Beviamo da un pezzo

Alcuni studi descrivono il consumo di alcol come un’esperienza umana primordiale, inquadrandolo in una prospettiva che potrebbe aiutare a limitarne i danni

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Un fotogramma del film “Un altro giro”
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Nel film Un altro giro, diretto nel 2020 da Thomas Vinterberg, quattro amici insegnanti decidono di condurre un esperimento prendendo spunto da un’idea iperbolica dello psichiatra norvegese Finn Skårderud. L’idea è che gli esseri umani siano stati costruiti “male”: con lo 0,5 per mille in meno di alcol nel sangue. I quattro amici cominciano a bere quotidianamente, cercando di mantenere quel tasso alcolemico costante per tutta la giornata, e prendono nota dei cambiamenti nelle loro reazioni psicomotorie e nelle relazioni sociali.

Tra i programmatori informatici americani circola una vecchia teoria nota come Picco di Ballmer, dal nome dell’ex CEO di Microsoft Steve Ballmer, sviluppata negli anni Ottanta e in parte derivata da alcuni esperimenti di psicologia. In base a questa teoria, se assunto in quantità sufficienti a raggiungere un determinato punto – il Picco di Ballmer, appunto – l’alcol migliorerebbe le capacità cognitive. Superato quel punto, le prestazioni peggiorerebbero notevolmente. La leggenda racconta di spericolati programmatori disposti a sperimentare la teoria facendo uso di flebo endovenose di alcol, nel tentativo di mantenere il livello di alcol stabile per periodi prolungati.

L’alcol è presente nelle vite degli esseri umani da moltissimo tempo. Alcune ricerche recenti ipotizzano che il consumo di bevande alcoliche risalga a un periodo dell’età della pietra precedente l’acquisizione delle prime conoscenze sulla coltivazione. E che da quel punto in poi, in modalità variabili nel tempo e nello spazio, e oscillando continuamente tra moderazioni ed eccessi, l’assunzione di alcol non sia più scomparsa dalla storia dell’umanità.

Un lungo articolo dell’Atlantic sui problemi degli americani con l’alcol ha provato a mettere il rapporto degli esseri umani con le bevande alcoliche in una prospettiva biologico-evolutiva, per cercare di cogliere i passaggi storici in cui le pratiche e le abitudini di consumo hanno subìto le alterazioni più significative.

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Nel 1830, l’adulto americano medio consumava circa tre volte la quantità di alcol che consuma oggi. A quella fase storica seguì un’ossessione per i danni dell’alcol culminata nel periodo del proibizionismo. In tempi più recenti, dal 1999 al 2017, il numero di morti correlate all’alcol negli Stati Uniti è raddoppiato, arrivando a 70 mila all’anno, che fanno dell’alcol uno dei principali fattori di declino dell’aspettativa di vita.

La parte più «americana» in tutta questa storia, scrive l’Atlantic, non è tanto la rilevanza dell’alcol nella storia del paese – non diversa da quello che ha avuto e ha in altre società – ma la costante oscillazione degli americani tra i due atteggiamenti estremi. Periodi di eccessiva indulgenza portano a periodi di eccessive rinunce che poi portano a nuovi periodi di consumo sregolato e «disfunzionale», e così via.

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La cancelliera tedesca Angela Merkel a Demmin, Germania, il 14 febbraio 2018 (Carsten Koall/Getty Images)

Nel frattempo, le stesse contraddizioni sono emerse da molti resoconti giornalistici di studi e ricerche che, con gradi differenti di attendibilità, si sono occupate ora dei controversi benefici dell’alcol per la salute, ora dei rischi associati all’assunzione di quantità anche minime. E quelle contraddizioni si riflettono anche sulle abitudini delle persone, molte delle quali alternano periodi di astinenza ad altri di esagerazione. Nonostante tutto, gli esseri umani continuano a bere alcolici: «perché lo facciamo?», si chiede l’Atlantic, suggerendo un approccio che tenga sempre conto anche del «quanto», «dove» e «con chi».

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Prima di tutto, banalmente, «perché è divertente». L’assunzione di alcol porta alla produzione di endorfine, sostanze responsabili delle sensazioni piacevoli prodotte anche da altre attività come mangiare o fare sesso. E poi «perché possiamo». Gli esseri umani non sono l’unica specie dotata di enzimi in grado di scomporre l’alcol e permettere al corpo di espellerlo. Ma una mutazione genetica avvenuta circa 10 milioni di anni fa, secondo uno studio del 2015, ha dotato i nostri antenati di una capacità di metabolizzare l’etanolo aumentata di circa 40 volte rispetto a prima della mutazione.

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Il primo ministro giapponese Shinzo Abe osserva una bottiglia di vino ricevuta dal primo ministro spagnolo Mariano Rajoy, a Santiago di Compostela, in Spagna, il 4 maggio 2014 (Pablo Blazquez Dominguez/Getty Images)

Una delle ipotesi formulate per spiegare quella mutazione fa riferimento a uno stravolgimento climatico nell’Africa Orientale e a una successiva, diffusa estinzione che avrebbe portato gli esseri umani a cibarsi di frutta fermentata raccolta dal suolo della foresta pluviale. Il gradimento o la tolleranza rispetto all’odore e al sapore dell’alcol, tra quegli animali in grado di metabolizzarlo, erano ricompensate dalle calorie. «Nei giochi evolutivi della fame, le scimmie ubriache battono quelle sobrie», sintetizza l’Atlantic.

Eppure il fatto che, 10 milioni di anni dopo, l’alcol sia ancora parte della vita delle persone dovrebbe essere sorprendente, secondo il filosofo e sinologo canadese Edward Slingerland, autore del libro Drunk: How We Sipped, Danced, And Stumbled Our Way To Civilization. I danni alla salute associati al consumo di bevande alcoliche – non soltanto quelli a lungo termine confermati dalle ricerche scientifiche ma anche quelli più intuitivi legati agli effetti immediati di un consumo eccessivo – non hanno generato, in un modo o in un altro, un contesto che ci allontanasse dal bere. Slingerland ritiene che lo studio del fenomeno umano dell’ebbrezza da una prospettiva evolutiva non possa prescindere da certe considerazioni parallele sulla religione.

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Il presidente russo Vladimir Putin insieme al primo ministro Dmitry Medvedev e all’allenatrice di pattinaggio artistico Tatiana Tarasova, a Sochi, in Russia, il 23 febbraio 2014 (David Goldman-Pool/Getty Images)

Come diversi studiosi in altri campi di ricerca, Slingerland sostiene che la religione abbia aiutato le popolazioni di cacciatori-raccoglitori a cooperare su una scala molto più ampia, guidandoli verso fondamentali cambiamenti socioculturali. La fede in divinità punitive, per esempio, potrebbe aver scoraggiato i comportamenti che rendono difficile la coesistenza pacifica, e potrebbe quindi aver favorito la formazione di gruppi più solidali e più attrezzati per competere con altri gruppi o assorbirli. E, in questa prospettiva, le note funzioni sociali dell’alcol potrebbero non soltanto avere un ruolo nel mantenimento delle relazioni all’interno dei gruppi ma essere anche un fattore essenziale nella formazione stessa di quei gruppi.

Alcune ricerche recenti sul sito archeologico di Göbekli Tepe, un complesso megalitico in Turchia risalente a 11 mila anni fa, suggeriscono la possibilità che la condivisione di cibi e bevande prodotte per cottura e per fermentazione dei cereali selvatici abbiano favorito l’incontro e la cooperazione tra gruppi indipendenti di cacciatori-raccoglitori durante la “rivoluzione neolitica”.

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Queste ipotesi affascinanti sui fattori alla base dell’origine delle prime civiltà avanzate fanno comunque riferimento a un periodo che precede di moltissimo tempo due passaggi significativi nella storia del rapporto problematico degli esseri umani con l’alcol: la scoperta dei liquori e l’abitudine di bere da soli e non in gruppo. Siamo «scimmie fatte per bere, ma non vodka Absolut 100 proof», chiarisce Slingerland, sottolineando che siamo una specie apparentemente molto poco attrezzata per controllare il nostro consumo di alcol al di fuori di un contesto sociale.

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Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, a destra, e il vicepresidente Joe Biden, a sinistra, nel giardino della Casa Bianca insieme al docente della Harvard University Henry Louis Gates, vicino a Biden, e al sergente della polizia di Cambridge Ja­mes Crowley, a Washington, il 30 luglio 2009 (AP Photo/Alex Brandon)

La diffusione del consumo di distillati viene fatta risalire al XIII secolo in Cina e al XVI e in Europa, ed è quindi un fenomeno relativamente recente. Con birra e vino, la cui gradazione alcolica generalmente non supera i 14 gradi, è sicuramente più difficile ottenere gli effetti che i liquori moderni, tra 40 e 50 gradi, sono in grado di produrre. E proprio nel primo periodo di diffusione dei liquori in molte parti d’Europa e in Nord America, alcune persone hanno cominciato a bere fuori dai pasti in famiglia e dalle riunioni sociali.

Inoltre, durante la Rivoluzione industriale, i locali di ristorazione cominciarono a introdurre i lunghi banconi che oggi associamo ai bar, per permettere alle persone di bere rapidamente e senza bisogno di sedersi intorno a un tavolo con altri. Questo passaggio storico, concordano gli antropologi, rappresenta un momento di «marcata rottura» rispetto a epoche e società precedenti, in cui il bere da soli era un’esperienza largamente sconosciuta tra gli esseri umani. In generale e in diversi ambiti di ricerca, la presenza di altre persone è considerata una condizione in grado di determinare, di certe esperienze, effetti psicologici molto differenti rispetto a quelli prodotti in assenza di altri.

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In situazioni sperimentali relative a uno studio di psicologia pubblicato nel 2012 dai ricercatori Michael Sayette, dell’Università di Pittsburgh, e Kasey Creswell, dell’Università Carnegie Mellon di Pittsburgh, bere alcolici in gruppo tra sconosciuti ha suscitato – in base a una serie di misurazioni oggettive – sentimenti di gioia e di euforia che non si sviluppavano all’interno di gruppi delle stesse dimensioni che bevevano analcolici. Altri lavori ricercati e analizzati nella letteratura scientifica da Sayette e Creswell suggeriscono inoltre che i bevitori solitari tendano a essere più depressi mentre bevono.

Un ampio studio sulle abitudini di consumo di alcolici tra gli adulti britannici, condotto da Robin Dunbar, psicologo e antropologo del dipartimento di psicologia sperimentale dell’Università di Oxford, mostra che le persone che frequentano regolarmente i pub sono tendenzialmente più felici e soddisfatte di quelle che non lo fanno: non perché bevono ma perché hanno più amici. E in genere, riferisce lo studio, è la frequentazione dei pub che le porta ad avere più amici, piuttosto che il contrario.

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Il segretario del Partito Democratico Pier Luigi Bersani, a Roma, il 20 gennaio 2012 (ANSA/TWITTER)

Le ricerche sul consumo di alcol nell’ambito della psicologia non escludono che bere in compagnia possa causare problemi e dipendenze, scrive l’Atlantic. Ma in generale tutti gli autori concordano sul fatto che bere da soli, magari di nascosto o lontano dalla famiglia o dagli altri, sia un’esperienza particolarmente dannosa perché, di fatto, mantiene tutti i rischi di danni alla salute associati all’alcol ed elimina tutti i suoi vantaggi sociali.

L’Atlantic si sofferma infine sulla cultura del “bere salutare” nei paesi del Sud Europa e in particolare in Italia, dove «nonostante il diffuso consumo di alcol, è presente uno dei tassi di alcolismo più bassi al mondo».

I suoi abitanti bevono principalmente vino e birra, e quasi esclusivamente durante i pasti con altre persone. Quando bevono un liquore, lo fanno solitamente in piccole quantità, subito prima o subito dopo un pasto. L’alcol è visto come un alimento, non come una droga. Bere per ubriacarsi è scoraggiato, così come bere da soli. Il modo in cui gli italiani bevono oggi potrebbe non essere esattamente il modo in cui bevevano le popolazioni premoderne, ma accentua analogamente i benefici dell’alcol e aiuta a limitarne i danni. Ed è anche il più lontano possibile dal modo in cui molte persone bevono negli Stati Uniti.