Un’altra canzone dei Polyphonic Spree

182 anni dopo che Chopin aveva cominciato tutta questa gran storia

(Chris Graythen/Getty Images)
(Chris Graythen/Getty Images)

Le Canzoni è la newsletter quotidiana che ricevono gli abbonati del Post, scritta e confezionata da Luca Sofri (peraltro direttore del Post): e che parla, imprevedibilmente, di canzoni. Una per ogni sera, pubblicata qui sul Post l’indomani, ci si iscrive qui.
Oggi compiono 70 anni Mark Isham, che ha il suo posto nell’archivio di questa newsletter, e Chrissie Hynde, che ne ha uno nel cuore di molti pur avendo infilato molte buone canzoni e nessuna immancabile, se chiedete a me. Ma gran tipo (che ha “fatto discutere” anche negli scorsi anni).
Ieri sera sono stato a San Salvatore Monferrato per un creativo festival che si chiama “Pèm! (Parole e Musica)”, e abbiamo parlato di canzoni a cena e poi parlato di canzoni da un palco, e ascoltato delle canzoni, e io mi sono allargato e ne ho approfittato e alla fine siamo stati tutti lì due ore. Ecco, volevo dirvi, se mi invitate a parlare di canzoni mi diverto di più che a parlare di giornalismo e compagnia bella, ma il rischio è che non riusciate più a mandarmi via.
Nel weekend esce un disco nuovo dei St. Etienne, una band inglese allora molto creativa e molto amata nell’elettronica pop che andò forte negli anni Novanta e poi sparì abbastanza dai radar, pur facendo ancora dischi: quello nuovo, racconta un lungo articolo sul Guardian, è in effetti una celebrazione degli anni Novanta, per suoni e umori. Era già uscito qualcosa di buono quest’estate.
La settimana scorsa è uscita una canzone nuova di Johnny Marr, che essendo Johnny Marr ovvero il chitarrista degli Smiths oltre ad altre cose minori ma rispettabili, merita una segnalazione: ma non è che proprio ce ne fosse bisogno (un po’ un pezzo dei Soft Cell).
E Damon Albarn invece ha pubblicato un’altra canzone – quieta e notturna – dal suo disco nuovo che esce a novembre.
Sabato ero andato a una festa per il “Supersalone” del design milanese, e a un certo punto ha cantato Marco Mengoni, che – con rispetto parlando – non avrei scelto come musicista da cui ricominciare con l’andare ai concerti dopo quasi due anni: però la sua scelta di fare I’d rather go blind di Etta James – anche niente male – ha nobilitato tutto quanto.

Could it be magic
The Polyphonic Spree

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(Poi una volta di quanto sono assolutamente canzoni certe cose di Chopin dovremo parlarne).

Era una cosa che avevo scritto concludendo una newsletter a marzo scorso. Oggi ne ho un esempio che è ancora più lampante di quel notturno (meraviglioso, certo) che tutti prima o poi hanno sentito in qualche film: questo invece è un preludio, ovvero – come dice la parola – un componimento con un formato proprio, solitamente breve, usato per introdurre un concerto, un’esibizione o un’opera maggiore, e che però diversi musicisti hanno usato come terreno di esercitazione e produzione a sé stante, e i preludi di Chopin sono molti e famosi.

Questo era talmente una canzone quasi pronta, che più di un secolo dopo se la prese Barry Manilow e la completò. Barry Manilow adesso ha quasi 80 anni ed è stato uno dei cantanti “da night” di maggior successo mondiale di sempre, e torneremo a parlare di lui più direttamente. Nel 1971, mezzo secolo fa, prese il preludio di Chopin e ci costruì sopra una canzone, il cui testo – dopo un po’ di versioni diverse, qui lui racconta la storia e dice che la prima gli faceva schifo – fu scritto da Adrienne Anderson, sua frequente collaboratrice.

Spirit move me every time I’m near you
Whirling like a cyclone in my mind
Sweet Melissa, angel of my lifetime
Answer to all answers I can find

Manilow allora la presentava proprio come “il preludio di Chopin e poi la canzone”. Melissa del terzo verso è Melissa Manchester, cantante americana di lungo corso e allora collega di Manilow nella stessa casa discografica. Il singolo ebbe successive pubblicazioni con crescenti risultati, e nel 1976 ne fece una cover disco Donna Summer – forse la versione più famosa – che andò fortissimo anche grazie a tutto il concorso di gemiti di lei e di doppi sensi nella formulazione del verso “baby I love you come, come” (e lei cambiò “sweet Melissa” in “sweet Peter” – il suo fidanzato – aggiungendo un “oh” per ragioni di metrica: anni dopo, passato il fidanzato, si convertì a un universale “oh sweet dreamer”).

Baby I love you come, come
Come into my arms
Let me know the wonder of all of you
And baby I want you
Now, now, oh now, oh now and hold on fast
Could this be the magic at last?

Caso non frequentissimo di canzone con molte versioni tutte di gran successo, nel 1992 ci fu anche quella dei Take That, che però aggiunse solo il circo di mossette (penso allo spasso dei bambini di Robbie Williams quando vedranno com’era papà nel 1992: nessuno di noi ha una simile fortuna; in tutti i sensi, certo). Ma la quasi reunion dei Take That del 2013 con Manilow e i suoi zigomi merita (qui invece c’è la combinazione Manilow/Summer).

Fino a che l’anno scorso quella bizzarra band americana che si chiama Polyphonic Spree e di cui abbiamo parlato a gennaio non ha pubblicato una raccolta di cover e ci ha messo dentro ancora Could it be magic, a questo punto 182 anni dopo che Chopin aveva cominciato tutta questa gran storia: e anche lui meriterebbe di vedere di cosa è stato preludio, il suo preludio.

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