potuto compromettere il funzionamento di altre strumentazioni.

Successi e inciampi
Al di là dei ritardi e degli imprevisti, JWST ha comunque accumulato numerosi successi, che hanno infine reso possibile il lancio di oggi. A marzo dello scorso anno, nonostante le difficoltà della pandemia, un importante test per verificarne il comportamento simulando l’assenza di peso è stato un successo, così come le attività di assemblaggio per impacchettare il telescopio e inserirlo sul razzo Ariane 5.

Un problema a un sostegno dopo l’arrivo del telescopio nella Guyana Francese, che ha rischiato di danneggiare seriamente lo strumento, aveva portato a un rinvio di quattro giorni del lancio, dal 18 al 22 dicembre. Un successivo problema a un cavo per la trasmissione dei dati aveva reso necessario un ulteriore rinvio al 24 dicembre, data poi scartata a causa delle condizioni meteo, con una ripianificazione per il giorno di Natale.

Oltre ai problemi tecnici, c’è stata anche qualche polemica. Il telescopio deve il proprio nome a James Edwin Webb, secondo amministratore della NASA e tra i principali artefici del programma Apollo, che portò per la prima volta gli esseri umani sulla Luna. La scelta del nome non è però piaciuta a tutti: c’è chi avrebbe preferito il nome di una scienziata o di uno scienziato, mentre altri hanno segnalato che Webb ebbe un ruolo importante nelle attività per espellere molti omosessuali dal Dipartimento di Stato, quando lavorava per l’amministrazione del presidente Truman.

Viaggio
Il JWST viaggerà per alcune settimane fino a raggiungere la sua orbita, che lo porterà a trovarsi a quasi 1,5 milioni di chilometri da noi, nei periodi di massima distanza dalla Terra.

Lontano dal bagliore e dalle interferenze del nostro pianeta, il telescopio potrà effettuare osservazioni più accurate e precise. Saranno poi necessari circa sei mesi per tarare tutte le strumentazioni, al termine dei quali il telescopio potrà iniziare a osservare ciò che ci circonda come non era mai stato possibile fare prima.

Destinazione del JWST rispetto al Sole e alla Terra (CSA)

Origini
Il James Webb Space Telescope avrà infatti la capacità di osservare le prime cose che si produssero durante il Big Bang, il modello cosmologico più condiviso dalla comunità scientifica per spiegare i processi che portarono all’espansione dell’Universo da uno stato iniziale dove tutto l’esistente era ad altissima densità e temperatura, 13,8 miliardi di anni fa.

Secondo il modello, nelle primissime fasi di esistenza dell’Universo si produssero le prime stelle, molto diverse da quelle che possiamo osservare ora nel cielo. Si ipotizza che fossero costituite da due soli elementi (elio e idrogeno) e che fossero centinaia di volte più dense del Sole. Al termine della loro breve esistenza (in termini astronomici), produssero gigantesche esplosioni (supernove) e disseminarono lo Spazio di altri elementi, che infine costituirono gli ingredienti principali per la formazione delle altre stelle, dei pianeti e in ultima istanza delle nostre esistenze.

Le tracce di queste antiche stelle primordiali sono teoricamente ancora visibili, perché talmente lontane da richiedere miliardi di anni alla loro luce per attraversare tutto lo Spazio e raggiungerci. Il JWST non ha però la sensibilità necessaria per osservare luci così flebili, ma potrebbe rilevare la presenza dei gruppi di stelle che formarono le galassie primordiali, prima di esplodere producendo eventi più luminosi.

Con questa tecnica negli scorsi anni è stato possibile compiere qualche osservazione con Hubble, spingendosi a identificare una galassia che si formò appena 400 milioni di anni dopo l’inizio di tutto. La NASA e gli altri enti di ricerca sperano che con il nuovo telescopio si possa arrivare a 100 milioni di anni. L’osservazione di galassie così antiche potrebbe essere la via per comprendere come si formarono le attuali galassie e capire come mai abbiano al loro centro buchi neri supermassivi, cioè con una massa di milioni o miliardi di volte quella del nostro Sole.

Misure e nuovi pianeti
Il JWST potrà anche essere utilizzato per determinare con maggiore precisione la velocità a cui si sta espandendo l’Universo. Il problema è dibattuto da anni, sembra essere stato quasi risolto grazie ai dati raccolti da Hubble e non solo, ma sono poi emersi altri elementi che hanno rimesso in discussione parte degli assunti iniziali. Determinare la velocità di espansione è fondamentale per calcolare correttamente la distanza tra le galassie e più in generale l’evoluzione dell’Universo.

Ma c’è anche qualcos’altro che il James Webb Space Telescope ci potrà aiutare a studiare, in un ambito dell’astronomia che era ancora marginale quando iniziò la costruzione del telescopio e che ora è uno dei più interessanti e vivaci: la ricerca di pianeti all’esterno del nostro sistema solare (esopianeti).

I sette pianeti che orbitano intorno a TRAPPIST-1, messi in fila a seconda della loro distanza (non in scala) dalla stella, in un’elaborazione grafica (NASA/R. Hurt/T. Pyle)

Negli ultimi anni, è stato possibile confermare l’esistenza di migliaia di esopianeti e grazie al JWST sarà possibile esaminarne alcuni, trovando indizi sulla composizione della loro atmosfera e l’eventuale presenza di elementi che qui sulla Terra sono associati alla vita.

Il telescopio è già stato prenotato da gruppi di ricerca per lo studio di una sessantina di esopianeti e tra questi ci sono anche i sette che orbitano intorno a TRAPPIST-1, una “nana rossa”, cioè una stella più piccola e fredda del Sole, a 40 anni luce da noi. Tre di questi sono considerati potenziali candidati per avere acqua sulla loro superficie, condizione che renderebbe più probabile (ma non certa) l’esistenza di forme di vita, almeno per come le conosciamo.

Una ricerca riguarderà in particolare TRAPPIST-1e, considerato il miglior candidato per essere abitabile. Il telescopio sarà impiegato per provare a rilevare l’esistenza di un’atmosfera, che potrebbe nascondere qualche sorpresa.

Se tutto andrà liscio dopo il lancio e l’apertura dello specchio, il James Webb Space Telescope potrà compiere osservazioni per almeno cinque anni, anche se le agenzie spaziali sperano di poterne estendere l’impiego fino a dieci anni. A differenza di Hubble, astronomicamente dietro l’angolo, il nuovo telescopio sarà molto distante dalla Terra e non potrà ricevere alcuna forma di manutenzione. Sarà da solo a oltre un milione di chilometri da noi e la durata della sua missione sarà condizionata dalla limitata disponibilità di propellente, che potrà impiegare per correggere la sua orbita, mentre darà uno sguardo per noi nel nostro passato cosmico.