La paradossale contrapposizione tra “cure domiciliari precoci” e vaccini

Tra i “no vax” c'è la convinzione errata che farmaci sviluppati per altri scopi funzionino meglio dei vaccini somministrati con successo

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A metà settembre aveva fatto molto discutere un incontro organizzato in Senato dalla senatrice leghista Roberta Ferrero, nel quale erano state promosse cure domiciliari contro la COVID-19 alternative rispetto ai protocolli finora diffusi dal ministero della Salute. Il convegno, che aveva ricevuto dure critiche da esperti e scienziati, aveva contribuito a legittimare un’idea sempre più diffusa nei gruppi “no vax”, secondo la quale queste terapie sarebbero la vera soluzione alla malattia causata dal coronavirus, e non i vaccini.

Come hanno spiegato virologi e istituzioni sanitarie, e come dimostrato dai dati, non è naturalmente così: i vaccini consentono di prevenire la COVID-19 e stanno contribuendo a ridurre il tasso di ricoveri e decessi in ospedale. La contrapposizione tra  queste presunte cure precoci e i vaccini è per molti versi paradossale. Suggerisce infatti senza prove scientifiche che farmaci destinati ad altri scopi, prodotti peraltro sempre dalle grandi case farmaceutiche, siano migliori dei vaccini contro il coronavirus. Vaccini che sono invece autorizzati e raccomandati dalle istituzioni internazionali, sperimentati gradualmente su gruppi di persone sempre più ampi secondo i protocolli, e successivamente somministrati a miliardi di persone in tutto il mondo, con grande efficacia e solo rarissimi casi di effetti avversi.

All’incontro “International COVID Summit” avevano partecipato anche alcuni esponenti del “Movimento Ippocrate”, che comprende medici, operatori sanitari, ricercatori e altri che si autodefiniscono esperti, convinti di avere trovato terapie più efficaci per trattare precocemente i malati di COVID-19, anche se queste non sono né approvate né consigliate dalle autorità sanitarie. Sostengono che la malattia debba essere trattata da subito con farmaci come l’idrossiclorochina, l’ivermectina e con il cortisone, soluzioni ancora in fase di sperimentazione e che finora non hanno dato i risultati sperati, mostrando in alcuni casi di portare più danni che benefici.

I sostenitori di questi protocolli alternativi accusano inoltre il ministero della Salute di non avere fornito indicazioni chiare ai medici di famiglia, che non hanno quindi conoscenze e strumenti per trattare i casi di COVID-19 tra i loro pazienti non ricoverati. Dicono che le istruzioni ministeriali comprendono solamente la somministrazione di farmaci per ridurre la febbre, come il paracetamolo, e la raccomandazione di attendere per valutare l’evoluzione della malattia e stabilire eventualmente se si renda necessario un ricovero in ospedale per offrire una migliore assistenza ai pazienti.

In realtà, già a fine aprile il ministero della Salute aveva diffuso una circolare sulla “Gestione domiciliare dei pazienti con infezioni da SARS-CoV-2”, nella quale sono contenute non solo le indicazioni sui protocolli da seguire, ma anche importanti informazioni di contesto sui farmaci sperimentati e sui risultati ottenuti finora con studi e ricerche in giro per il mondo. Il documento è lungo una trentina di pagine e comprende una bibliografia per approfondire varie tematiche, utile per i medici impegnati a trattare una malattia emersa appena un anno e mezzo fa.

Come ha segnalato la divisione piemontese dell’ANAAO Assomed, uno dei sindacati medici italiani, durante il convegno al Senato alcuni ospiti avevano fatto dichiarazioni che si leggono spesso nei forum e nei gruppi sui social network di chi è contrario alla vaccinazione. Frasi come: «Se il paziente viene preso in cura precocemente si guarisce nel 100 per cento dei casi», in piena contraddizione con le statistiche raccolte finora in tutto il mondo, o affermazioni al limite delle teorie del complotto come: «Si dovrà ricorrere al plasma iperimmune. Il 90 per cento degli ospedali ne è in possesso, anche se non lo dice».

Erano stati espressi commenti offensivi nei confronti delle migliaia di operatori sanitari che avevano lavorato senza sosta nel corso della prima ondata della pandemia, in condizioni di costante emergenza, per esempio con allusioni al fatto che in Lombardia si lasciassero morire i pazienti in ospedale «dando loro solo ossigeno e non curandoli». In realtà i trattamenti furono da subito più articolati, soprattutto in terapia intensiva dove si impiegavano farmaci per provare a modulare la risposta immunitaria, quando questa finiva fuori controllo a causa del coronavirus causando ulteriori danni ai pazienti.

Varie organizzazioni, come il Patto trasversale per la scienza, la Fondazione GIMBE e i Biotecnologi italiani, chiedono da tempo alle istituzioni sanitarie di intervenire non solo contro le falsità nei confronti dei medici che seguono i protocolli, ma anche nei confronti dei gruppi che promuovono farmaci sviluppati per altre malattie e che vengono indicati come ideali per trattare precocemente la COVID-19, in assenza di evidenze scientifiche certe sulla loro utilità e sicurezza.

I sostenitori delle “cure domiciliari precoci” sostengono che si debbano somministrare da subito farmaci, nonostante i dati raccolti in un anno e mezzo di pandemia dimostrino che nell’85 per cento dei casi un’infezione da coronavirus non causi sintomi o ne comporti di estremamente lievi, che passano naturalmente senza la necessità di dovere assumere farmaci. Tra i medicinali per questi presunti trattamenti precoci ci sono i cortisonici, il cui impiego preventivo è in realtà altamente sconsigliato perché riducono la risposta immunitaria, con il rischio di rendere più facile la vita al coronavirus nella fase iniziale dell’infezione.

Viene consigliato l’uso dell’idrossiclorochina, nonostante le ricerche svolte finora abbiano dimostrato che non abbia efficacia né in forma preventiva né terapeutica, con rischi che possono superare i benefici. Lo stesso vale per l’ivermectina, un antiparassitario impiegato soprattutto in ambito veterinario, per il quale non ci sono prove circa l’efficacia nel prevenire sintomi gravi di COVID-19 o nel trattare la malattia nelle sue fasi avanzate. In alcuni gruppi viene consigliato anche l’uso preventivo degli antibiotici, il cui impiego è raccomandato solo nel caso in cui si sviluppi un’infezione batterica.

Le ricerche su farmaci specifici per trattare la COVID-19 nella fase precoce, riducendo il rischio che porti a sintomi gravi, sono naturalmente in corso, ma vengono svolte attraverso analisi di laboratorio e sperimentazioni su cavie ed eventualmente volontari in ambienti controllati. Come per gli altri medicinali sperimentali, i test clinici sono effettuati seguendo protocolli per assicurarsi in primo luogo che i principi attivi siano sicuri e successivamente che portino a benefici. L’azienda statunitense Merck ha per esempio annunciato da poco risultati molto promettenti di un suo antivirale.

Terapie più articolate, che comprendono l’impiego di farmaci sviluppati in passato per altre malattie, interessano i pazienti ricoverati in ospedale dove l’assistenza medica è continua e ci sono maggiori risorse per intervenire in caso di emergenza. L’impiego di farmaci fuori dai protocolli, che possono avere seri effetti collaterali come nel caso dei cortisonici e dell’idrossiclorochina, è invece sconsigliato oltre a essere pericoloso.

Commentando le notizie sul convegno in Senato e le attività dei gruppi per le “cure domiciliari precoci”, il presidente di GIMBE, Nino Cartabellotta, aveva detto: «È inaccettabile la presa di posizione di personaggi pubblici, tra cui medici e politici, che, sovvertendo la metodologia della ricerca scientifica, alimentano la disinformazione mettendo a rischio la salute delle persone. Soprattutto di quelle indecise, che rifiutano vaccini efficaci e sicuri confidando in protocolli di terapia domiciliare non autorizzati o addirittura in farmaci dannosi e controindicati».

Sui siti e i gruppi social dei “no vax” sono diventati sempre più ricorrenti i riferimenti a queste presunte terapie preventive, che dovrebbero essere la soluzione alla COVID-19 al posto dei vaccini. Sono posizioni piuttosto condivise non solo in Italia, come ha mostrato il recente interesse per l’ivermectina negli Stati Uniti. Molti osservatori hanno segnalato quanto sia paradossale un approccio di questo tipo, che identifica una “cura” in farmaci sviluppati per tutt’altro e senza evidenze scientifiche sulla loro efficacia, pur di non ricorrere ai vaccini, nonostante questi siano stati sviluppati e sperimentati espressamente contro il coronavirus.

Le informazioni sulle “cure domiciliari precoci” hanno un certo seguito perché vengono promosse anche da medici (raramente specializzati in immunologia o virologia), che contribuiscono a dare loro un’aura di legittimità e coerenza scientifica, nonostante non siano basate su chiare evidenze. L’interesse è inoltre dovuto a uno dei classici meccanismi delle teorie del complotto: quello per cui le istituzioni e le autorità sanitarie non dicono tutta la verità per coprire altri interessi. In questa narrazione, chi propone di trattare la COVID-19 fuori dai protocolli si presenta come l’esperto controcorrente osteggiato dal potere costituito o dalle grandi aziende farmaceutiche; società che comunque producono anche i farmaci che vengono consigliati per le cure precoci.

In circa dieci mesi sono state somministrate 6,2 miliardi di dosi di vaccini in tutto il mondo, che hanno contribuito a ridurre il numero di ricoveri e decessi dovuti alla COVID-19. I vaccini offrono infatti un’alta protezione riducendo il rischio che la malattia porti a sintomi gravi. In questo senso sono l’unica vera forma di prevenzione contro la COVID-19 grave, come dimostrato dai test clinici svolti prima che i vaccini fossero autorizzati e dalle esperienze sui 3,5 miliardi di persone che hanno ricevuto almeno una dose.