• Italia
  • Martedì 9 novembre 2021

Una sorprendente sentenza della Cassazione sulla ‘ndrangheta

Ha annullato una serie di condanne ai membri della famiglia Fontana, il cui capo aveva scontato 9 anni di carcere preventivo

La Corte di Cassazione, a Roma (Foto Giorgio Cosulich/Getty Images)
La Corte di Cassazione, a Roma (Foto Giorgio Cosulich/Getty Images)

La Corte di Cassazione ha annullato le condanne emesse negli anni passati nel corso del processo Leonia, nato da un’inchiesta del 2012 della Direzione Distrettuale Antimafia su presunte infiltrazioni della ‘ndrangheta in una società che a Reggio Calabria si occupava dello smaltimento di rifiuti. Le condanne annullate riguardano sei persone della famiglia Fontana, il cui capo Giovanni Fontana aveva scontato nove anni di carcere preventivo, essendo stato arrestato nel 2012.

La Cassazione non ha rinviato a un nuovo processo d’appello ma ha emesso, tranne che nel caso di un imputato, sentenze definitive di assoluzione. È rimasta in piedi la sola accusa di peculato per il manager Bruno De Caria, per il quale è stata cancellata la condanna di concorso esterno in associazione mafiosa. Per lui la Corte di Cassazione ha indicato alla Corte di Appello di rideterminare la pena. Le motivazioni della sentenza devono ancora essere pubblicate: chiariranno cosa abbia riscontrato di così sbagliato la Cassazione nei processi di primo e secondo grado da emettere assoluzioni senza rinvio in appello.

La vicenda oggetto del processo ebbe inizio nei primi anni 2000, quando il comune di Reggio Calabria istituì una serie di società miste: Leonia, per la raccolta dei rifiuti solidi urbani, Multiservizi, per gli interventi di manutenzione del territorio, e Fata Morgana per la selezione della differenziata. Dopo dieci anni, il capo della Procura Giuseppe Pignatone diede l’impulso a una serie di indagini per appurare la presenza della ‘ndrangheta all’interno delle società partecipate dal Comune.

I risultati delle indagini concorsero alla decisione dello scioglimento e del commissariamento del comune di Reggio Calabria, avvenuto nell’ottobre 2012. La Procura si concentrò anche sulla società Semac, di proprietà della famiglia Fontana, alla quale era stata affidata la manutenzione dei mezzi della Leonia, la società incaricata della raccolta dei rifiuti solidi urbani.

Giovanni Fontana, il capofamiglia del clan del quartiere Archi, titolare della Semac, non era una persona qualsiasi a Reggio Calabria. Aveva avuto un ruolo fondamentale nella cosiddetta seconda guerra di mafia di Reggio, quando, a capo di un gruppo “separatista”,  si era schierato contro la ‘ndrina dominante dei De Stefano. Fontana era, secondo la Procura, il numero due del gruppo che riuniva i clan ribelli dietro al boss Pasquale Condello, detto «Il Supremo». Fontana, prima latitante e poi in carcere, attraverso i figli aveva quindi gestito un’operazione di “pulizia” dei propri affari proprio attraverso l’attività della Semac.

Nel 2012 ci furono gli arresti dell’operazione Leonia. Furono arrestati Giovanni Fontana, che era appena stato rimesso in libertà, e i figli Antonino, Giuseppe Carmelo, Francesco e Giandomenico. In carcere finì anche Bruno De Caria, ex direttore della Leonia accusato di aver favorito le operazioni di infiltrazione della ‘ndrangheta nella società che dirigeva.

Secondo la Procura di Reggio Calabria, che si avvaleva della collaborazione di alcuni pentiti, la Semac garantiva alla ‘ndrangheta un flusso di denaro continuo. I soldi provenivano dall’acquisto sovrastimato di pezzi di ricambio dei mezzi utilizzati nel comparto rifiuti che, attraverso un sistema di fatture ingigantite, venivano sostituiti dalla Semac senza l’autorizzazione della Leonia, registrando altissime uscite per l’azienda.

I soldi, secondo la Procura, non andavano tutti al clan Fontana. Il controllo delle attività economiche legate al settore dello smaltimento dei rifiuti era infatti possibile, grazie all’assenso delle altre cosche che, regolarmente, avrebbero preteso la loro parte. In seguito all’operazione di polizia alla famiglia Fontana vennero sequestrate cinque imprese che operavano nei settori della riparazione e rivendita di autoveicoli, nel commercio al dettaglio di carburanti per autotrazione e nella compravendita di immobili. Inoltre il sequestro riguardò 11 fabbricati, 20 terreni, 43 automezzi e tre fabbricati per un valore complessivo stimato in circa 27 milioni di euro.

Disse il procuratore capo della Procura della Repubblica di Reggio Calabria parlando del provvedimento di sequestro: «Tale provvedimento rappresenta l’epilogo dell’articolata e capillare attività investigativa svolta dal Nucleo di Polizia Tributaria – GICO di Reggio Calabria, che ha permesso di accertare un’ingiustificata discordanza tra il reddito dichiarato e il patrimonio a disposizione, direttamente o indirettamente, di Giovanni Fontana e dei suoi familiari».

In primo e secondo grado le condanne furono pesanti. Giovanni Fontana fu condannato a 23 anni e sei mesi di reclusione; Antonino Fontana a 16 anni e sei mesi; Giuseppe Carmelo e Francesco Fontana a 12 anni e sei mesi; Giandomenico Fontana a 11 anni e sei mesi. Il direttore della Leonia, Bruno De Caria, fu condannato in appello a 10 anni e 10 mesi (rispetto ai 15 anni e 6 mesi). Per lui i giudici dichiararono «la sopravvenuta inefficacia della misura cautelare disponendo l’immediata liberazione se non detenuto per altra causa». Fu quindi rimesso in libertà.