10 momenti da vedere in “The Beatles: Get Back”

Per chi è spaventato dalle otto ore complessive, ma non vuole perdersi le sequenze più sorprendenti e memorabili

Da una settimana è disponibile su Disney+ The Beatles: Get Back, un documentario che mostra i giorni in cui, nel gennaio del 1969, i Beatles passarono tre settimane insieme per scrivere e provare alcune canzoni per un nuovo disco, con l’obiettivo di suonarle poi in uno spettacolo televisivo dal vivo davanti a un pubblico. Il documentario, realizzato dal regista Peter Jackson, sta piacendo tanto e sta diventando un argomento di discussione, ma è molto lungo: circa 8 ore. Una durata che probabilmente scoraggerà qualcuno, che pur interessato rinuncerà a vederlo tutto: col rischio di perdersi i suoi momenti migliori, sparpagliati nelle tre puntate.

Il documentario condensa in tre parti decine di ore di filmati mai visti e di registrazioni audio mai ascoltate, realizzate durante quei giorni di prove. La prima puntata è ambientata negli studi di posa di Twickenham, alla periferia di Londra, dove si sarebbe dovuto tenere uno spettacolo per la TV. La seconda e la terza si svolgono invece nella sede della Apple Records, a Savile Row, nel centro di Londra, dove i Beatles si erano spostati una volta capito che lo spettacolo televisivo non si sarebbe fatto.

The Beatles: Get Back è stato accolto molto positivamente per la qualità e quantità del materiale inedito che raccoglie. Ha stupito soprattutto la presenza di filmati e registrazioni audio che raccontano i dissidi all’interno della band, sfociando talvolta in momenti di frustrazione, e che da lì a due anni sarebbero diventati sempre più frequenti fino allo scioglimento. Ma ci sono anche diversi altri momenti del tutto inaspettati per gli spettatori, come quando alcune canzoni vengono improvvisate per la prima volta, o quando alcuni membri dei Beatles suonano pezzi che finiranno poi nei rispettivi dischi solisti.

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La nascita di “Get Back”
L’impressione è che ci sia già una sequenza che ha entusiasmato gli spettatori più di tutte le altre: è quella che mostra la nascita di “Get Back”che diverrà una delle canzoni più note dei Bealtes negli anni a venire. È martedì 7 gennaio, il quarto giorno di prove a Twickenham. Negli studi ci sono Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr. John Lennon è in ritardo, quindi le prove non possono cominciare, dato che manca chi suoni la chitarra ritmica.

McCartney prende il suo basso e inizia a strimpellare alcuni accordi blues, sulla melodia che poi diventerà quella di “Get Back”, aggiungendo parole a caso. Ringo Starr lo guarda attentamente mentre George Harrison inizialmente sbadiglia. Entrambi poco dopo si uniscono a McCartney, il primo battendo a ritmo le mani e il secondo con la chitarra. McCartney a questo punto improvvisa anche il ritornello, con le parole che poi finiranno nel testo definitivo. Come in altri casi, per via del montaggio del documentario, non è semplice farsi un’idea di quanto McCartney avesse già in mente melodia e struttura della canzone, prima di quel momento: apparentemente poco, comunque. La scena inizia dopo 1 ora e 2 minuti, nella prima puntata.

Più avanti, a un’ora e 53 minuti circa, ci sono altre riprese della composizione della canzone, in cui McCartney prova dei testi alternativi che a differenza di quello finale contenevano riferimenti più espliciti alla propaganda xenofoba e anti-immigrazione del governo britannico.

La frustrazione di George Harrison
Ci sono diversi momenti all’interno del documentario che mostrano l’insofferenza di George Harrison per il suo ruolo all’interno della band. In alcuni passaggi Harrison parla apertamente del suo desiderio che i Beatles registrino più pezzi scritti da lui (come successo rare volte nei dischi precedenti), e nella terza puntata dice anche chiaramente di voler realizzare un disco solista, per poter dare maggiore spazio alle sue canzoni.

Nel documentario la tensione tra Harrison e gli altri membri del gruppo, specialmente McCartney che aveva assunto di fatto la leadership creativa della band, emerge a partire dalla prima puntata, dopo circa 59 minuti. Alcuni minuti prima Paul McCartney aveva alcune cose da ridire sul modo in cui Harrison suonava la chitarra nelle prove della canzone “Two of Us”. Spazientito, Harrison risponde a McCartney: «Va bene, suonerò quello che vuoi. O non suonerò affatto se non vuoi che suoni. Qualunque cosa ti faccia piacere, la farò». La dinamica e il tono dello scambio sono interessanti, soprattutto se confrontati con lo sviluppo presentato successivamente, a 2 ore e 16 minuti, durante una prova di “Get Back”. Quelli di McCartney assomigliano sempre di più a degli ordini, che evidentemente esasperano Harrison, pur in un contesto di confronto posato e civile. Poco dopo infatti Harrison annuncerà di voler lasciare i Beatles, salvo poi essere convinto a tornare.

«Non sto dicendo che lo dovete al mondo»
Tra i dialoghi più interessanti di tutto il documentario ci sono quelli della band con i produttori e i manager sul concerto in programma. Ci sono tante idee, ma a pochi giorni dalla data l’organizzazione è in alto mare: i Beatles non riescono nemmeno a mettersi d’accordo se farlo in Inghilterra o all’estero. A partire da un’ora e 31 minuti nella prima puntata, c’è tutta una parte in cui il regista Michael Lindsay-Hogg, che doveva dirigere lo speciale televisivo davanti al pubblico, prova a spiegare a Ringo Starr che i Beatles in sostanza hanno il dovere morale di suonare dal vivo. «Non sto dicendo che lo dovete al mondo» dice Lindsay-Hogg, nell’apparente tentativo di convincere Starr del contrario. Non ha successo: Starr, piuttosto placidamente, dice che non ha voglia di andare fino in Libia, dove è stato individuato un anfiteatro romano che sarebbe molto suggestivo per le riprese.

Più avanti, la band fa una specie di “brainstorming” per trovare delle idee: si ipotizza di portare centinaia di fan della band in Nord Africa su alcune navi, di fare il concerto in una fattoria in Scozia, qualcuno cita la Jugoslavia, oppure il Cavern di Liverpool, il locale dove sette anni prima era cominciata la carriera dei Beatles.

Harrison racconta la serie di fantascienza che ha visto la sera prima
Dal documentario emerge, tra le altre cose, che i Beatles la sera guardavano la televisione. Una mattina Harrison racconta infatti una puntata della serie di fantascienza Out of the Unknown che ha visto la sera prima su BBC, aiutato da Starr che a sua volta l’aveva guardata. Si lamenta poi del fatto che dopo era andata in onda «una cazzata sulle medaglie e cose varie», un programma che mostrava tra le altre cose un ricevimento probabilmente austriaco. Il valzer in sottofondo, però, lo ha ispirato per comporre un breve stralcio di canzone, che piace agli altri membri della band: diventerà “I Me Mine”, una canzone con un tempo in 3/4, come quello del valzer. È nella prima puntata, a un’ora e 21 minuti.

“Let It Be”, una delle prime volte
A due ore e quattro minuti, nella prima puntata, McCartney lavora con gli altri Beatles a “Let It Be”, che diventerà una delle canzoni più famose della band, pubblicata nell’omonimo disco uscito dopo lo scioglimento. È un bel momento del documentario per capire come componevano e arrangiavano i pezzi, e include anche Linda McCartney e Yoko Ono intente in un’appassionata conversazione.

La conversazione spiata tra Lennon e McCartney
Il ruolo di Harrison nel gruppo e la possibilità che i Beatles si sciolgano per lasciare a ogni membro la libertà di esprimere la propria creatività da solista sono al centro di una conversazione registrata con un microfono nascosto in vaso di fiori. George Harrison non si è presentato alle prove dopo le discussioni dei giorni precedenti, e Lennon e McCartney hanno una conversazione molto franca sui problemi della band, e sul ruolo dominante di McCartney nelle decisioni artistiche dei Beatles. La scena inizia dopo 11 minuti nella seconda puntata.

L’arrivo di Billy Preston
Dopo aver annullato lo spettacolo televisivo ed essersi spostati negli studi della sede della Apple Records, i Beatles ricominciano a provare nuove canzoni con l’idea di suonarle dal vivo, anche se non sanno ancora dove di preciso. Nel corso delle prove passa a salutarli Billy Preston, tastierista e organista afroamericano che suonava con Little Richard, e con cui la band aveva fatto amicizia negli anni precedenti. Già che si trova lì gli chiedono di unirsi alle prove e cominciano a suonare “I’ve Got a Feeling” (dopo 1 ora e 26 minuti, nella seconda puntata). Dopo poche note si accorgono subito che il suono di Preston è perfetto per i pezzi che stanno componendo, e Paul McCartney fa questa faccia.

Ringo suona al piano “Octopus’ Garden”
All’inizio della terza puntata, dopo circa 2 minuti, c’è un momento piuttosto insolito per i Beatles: Ringo Starr, il batterista, che suona al piano una canzone scritta da lui, “Octopus’s Garden”, che finirà poi nel disco Abbey Road. La canzone è la seconda scritta da Starr dopo “Don’t pass me by” del 1968, e le sue abilità di compositore non sono evidentemente al pari di quelle degli altri tre membri della band. Nella scena, infatti, Harrison lo aiuta a trovare gli accordi giusti per comporre la melodia del pezzo.

Tutto il concerto sul tetto
Per la qualità delle immagini, tutta la parte che mostra gli immediati preparativi e il concerto sul tetto della Apple Records, il 30 gennaio 1969, merita la visione, anche se quei filmati sono tra i più noti e visti della storia della band. Occupa tutta l’ultima parte del documentario, a partire da un’ora e 22 minuti nella terza puntata.

L’ascolto delle registrazioni dopo il concerto sul tetto
Il documentario di Jackson non mostra solo quello che successe prima del concerto, ma anche quello che successe dopo. Dopo il fallimento delle prove di Twickenham, i diverbi e le difficoltà tecniche, i Beatles erano infine riusciti a suonare dal vivo i pezzi composti nel giro di pochi giorni. Dopo il concerto si riuniscono in studio e ascoltano le registrazioni, finalmente soddisfatti. La scena si trova al termine della terza puntata, dopo 2 ore e 7 minuti circa.