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  • Martedì 16 novembre 2021

Cosa c’è nell’inchiesta su Renzi e la Fondazione Open

Le tesi e il contesto della discussa indagine della Procura di Firenze, sbrogliati dalle critiche politiche contro il principale accusato

(Roberto Monaldo / LaPresse)
(Roberto Monaldo / LaPresse)

L’inchiesta della procura di Firenze sulla Fondazione Open, che dal 2012 al 2018 finanziava parte delle attività dell’ex segretario del Partito Democratico Matteo Renzi, è tornata da alcune settimane nella cronaca quotidiana. Nuovi dettagli contenuti nelle 92mila pagine dell’inchiesta, a volte anche su questioni piuttosto laterali, sono stati pubblicati da diversi quotidiani, e hanno alimentato nuove accuse riguardo a possibili conflitti di interessi e ad alcune scelte giudicate politicamente inopportune.

L’inchiesta era iniziata poco più di due anni fa, ha tra gli indagati Renzi e diversi fra i suoi più stretti collaboratori, e si è chiusa a metà ottobre. L’accusa principale della procura di Firenze è che Renzi abbia utilizzato la fondazione Open per finanziare il suo partito, raccogliendo soldi da privati per eventi legati alla propria attività, senza però che questa rispettasse i requisiti di trasparenza e tracciabilità richiesti alle fondazioni che agiscono come organi di partito. La tesi, che dovrà essere eventualmente verificata nel processo, è che Open agisse come articolazione di partito, e che quindi dovesse rispettare obblighi più stringenti nella raccolta e gestione delle donazioni.

Ma è una questione complessa e non scontata, su cui ci sono già state per esempio sentenze della Cassazione in contrasto con quanto sostenuto dalla procura. La discussione riguarda più in generale le riforme sul finanziamento pubblico ai partiti, prima nel 2013 e poi nel 2019, e ha alimentato un dibattito sulle modalità con cui si dovrebbe sostenere la politica, progressivamente limitate e regolate nel corso degli anni.

Il centro dell’inchiesta
La Fondazione Open era nata nel 2012 col nome di Big Bang, come strumento finanziario per organizzare le annuali riunioni della cosiddetta “Leopolda”, gli appuntamenti degli alleati e dei sostenitori di Renzi organizzati a Firenze negli spazi della ex Stazione Leopolda. Il presidente della Fondazione era l’avvocato Alberto Bianchi, mentre del consiglio di amministrazione facevano parte lo stesso Renzi e i suoi principali collaboratori politici, come gli attuali parlamentari Maria Elena Boschi e Luca Lotti, e l’imprenditore Marco Carrai.

La Fondazione fu chiusa nel 2018 e si stima che nei suoi sei anni di vita abbia gestito circa 6 milioni di euro, usati in parte per sostenere i costi di organizzazione della Leopolda. L’inchiesta però si concentra su quasi 3,6 milioni di euro che secondo la procura di Firenze fra il 2014 e il 2018 sarebbero stati utilizzati «per sostenere l’attività politica di Renzi, Lotti e Boschi e della corrente renziana» del Partito Democratico, come si legge in alcune delle pagine dell’inchiesta pubblicate dal Fatto Quotidiano.

Sono soldi che secondo la procura sono incompatibili con le attività di una fondazione politica, dato che furono utilizzati per organizzare eventi, partnership e altre iniziative con cui Renzi, secondo la tesi della procura, consolidò la sua leadership all’interno del PD, di cui fu segretario dal 2013 al 2018. Per queste ragioni a Renzi contesta il reato di finanziamento illecito ai partiti: benché si limitasse a far parte del suo consiglio di amministrazione senza avere cariche dirigenziali, la procura lo considera il capo della Fondazione.

Ad altre persone coinvolte nell’inchiesta vengono contestati diversi ulteriori reati nell’ambito della corruzione e del traffico di influenze, che riguardano chi abusa del proprio ruolo o delle proprie conoscenze per avvantaggiare una società o una persona che non ne avrebbe diritto più di altre.

Lotti per esempio viene accusato di corruzione per l’esercizio della funzione, un reato che prevede pene fino a otto anni di carcere, in relazione a una donazione di circa 253mila euro che la società British American Tobacco, uno dei più grandi produttori al mondo di sigarette, fece alla Fondazione Open fra il 2014 e il 2017. Secondo l’accusa Lotti, che all’epoca era segretario del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE), si sarebbe «ripetutamente adoperato in relazione a disposizioni normative di interesse» per l’azienda. In altre parole Lotti avrebbe fatto pressioni per conto dell’azienda su iniziative del governo in cambio dei soldi versati dall’azienda stessa alla Fondazione Open, di cui era consigliere.

Secondo l’accusa fra il 2014 e il 2018 Lotti, insieme al presidente della fondazione Alberto Bianchi, avrebbe inoltre ricevuto diverse somme di denaro dalla Toto Costruzioni in cambio di un trattamento di favore da parte del governo. Peraltro, sempre secondo l’accusa, circa 200mila euro dei soldi versati da Toto Costruzioni avrebbero finanziato il comitato per il Sì al referendum del 2016 sulla riforma costituzionale proposta dal Partito Democratico guidato da Renzi.

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I metodi dell’inchiesta
Alcuni osservatori li hanno giudicati eccessivi per un’indagine che riguarda pochi milioni di euro e una premessa che è ancora da dimostrare, cioè che le fondazioni debbano essere giudicate come un’articolazione di un partito politico se finanziano attività politica. Ad avere attirato critiche è anche la natura invasiva dell’indagine: per due anni sono state intercettate dalla procura moltissime persone del circolo più stretto di Renzi, cosa che ha fatto finire nelle carte vicende molto periferiche, che con modalità piuttosto consuete e prevedibili sono presto arrivate alla pubblicazione sui giornali.

La procura ha acquisito l’estratto conto del principale conto corrente di Renzi. Sia alcune intercettazioni non relative ai punti principali dell’indagine sia i dati dell’estratto conto di Renzi sono finiti poi sui giornali. Questi ultimi sono stati pubblicati a inizio novembre dal Fatto Quotidiano: Renzi ha più volte definito «una barbarie» pubblicazioni di questo tipo, sostenendo che la procura e alcuni giornali stiano collaborando per danneggiare la sua immagine pubblica.

Anche la Corte di Cassazione ha avuto da ridire sull’approccio della procura di Firenze in relazione all’inchiesta: in due sentenze ha respinto la sua richiesta di sequestro del computer e di documenti personali di Marco Carrai. Nella prima sentenza la Cassazione si è anche espressa con scetticismo sull’equiparazione della Fondazione Open ad un’articolazione di partito, tesi che regge il corpo principale delle accuse contro Renzi e i suoi collaboratori.

Cosa si dice della natura della Fondazione Open
Per capire cosa viene contestato alla Fondazione Open bisogna partire dalla riforma del 2013 sul finanziamento pubblico ai partiti promossa dal governo di centrosinistra guidato da Enrico Letta. Quella legge abolì i rimborsi elettorali, che dopo gli scandali di Tangentopoli degli anni Novanta avevano sostituito il finanziamento pubblico ai partiti, sostituendoli con forme indirette di sostegno per i partiti. In primo luogo i contributi erogati annualmente da Camera e Senato, attingendo dai propri fondi, ai partiti in Parlamento (nel 2019 erano stati 53 milioni di euro all’anno complessivi). Poi il 2 per 1000 dell’IRPEF che i cittadini possono devolvere a un partito (o allo Stato), e infine le donazioni dei privati. Queste ultime, dette anche “erogazioni liberali”, non possono superare i 100mila euro, e sono detraibili fino a 30mila.

Dopo quella riforma la forte riduzione di entrate statali aveva spinto i partiti – da destra a sinistra – a reperire in altri modi i fondi necessari a finanziare la propria attività, in modo a volte piuttosto acrobatico. Per queste ragioni negli anni scorsi, ha ricordato Pagella Politica, «è significativamente cresciuto il fenomeno delle fondazioni collegate a uomini o partiti, un canale “alternativo” per finanziare le attività politiche».

Questo comportò qualche problema, perché i requisiti e gli obblighi di trasparenza per le donazioni alle fondazioni erano inferiori rispetto a quelli per le donazioni destinate ai partiti. Nel 2019 perciò la cosiddetta legge “spazzacorrotti” promossa dal governo di Giuseppe Conte sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega, intervenne tra le altre cose per regolare maggiormente le donazioni alle fondazioni ritenute collegate ai partiti. Per stabilire quali rientrassero in questa categoria, la legge elencava una serie di caratteristiche, come la presenza di politici o ex politici nei ruoli apicali, o l’eventuale erogazione di contributi sopra ai 5mila euro a partiti, organi di partito o singoli esponenti.

L’inchiesta accusa in sostanza la Fondazione Open di rientrare in questa categoria di fondazioni in realtà dipendenti dai partiti (in questo caso il Partito Democratico guidato da Renzi), e di non avere però rispettato gli obblighi di trasparenza e tracciabilità a cui sarebbe stata tenuta riguardo alle donazioni.

Nella sua sentenza (PDF) con cui ha contestato questa tesi, la Cassazione scrive che per descrivere una fondazione come diretta espressione di un partito «non è sufficiente una mera coincidenza di finalità politiche, ma occorre anche una concreta simbiosi operativa, tale per cui la struttura esterna possa dirsi sostanzialmente inserita nell’azione del partito o di suoi esponenti, in modo che finanziamenti ad essa destinati abbiano per ciò stesso una univoca destinazione al servizio del partito». In sostanza, la Cassazione sostiene che una fondazione possa essere considerata un partito o una sua articolazione solo se finanzia esclusivamente un certo partito, con cui realizzi inoltre una «simbiosi operativa».

Per quanto riguarda la Fondazione Open, se le indagini porteranno a un processo i giudici dovranno decidere proprio se il suo scopo principale fosse finanziare gli appuntamenti della Leopolda, che non sono mai stati considerati un’assemblea del PD, o se si debba considerare comunque un organo del partito, come sostiene la procura.

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Le altre accuse
Dalle carte dell’inchiesta i giornali hanno estratto frammenti di intercettazioni, mail private e testimonianze non esattamente inerenti alle accuse dell’inchiesta, ma che secondo alcuni commentatori sono persino più gravi delle accuse più concrete. «Dirà l’inchiesta se ci sono reati», ha scritto qualche giorno fa il direttore della Stampa, Massimo Giannini: «a occhio, non se ne vedono. Ma si vede la bassezza politica. Si vede la pochezza morale. E tanto basta».

Dalle carte dell’inchiesta sono riemersi per esempio i pagamenti ricevuti da Renzi per la sua attività di conferenziere in Arabia Saudita, un paese governato da una monarchia autoritaria ritenuta tra le altre cose responsabile dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, e nota per sue attività internazionali di lobby per migliorare la propria immagine. Un’analisi del conto corrente di Renzi da parte del Fatto Quotidiano ha permesso di quantificare in 83.737 euro i soldi ricevuti dalla monarchia saudita per una serie di discorsi tenuti fra il 2018 al 2020, che si aggiungono ai circa 80mila dollari annuali (circa 70mila euro) che Renzi riceve in quanto membro di un think tank vicino alla monarchia saudita, di cui era emersa l’esistenza a gennaio.

Non è raro che un politico che ha avuto gli incarichi di Renzi ottenga contratti del genere, in certi casi anche con paesi autoritari e controversi: ma è assai inusuale che capiti a una persona che fa ancora politica attiva nel proprio paese – Renzi è senatore – e che peraltro in questa legislatura ha fatto parte sia della commissione Esteri sia della commissione Difesa del Senato. Su questo punto Renzi non ha violato nessuna legge, come gli riconoscono anche i suoi avversari più critici: il regolamento interno del Senato permette ai senatori in carica di assommare altri redditi, senza grosse limitazioni. Ma la sua successiva indulgenza pubblica verso regimi indegni di essere difesi, quando è stato accusato di quei rapporti, è diventata un elemento di critica e accusa “politica”, e di sospetto sulla limpidezza delle sue posizioni.

In un’intercettazione di alcuni SMS fra Renzi e i suoi collaboratori la procura di Firenze ha scoperto inoltre che Renzi spese circa 135mila dollari, nel giugno del 2018, per un volo privato che gli consentisse di andare a Washington per parlare a un evento organizzato dalla famiglia Kennedy, e poi tornare in tempo per un voto sul primo governo guidato da Giuseppe Conte. Del volo si parlò già nel 2019 per via di un articolo pubblicato dalla Verità. Oggi si sa quanto sembra sia costato e quanto i collaboratori di Renzi fossero preoccupati per questa ingente spesa, che le intercettazioni sembrano mostrare dettata soprattutto da ragioni di vanità personale e politica.

Un’altra storia molto commentata negli ultimi giorni riguarda una mail inviata nel 2017 a Renzi dal giornalista Fabrizio Rondolino, ex portavoce di Massimo D’Alema. Nella mail Rondolino invitava Renzi a istruire alcuni collaboratori a spargere informazioni falsate o false su alcuni avversari politici di Renzi di allora, che appartenevano soprattutto al Movimento 5 Stelle, “secondo lo stile del Fatto“. Renzi si limitò ad inoltrare la mail a Carrai senza rispondere nel merito, e a suo dire il progetto di Rondolino non ebbe alcun seguito. I giornali di questi giorni se ne sono occupati estesamente, paragonandolo ad altre operazioni simili adottate da altri politici, come ad esempio la cosiddetta “Bestia” di Matteo Salvini.

La versione di Renzi
Ormai da due anni Renzi respinge tutte le accuse della procura, sostenendo che la Fondazione Open non possa essere considerata alla stregua di un partito perché non si limitava a finanziare attività politiche di un partito, ma anche culturali e diverse come appunto le varie Leopolde.

Riguardo a tutte le altre accuse, in particolare sulle sue attività di conferenziere in giro per l’Italia e per il mondo, Renzi ha ricordato di non aver violato nessuna legge e di avere intrapreso una carriera da conferenziere soltanto dopo aver lasciato cariche di governo. «È evidente che finché ci sarà la possibilità di fare public speaking e finché ci sarà da parte mia un ruolo di non governo, io continuerò a fare ciò che la legge mi consente, evidentemente facendo le mie scelte e prendendo come è giusto le polemiche per un discorso piuttosto che un altro», ha detto di recente parlando con la trasmissione Piazzapulita.

Contemporaneamente Renzi contesta quello che indica come una specie di accerchiamento pregiudiziale nei suoi confronti da parte della procura che indaga su di lui e di alcuni giornali, citando come inaccettabili le violazioni della sua privacy e le persecuzioni presunte da parte delle indagini contro di lui: e alludendo al consenso che magistrati e giornali cercherebbero nell’accanirsi contro quello che – come ha spesso convenuto lui stesso – è forse il politico più odiato in Italia.