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  • Venerdì 26 novembre 2021

La storia di Giorgio Vale, terrorista neofascista e afroitaliano

Figlio di un eritreo e di un'italiana fu tra i leader dei NAR, con i quali partecipò ad attentati, esecuzioni e rapine

Giorgio Vale in una foto segnaletica di fine anni Settanta
Giorgio Vale in una foto segnaletica di fine anni Settanta

Giorgio Vale è stato un terrorista neofascista italiano, uno dei capi dei NAR, i Nuclei Armati Rivoluzionari, e tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta agì tra gli altri al fianco di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini, Stefano Soderini e Gilberto Cavallini. Vale è stato definito Il corpo estraneo nel titolo del libro che hanno scritto recentemente su di lui gli storici Carlo Costa e Gabriele Di Giuseppe: sua madre era infatti italiana e suo padre eritreo, cosa che fece di Vale l’unico terrorista neofascista nero dei cosiddetti “anni di piombo” in Italia, e probabilmente tra i pochissimi in Europa.

Il libro parte con una domanda: come spiegarsi l’esperienza di Giorgio Vale, militante di spicco dell’estrema destra armata, e contemporaneamente afroitaliano? «La vicenda di Vale, neofascista irriducibile», scrivono Costa e Di Giuseppe, «morto poco più che ventenne in un maggio di inizio anni Ottanta , non è una storia esemplare ma una storia apparentemente inspiegabile, una vicenda difficile da dipanare».

La storia di Giorgio Vale è comune a quella di centinaia di altri giovani che in quegli anni decisero di armarsi e sparare per le strade, ispirati dal ribellismo e dalla lotta antisistema che caratterizzavano anche alcuni gruppi di estrema destra. Partecipò come sparatore o come elemento di copertura ad alcuni dei più feroci delitti commessi dai NAR, che spesso presero di mira le forze dell’ordine: un modo per distinguersi dalla generazione precedente di terroristi neofascisti, quella di Franco Freda e Giovanni Ventura, accusati di essere collusi con l’esercito, con i servizi segreti, con lo Stato.

Di lui si sa poco, eppure è stata una figura importante di quegli anni. «È ovvio che l’elemento familiare, il fatto che avesse la pelle scura, è stato uno degli elementi di curiosità e interesse all’inizio della nostra ricerca», dice Costa. «Ma andando avanti è stato chiaro che la storia di Vale si integra bene in quella dei due gruppi in cui ha militato, anche contemporaneamente, Terza Posizione e i NAR».

Suo padre, Umberto Vale, era a sua volta figlio di un uomo italiano e di una donna eritrea, e lasciò l’Africa nel 1929 partendo dal porto di Massaua. A Roma faceva il barbiere, e sposò Anna Antonia Garofali, la figlia del titolare di una segheria di travertino di Tivoli. Il corpo estraneo ricostruisce la sua storia di ragazzo cresciuto a Roma, nel quartiere della Balduina, figlio sia della borghesia di quegli anni sia della storia coloniale italiana. Il padre non si capacitava della sua scelta: «Sei andato dietro a loro come un cagnolino» gli diceva ricordandogli gli appellativi razzisti con cui veniva definito. Nel suo gruppo veniva infatti chiamato “il Drake”, come il corsaro inglese mito dei neofascisti, ma anche “il Negretto”.

Una scritta su un muro vicino al luogo dove fu ucciso Vale (Foto Spazio70)

Vale si avvicinò alla destra radicale nel suo quartiere, la Balduina, «un quartiere cerniera tra quelli rossi e quelli neri», dice Costa. «Quando abbiamo chiesto al fratello e ad altri come mai si fosse avvicinato a gruppi neofascisti, tutti hanno risposto in maniera vaga: “l’ambiente”».

La prima volta che il nome di Giorgio Vale comparve in un rapporto di polizia fu il 16 marzo 1979, arrestato per una rissa con militanti dei movimenti di sinistra. Era già allora militante del gruppo studentesco di Terza Posizione, il movimento fondato a fine anni settanta da Roberto Fiore, oggi capo di Forza Nuova e in carcere per l’assalto alla sede del CGIL del 9 ottobre, assieme a Gabriele Adinolfi e Giuseppe Dimitri. Conobbe nel 1979 Valerio Fioravanti e i suoi amici, molti dei quali erano usciti dal Movimento Sociale Italiano e decisi a prendere strade diverse. Disse Fioravanti: «Nell’MSI volevano che noi prendessimo le botte e le restituissimo, però senza esagerare. Noi invece volevamo restituirne di più».

Il gruppo di Fioravanti, che si era dato il nome NAR, aveva già ucciso. Il 28 febbraio 1978, due mesi dopo l’assassinio di Francesco Ciavatta e Franco Bigonzetti, due giovani militanti missini della sezione romana di Acca Larentia, Valerio Fioravanti, il fratello Cristiano, Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi e altre cinque persone decisero di mettere in atto un’azione di vendetta. Volevano inizialmente attaccare una casa occupata, che però il giorno prima era stata sgomberata dalla polizia. Puntarono quindi verso i giardini di piazza San Giovanni Bosco e iniziarono a sparare contro un gruppo di ragazzi seduti sulle panchine. Uno di loro, Roberto Scialabba, operaio e militante di sinistra, cadde a terra: Fioravanti gli salì a cavalcioni e gli sparò due colpi alla testa.

Mentre Vale continuava a mantenere il suo ruolo in Terza Posizione – era a capo del gruppo operativo e faceva rapine per finanziare il movimento – si avvicinò sempre di più ai NAR fino a condurre una doppia militanza, all’insaputa dei dirigenti di Terza Posizione.

Con i NAR, Vale compì la prima azione il 6 febbraio 1980. Assieme a Valerio Fioravanti cercò di rubare il mitra Beretta M-12 di un agente di polizia in servizio davanti all’ambasciata del Libano. L’agente reagì, e Fioravanti lo uccise. Nel libro di Costa e Di Giuseppe, l’amico Lorenzo Soderini ricorda che «Giorgio era completamente ipnotizzato dal contesto, coinvolto specialmente da Fioravanti».

Valerio Fioravanti e Francesca Mambro durante il processo per l’omicidio del giudice Amato

Il libro include molte testimonianze dirette che aiutano a inquadrare il ruolo di Vale all’interno dei gruppi neofascisti, e anche la percezione che avevano di lui gli altri militanti, nonché il trattamento che gli riservavano. Roberto Nistri, che con Vale militò in Terza Posizione e nei NAR, sostiene che «l’ambiente era quello che era (…) è chiaro che il fascista è razzista, però alla fine non gliene fregava niente a nessuno». Gli appellativi razzisti erano comunque la norma. In un’occasione, racconta Nistri, Roberto Fiore disse di Vale: «è un figo, per essere un negro».

«Che Giorgio Vale fosse figlio di un uomo di colore era evidente a occhio nudo. Eppure, nessuno poteva azzardarsi a commentare la cosa. (…) credo anche che lui non se ne sia mai fatto un problema. Io me lo ricordo come una persona molto silenziosa» ha ricordato nel libro Elena Venditti, ex militante di Terza Posizione.

Secondo la testimonianza di una donna che all’epoca era militante di sinistra, «Giorgio era molto bello e molto cattivo, veramente però non era strano che fosse nero, non stonava (…) era molto pariolino come stile, insomma», ha raccontato nel libro riferendosi agli abitanti dei Parioli, quartiere benestante di Roma Nord.

Il 28 maggio 1980 Vale, Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, a bordo di due Vespe, andarono davanti al liceo romano Giulio Cesare. Volevano disarmare gli agenti di polizia che abitualmente stazionavano davanti alla scuola. Doveva essere un’azione eclatante, ideata dallo stesso Vale, per recuperare nuove armi e fare colpo sugli studenti. Finì con l’uccisione dell’agente Franco Evangelista, molto noto nel quartiere, chiamato Serpico, come il protagonista del film di Sidney Lumet con Al Pacino. Il giorno dopo il Messaggero scrisse:

«Serpico nel quartiere è popolarissimo. Lo chiamano così perché è un poliziotto bravo e spericolato, protagonista di molte avventure. Ha arrestato banditi durante alcune rapine, è stato scaraventato dalla finestra da un ladro che aveva sorpreso in un appartamento, si è travestito con barba e parrucche finte per catturare spacciatori d’eroina».

Il rapporto di Vale con i NAR durò pochi anni e fu molto violento, «una corsa verso la distruzione», dice Costa, «con una componente nichilista e senza la possibilità di fermarsi. Furono fermati dalla morte e dagli arresti. Giorgio Vale è uno di quelli che andarono avanti più di tutti, non riuscì a smettere».

Il 23 maggio 1980 i NAR uccisero a Roma il giudice Mario Amato. Era senza scorta alla fermata dell’autobus. Da due anni indagava sul terrorismo neofascista, in Procura era completamente isolato e il suo capo gli diceva che indagava «sui fantasmi». Il suo capo era il giudice istruttore Antonio Alibrandi, padre di Alessandro, uno dei capi dei NAR.

In seguito si susseguirono omicidi e rapine. Vale e i due fratelli Fioravanti uccisero Francesco Mangiameli, dirigente di Terza Posizione accusato di aver rubato soldi che sarebbero serviti a organizzare la fuga dal carcere del terrorista fascista Pierluigi Concutelli. Il 28 agosto 1980, 26 giorni dopo la strage alla stazione di Bologna, la magistratura emise 28 ordini di cattura contro dirigenti di Terza Posizione e dei NAR. Fioravanti, Vale, Mambro, Cavallini e Soderini iniziarono a muoversi in tutta Italia. A Milano fecero rapine con un membro della banda di Renato Vallanzasca, Mauro Addis. Durante le rapine sparavano e uccidevano.

Gilberto Cavallini all’uscita del tribunale di Bologna in cui è stato condannato all’ergastolo, nel gennaio 2020, per la strage del 2 agosto 1980 (Foto Ansa/Giorgio Benvenuti)

Durante la latitanza, Vale continuò a essere in contatto con la famiglia. Il padre Umberto gli scrisse:

«Ciò che hai fatto o non hai fatto, la verità la sai tu (…) Si fa impellente la tua costituzione volontaria, è un punto a tuo favore. Questa sera (23-12-1980) abbiamo visto e sentito le belle prodezze dei tuoi amici. Vale la pena stargli vicino? Scarica tutto se no vai a finire morto sull’asfalto».

Il fratello Riccardo ricorda che una notte gli vennero rubati moto e scooter dal garage: si convinse che era stata la polizia per costringerlo a muoversi in auto, più facile da pedinare. Il 30 luglio 1981 il nome di Giorgio Vale comparve nelle comunicazioni giudiziarie come partecipante alla strage di Bologna (fu poi escluso un suo ruolo). Vale divenne uno dei latitanti più ricercati e pericolosi d’Italia.

Quell’anno vennero arrestati i più importanti capi dei NAR. Il 5 febbraio 1981 toccò a Padova a Valerio Fioravanti, dopo una sparatoria in cui morirono i carabinieri Enea Codotto e Luigi Maronese. Due mesi dopo venne catturato suo fratello Cristiano, che iniziò subito a collaborare con la magistratura. Il 2 aprile presso il confine svizzero di Gaggiolo fu arrestato Massimo Carminati, dopo un conflitto a fuoco che gli causò la perdita dell’occhio destro.

Il 10 luglio 1981, Vale irruppe in casa di Giuseppe De Luca, detto Pino il calabro, un membro dei NAR accusato di essere un traditore. Lo inseguì fino in bagno, incurante dei familiari dell’uomo,  e lo uccise.

Tre mesi dopo i NAR tesero un agguato ad Acilia al capitano della Digos Francesco Straullu, che indagava sulle bande terroriste fasciste. Pensavano che viaggiasse su un’auto blindata e utilizzarono mitra e fucili d’assalto con proiettili traccianti. L’auto era normale, non blindata: fu un massacro. Con Straullu morì l’agente Ciriaco Di Roma.

Il 5 dicembre Alessandro Alibrandi venne ucciso durante un conflitto a fuoco con la polizia stradale nei pressi di Roma. Giorgio Vale e Francesca Mambro rimasero in fuga, praticamente soli. Si nascosero anche in una casa a Roma in via Gradoli, dove nel 1978 c’era stato uno dei covi della Brigate Rosse durante il rapimento Moro. Ricorda Roberto Nistri: «Cinquanta metri prima c’era un appartamento con dentro due latitanti (…) Cinquanta metri dopo c’era un altro appartamento con Giorgio e la Mambro. Se adesso questa storia la racconti, ci puoi fare anche un film». Molti appartamenti di via Gradoli erano gestiti da un immobiliarista romano, coinvolto anche nelle società di copertura dei servizi segreti.

L’ultima azione a cui partecipò Vale fu la tentata rapina alla Banca nazionale del lavoro di piazza Irnerio, a Roma. Durante l’assalto uno studente di 17 anni che passava di lì per caso, Alessandro Caravillani, fu ucciso da un proiettile. Francesca Mambro rimase ferita, Vale e gli altri del gruppo la lasciarono davanti all’ospedale Santo Spirito.

Nei mesi precedenti la famiglia di Vale era stata contattata dai servizi segreti, che avviarono una sorta di trattativa perché il ragazzo si costituisse. Scrisse il padre Umberto al figlio:

«Ci sono solo due possibilità, costituirti dicendo che ti dissoci da tutta questa criminalità politica che non ha senso e consegni le armi (…) Se no cerchi la morte, facendo le corna, senza uno scopo e tradisci te stesso (…) Cerchiamo di riparare ai mali che hai creato pur contro la tua vera identità morale».

La mattina del 5 maggio Giorgio Vale fu ucciso in un appartamento in via Decio Mure 43, nella zona del Quadraro a Roma. Gli agenti della Digos fecero irruzione in casa, e furono poi trovati centinaia di proiettili: Vale morì per un solo colpo, alla testa. Lo trovarono steso sul letto. Nella prima versione la polizia disse che si era suicidato ma le analisi scientifiche esclusero che si fosse sparato. I giornali il giorno dopo scrissero che Vale, in una lunga lettera alla madre, aveva scritto: «Non mi prenderanno mai vivo».

Quella lettera però non è mai esistita. La famiglia sostenne da subito che la sparatoria fosse stata una messa in scena: che Vale cioè fosse stato ucciso nonostante si fosse arreso, e che i colpi furono sparati in seguito per giustificare l’omicidio. Per rappresaglia, il giorno dopo un commando dei NAR uccise a Roma l’agente di Polizia Giuseppe Rapesta. Il 12 agosto nel carcere di Novara Pierluigi Concutelli uccise strangolandolo Carmine Palladino, ritenuto responsabile della soffiata che aveva portato la Digos all’appartamento di via Decio Mure.