La teoria sull’origine del coronavirus in laboratorio, dall’inizio

Come un'ipotesi definita complottista un anno fa è ora diventata una possibilità da non escludere, secondo molti autorevoli ricercatori

Un membro del personale di sicurezza davanti all'Istituto di virologia di Wuhan, Cina (AP Photo/Ng Han Guan)
Un membro del personale di sicurezza davanti all'Istituto di virologia di Wuhan, Cina (AP Photo/Ng Han Guan)
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La scorsa settimana il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha chiesto alle agenzie di intelligence del paese di «aumentare i loro sforzi» per scoprire le origini del coronavirus che ha causato l’attuale pandemia. L’ordine è lo sviluppo più rilevante delle ultime settimane nella difficile ricostruzione delle cause che portarono il virus a diffondersi prima in Cina e poi nel resto del mondo. Per circa un anno la maggior parte degli esperti e degli scienziati aveva escluso l’ipotesi dell’origine in laboratorio del coronavirus, indicandola come cospirazionista, ma negli ultimi mesi le cose sono cambiate, con diversi esperti disposti a rivalutare le alternative.

Il cambiamento di approccio, anche tra ricercatori stimati per il lavoro svolto nell’ultimo anno sulla pandemia, ha sorpreso vari osservatori ed è stato accolto con favore dai sostenitori della teoria dell’origine in laboratorio. Il confronto si è fatto acceso soprattutto negli Stati Uniti – dove l’ex presidente Donald Trump aveva più volte accusato la Cina di avere causato la pandemia – nonostante al momento non siano emerse nuove prove in un senso o nell’altro. Per questo Biden ha dato 90 giorni all’intelligence per intensificare sforzi e indagini, anche se in molti dubitano che in mancanza di nuove informazioni da parte della Cina possano esserci progressi.

Il nuovo ordine presidenziale mostra comunque come siano cambiati approcci e ipotesi sull’origine del coronavirus rispetto ai primi mesi del 2020, sia dal punto di vista scientifico sia politico, considerati i difficili rapporti tra Stati Uniti e Cina degli ultimi tempi.

Tramite i giornali cinesi sui quali ha un controllo diretto, il governo della Cina ha criticato l’ordine di Biden e ricordato che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha già condotto un’indagine, senza trovare elementi per sostenere che il coronavirus avesse avuto origine in un laboratorio. Il governo cinese non ha però collaborato pienamente con l’OMS e continua a non fornire molte informazioni su cosa accadde nel paese all’inizio della pandemia.

Due teorie
Dai primi mesi del 2020 ci sono due principali teorie sulla diffusione del coronavirus. La prima è che sia passato naturalmente da alcuni animali selvatici – probabilmente pipistrelli – agli esseri umani facendosi forse dare un passaggio da una specie intermedia. La seconda, più controversa, è che un laboratorio stesse studiando il coronavirus e che per qualche errore sia sfuggito, finendo con l’infettare la popolazione.

Scoprire quale delle due teorie sia corretta potrebbe rivelarsi fondamentale per evitare nuove pandemie in futuro.

Naturale
La prima teoria era stata considerata a lungo la più plausibile, sulla base di come si erano verificati in precedenza casi simili con altre malattie. Alla fine di dicembre del 2019 le autorità sanitarie cinesi segnalarono di avere rilevato molti casi positivi in un mercato della città di Wuhan, dove si vendevano animali selvatici. La modalità di diffusione ricordava quella di un’altra malattia respiratoria, la SARS, che nel 2002 aveva avuto origine dal contagio tra pipistrelli, zibetti e infine esseri umani. Nel 2012 era nuovamente successo con la MERS, questa volta con un passaggio del coronavirus che la causava dai pipistrelli ai cammelli, prima del contagio umano.

Il mercato di Huanan, ora chiuso, durante un’ispezione del gruppo di indagine dell’OMS il 31 gennaio 2021, Wuhan, Cina (AP Photo/Ng Han Guan, File)

L’analisi dei campioni raccolti a Wuhan confermò che le strane polmoniti rilevate in città fossero causate da un coronavirus, con caratteristiche in comune con quelli che avevano causato le epidemie da SARS e MERS negli anni precedenti. La circostanza era ritenuta un buon indizio circa l’origine naturale del virus, visto come erano andate le cose con le altre malattie e il tratto in comune dei contagi nei mercati di animali vivi.

Quest’ultimo punto in comune resse però per poco tempo: ulteriori indagini evidenziarono come a Wuhan ci fossero stati altri casi, senza alcun legame con il mercato dove erano stati raccolti i campioni. Potevano però esserci numerose spiegazioni, compresa la possibilità che alcuni contagi si fossero verificati in altri mercati della città e che fossero passati inosservati. Nel complesso, le informazioni raccolte rendevano piuttosto solida la teoria dell’origine naturale dei primi contagi e meno plausibile quella della fuga del virus da un laboratorio.

Laboratorio
L’idea che qualcosa fosse andato storto in un laboratorio era iniziata a circolare per la presenza di una coincidenza non trascurabile: a Wuhan aveva sede uno dei più importanti istituti di ricerca di virologia della Cina. Nei suoi laboratori i ricercatori lavoravano anche con i coronavirus, per studiare le loro modalità di diffusione in modo da farsi trovare pronti nel caso di nuove epidemie, come quelle note da SARS e MERS contenute prima che potessero causare gravi danni a livello globale.

Considerata la plausibilità della prima teoria, la seconda ricevette rapidamente critiche da numerosi scienziati e ricercatori. Gia a fine febbraio del 2020, un gruppo di loro scrisse una lettera aperta nella quale affermavano di essere «uniti nel condannare fermamente le teorie cospirazioniste che suggeriscono un’origine non naturale» del coronavirus.

Nella lettera si diceva che le ricerche avessero concluso «in modo schiacciante» che il coronavirus avesse avuto origine negli animali selvatici, invitando a occuparsi della malattia e a non dar credito a teorie di quel tipo. L’intervento fu ampiamente ripreso dai giornali in giro per il mondo, anche se con il senno di poi quelle affermazioni potevano apparire premature, viste le scarse informazioni ancora disponibili nell’inverno del 2020.

Tra i firmatari della lettera c’era almeno un ricercatore con conflitti d’interesse non dichiarati a Lancet, la rivista scientifica che aveva pubblicato il documento, e riconducibili al fatto che avesse lavorato per un’organizzazione che aveva finanziato alcuni lavori di ricerca presso l’Istituto di virologia di Wuhan. L’organizzazione aveva dedicato risorse non solo allo studio dei coronavirus, ma anche alla possibilità di crearne di più rischiosi rispetto a quelli presenti in natura, per provare a prevedere e prevenire nuovi passaggi di virus dagli animali agli esseri umani.

Ciò naturalmente non implica in alcun modo che questo fosse anche il caso per l’attuale coronavirus, ma c’era evidentemente l’interesse a evitare che si diffondessero informazioni fuorvianti o difficili da spiegare sulle attività svolte nei laboratori.

Nel marzo del 2020 una seconda lettera pubblicata sulla rivista scientifica Nature Medicine indicò di non avere trovato prove a sostegno della tesi di un coronavirus realizzato in laboratorio. Anche questo documento fu ampiamente ripreso dai giornali, nonostante fosse stato segnalato che grazie alle tecniche più recenti sia spesso impossibile affermare con certezza se un nuovo virus, da poco identificato, abbia un’origine naturale o sia stato il frutto di un esperimento di laboratorio.

Nei mesi successivi le due lettere furono il punto di partenza per numerosi articoli e analisi sul coronavirus, e le fonti impiegate per smontare la teoria sull’origine in laboratorio sostenuta soprattutto dai conservatori negli Stati Uniti, con frequenti allusioni da parte di Donald Trump. Il tema si fece in certa misura politico: da una parte c’erano alcuni Repubblicani colpevolisti nei confronti della Cina e dell’Istituto di virologia di Wuhan, dall’altra alcuni Democratici che accusavano i loro oppositori di non seguire la scienza e di alimentare teorie da cospirazionisti e alimentate da pregiudizi discriminatori.

Il contesto via via più politicizzato rese difficile un confronto aperto e oggettivo e, secondo alcuni osservatori, contribuì a inibire i ricercatori meno convinti dalla teoria dell’origine naturale a rendere pubbliche le loro obiezioni.

Indagine
Per circa un anno l’emersione naturale del coronavirus rimase la teoria più diffusa e condivisa, anche sui giornali. Le cose iniziarono a cambiare a febbraio del 2021, quando l’OMS organizzò un’indagine in Cina per ricostruire le prime fasi della pandemia, con l’obiettivo di trovare elementi utili per ridurre i rischi di avere una nuova crisi globale in futuro. L’indagine si concluse senza trovare indizi su un diretto coinvolgimento dell’Istituto di virologia di Wuhan o di qualche altro laboratorio, ma alcuni investigatori segnalarono di non avere ottenuto dalla Cina la collaborazione sperata, soprattutto nei termini di accesso ai documenti dei laboratori.

Dall’indagine emerse inoltre che le autorità cinesi non avevano molte prove per confermare la teoria dell’origine naturale del coronavirus, a differenza di quanto fosse avvenuto con SARS e MERS. A più di un anno dai primi casi rilevati a Wuhan, le autorità sanitarie cinesi non erano state in grado di trovare né la colonia di pipistrelli potenzialmente collegata ai contagi, né l’eventuale specie intermedia che avrebbe poi permesso al coronavirus di passare dai pipistrelli agli esseri umani. Non era nemmeno stato possibile rilevare con certezza casi di COVID-19 prima di dicembre del 2019, analizzando campioni di sangue raccolti nei mesi precedenti da pazienti che potevano avere la malattia in una fase in cui il nuovo coronavirus non era ancora noto.

Chimere
Questi tipi di virus sono noti dagli anni Sessanta, alcuni sono tra le cause del raffreddore comune, ma l’interesse dei ricercatori si è concentrato sui coronavirus soprattutto negli ultimi decenni e proprio in seguito all’emersione della SARS e della MERS. Accertato che i coronavirus che le causano avessero avuto origine nei pipistrelli, i ricercatori avevano iniziato a studiare i cambiamenti cui vanno incontro questi tipi di virus per passare da una specie a un’altra, e in particolare alla nostra.

Gli studi in tema venivano condotti anche presso l’Istituto di virologia di Wuhan, guidato da Shi Zheng-li, una delle massime esperte mondiali di virus provenienti dai pipistrelli. I ricercatori cinesi effettuavano spesso spedizioni nelle grotte nella Cina meridionale, raccogliendo campioni per scoprire nuovi coronavirus. Insieme ad alcuni ricercatori statunitensi, Shi aveva lavorato a metodi per modificare questi coronavirus, in modo da capire come facessero ad adattarsi per attaccare il nostro organismo e per capire quali rischi comportassero queste capacità di adattamento.

L’Istituto di virologia di Wuhan, Cina (AP Photo/Ng Han Guan)

Nel 2015, partendo dal SARS-CoV-1 – il coronavirus che causa la SARS – Shi e colleghi prelevarono la proteina spike (quella che consente al virus di legarsi alle nostre cellule) e la innestarono su un altro coronavirus isolato da un pipistrello. Il nuovo virus mostrò di essere in grado di infettare le cellule respiratorie umane negli esperimenti di laboratorio, quindi su campioni in vitro e non su esseri viventi.

Un virus ottenuto in questo modo viene definito “chimera”, perché fonde insieme materiale genetico proveniente da virus diversi tra loro, seppure imparentati. Gli esperimenti svolti con le chimere sono osservati con grande interesse nella comunità scientifica, ma ricevono spesso critiche per i rischi che comportano: un virus che sfugge in questo modo da un laboratorio potrebbe comportare conseguenze inattese, nel caso in cui si rivelasse molto contagioso.

Shi aveva svolto quei primi esperimenti negli Stati Uniti, tramite una collaborazione con l’Università della Carolina del Nord. Tornata in Cina, aveva ripreso i propri studi sui coronavirus modificati, circostanza testimoniata dall’esistenza di un progetto di ricerca finanziato in parte dall’Istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive degli Stati Uniti, nell’ambito di una collaborazione scientifica internazionale.

La ricerca comprendeva lo studio e la creazione di nuovi coronavirus con la più alta capacità possibile di infettare cellule umane. Questi esperimenti avrebbero consentito di valutare la capacità in natura dei coronavirus di saltare da una specie a un’altra, comprendere i meccanismi utilizzati per farlo e provare a bloccarli, in modo da ridurre i rischi di nuove epidemie. Lavorare con questi virus richiede grandi precauzioni e ci sono dubbi sugli standard di sicurezza adottati a Wuhan.

Laboratori e virus
Nei luoghi dove si fa ricerca su virus e altri patogeni ci sono solitamente laboratori con diversi livelli di sicurezza: per quelli meno rischiosi è sufficiente un livello 1 (BSL1), mentre per i virus più rischiosi si fa ricorso a laboratori di livello 4 (BSL4) dove i ricercatori devono indossare tute che li isolino completamente dall’ambiente circostante, che a sua volta viene controllato per evitare che ci siano perdite per esempio attraverso i sistemi di ventilazione.

Lavorare in un BSL4 è difficile e stancante per i ricercatori, quindi può accadere che alcuni istituti mantengano protocolli meno rigidi, consentendo l’impiego di livelli più bassi anche per virus ad alto rischio. Nel caso dell’Istituto di virologia di Wuhan sembra che il BSL4 non fosse molto adeguato, almeno secondo un’ispezione condotta nel 2018.

Ricercatori al lavoro sul coronavirus presso la sede dell’Istituto Pasteur di Lille, Francia (Sylvain Lefevre/Getty Images)

A Wuhan, comunque, prima del 2020 era previsto che gli esperimenti con i coronavirus che causano SARS e MERS fossero condotti in BSL3, mentre per i coronavirus prelevati dai pipistrelli era sufficiente un BSL2. Un virus chimera poteva quindi essere sviluppato e sperimentato in un ambiente con minori standard di sicurezza, anche se più infettivo di quelli della SARS e della MERS e senza la possibilità per i ricercatori di essere vaccinati per ridurre i rischi di contagio.

Come ha rivelato di recente il Wall Street Journal, l’intelligence statunitense ritiene che nel novembre del 2019 almeno tre ricercatori dell’Istituto di virologia di Wuhan si ammalarono con una sindrome influenzale, quindi con sintomi simili a quelli che si manifestano nel caso di una COVID-19 lieve. I tre non furono sottoposti a un tampone perché all’epoca non era ancora nota la malattia e il loro malessere fu ricondotto a una comune influenza. Non si può escludere che avessero contratto la COVID-19, ma non ci sono elementi per affermarlo con certezza o per escludere che la causa fosse stato un comune virus influenzale.

Prove e ipotesi
Le coincidenze non mancano, ma si tratta appunto di coincidenze destinate a rimanere tali in mancanza di prove convincenti e che per ora non sono emerse. Molti dubbi potrebbero essere fugati se il governo cinese decidesse di fornire più dettagli sulle attività svolte negli ultimi anni presso l’Istituto di virologia di Wuhan, soprattutto in merito allo sviluppo di coronavirus che potrebbero essere stati precursori di quello attuale.

In mancanza di quelle informazioni, Nicholas Wade, divulgatore scientifico che nell’ultimo anno si è occupato soprattutto di pandemia, ha raccolto alcuni elementi certi sul coronavirus, cercando di vedere quali scenari si adattino meglio per spiegarli.

Origine
I due parenti più stretti dell’attuale coronavirus sono stati identificati in pipistrelli che vivono in alcune grotte nello Yunnan. Se avessero infettato gli abitanti della zona e fossero stati rilevati lì i primi casi, questa circostanza andrebbe chiaramente a favore dell’emersione naturale del coronavirus. I primi casi e l’epidemia si verificarono però a Wuhan, a oltre 1.500 chilometri di distanza.

Il virus infetta pipistrelli che vivono in diverse aree della Cina meridionale e che non si spostano oltre un raggio di 50 chilometri, quindi difficilmente qualcuno di loro volò fino a Wuhan. Un individuo infetto avrebbe dovuto viaggiare dallo Yunnan a Wuhan senza contagiare nessuno fino al suo arrivo, circostanza che appare piuttosto improbabile visto il livello di contagiosità che ha mostrato di avere il coronavirus. Avrebbe dovuto lasciare inoltre qualche traccia.

La teoria del laboratorio è più semplice da spiegare per quanto riguarda l’origine. A Wuhan c’è un importante istituto di virologia dove si studiano proprio i coronavirus, e dove vengono modificati per renderli più aggressivi nei confronti delle cellule umane. Gli esperimenti potrebbero essere stati condotti in laboratori con bassi livelli di sicurezza e, ottenuto un coronavirus altamente contagioso, i rischi di diffusione sarebbero aumentati enormemente.

Evoluzione
Di solito un virus diventa in grado di infettare una specie diversa da quella che lo ospita attraverso ripetute infezioni, con mutazioni casuali che rendono infine possibile non solo il passaggio alla nuova specie, ma anche la capacità del virus di trasmettersi ad altri esemplari di quella stessa specie. Le mutazioni sono di solito numerose e analizzando il materiale genetico del virus è possibile ricostruire i vari passaggi.

Nel caso dell’attuale coronavirus i cambiamenti sembrano essere stati pochissimi, come se fosse quasi da subito in grado di adattarsi alle cellule del nostro organismo. È un fenomeno raramente osservato in natura, e per questo i sostenitori dell’emersione in laboratorio ritengono che possa essere un buon indizio a favore della loro teoria.

Proteina spike
La proteina spike utilizzata dal coronavirus per colonizzare le cellule è formata da due sotto-unità che devono essere divise per funzionare. Il coronavirus sfrutta una proteina delle nostre cellule specializzata proprio nel taglio delle proteine nei punti in cui trova le indicazioni per farlo. In pratica, la proteina si comporta come un paio di forbici che per tagliare seguono la linea tratteggiata tra le due sotto-unità.

Il problema è che questa linea tratteggiata è presente solo nell’attuale coronavirus, ma non negli altri coronavirus, che utilizzano sistemi diversi con sotto-unità organizzate in altro modo.

Chi sostiene la teoria dell’origine naturale ritiene che il SARS-CoV-2 abbia sviluppato la linea tratteggiata attraverso una mutazione, quindi il cambiamento casuale del proprio materiale genetico, oppure tramite una ricombinazione, quindi acquisendo materiale genetico da altri virus o dalle cellule stesse. È uno scenario possibile, ma piuttosto raro. La teoria della creazione in laboratorio spiegherebbe più facilmente questa circostanza, perché i ricercatori sanno da tempo che intervenendo sul meccanismo di scissione si possono ottenere virus più contagiosi e letali.

Terza via
C’è poi una terza teoria che non può essere esclusa completamente e che mette insieme pezzi della prima e della seconda. Qualche ricercatore dell’Istituto di virologia di Wuhan potrebbe avere contratto il coronavirus mentre si trovava nello Yunnan al lavoro nelle caverne dove si raccolgono campioni dai pipistrelli, proprio alla ricerca di nuovi virus. Sarebbe poi tornato a Wuhan, avrebbe continuato a lavorare nel laboratorio e avrebbe infettato altre persone, portando poi alla diffusione della malattia nella città cinese. Questa ipotesi non spiega però come sia avvenuto il passaggio dai pipistrelli e soprattutto le evoluzioni che portarono il coronavirus ad avere il punto di scissione nella proteina spike.

Politica
Il tema dell’origine del coronavirus fu ampiamente politicizzato nel 2020 e secondo diversi osservatori la teoria del laboratorio perse credibilità quando fu Trump a parlarne, in una fase in cui c’erano ancora pochi elementi per sostenerla e le sue dichiarazioni erano riconducibili a un chiaro tentativo di distogliere l’attenzione dall’emergenza sanitaria negli Stati Uniti e dalle inadeguatezze del suo governo nell’affrontarla. Le dichiarazioni perentorie e senza prove portarono a una marcata polarizzazione, inducendo anche gli esperti più moderati e possibilisti ad adottare la teoria della diffusione naturale del coronavirus, o per lo meno a non contrastarla apertamente.

Come osserva il New Yorker, negli ultimi mesi le cose sono cambiate, in parte in seguito alla fine dell’amministrazione Trump. Escluso l’elemento più polarizzante e superata la crisi sanitaria, anche grazie ai vaccini, il confronto sull’origine del coronavirus negli Stati Uniti è diventato più aperto e meno partigiano. Alcuni Democratici sono diventati più possibilisti e gli stessi esperti che alla fine dello scorso anno definivano cospirazioniste le teorie sul laboratorio hanno rivisto le loro posizioni.

Anthony Fauci, tra i più rispettati immunologi statunitensi e direttore dell’Istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive ha di recente detto di non essere più totalmente certo dell’origine naturale del coronavirus. Altri hanno messo in dubbio il rapporto dell’OMS realizzato dopo le indagini condotte a inizio anno in Cina e che dedica alla teoria del laboratorio appena 4 pagine sulle 313 del documento. Lo stesso direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha esposto la necessità di condurre nuove verifiche sul tema.

L’immunologo statunitense Anthony Fauci (80), incaricato da Joe Biden come suo consigliere per le questioni sanitarie, parla con i giornalisti alla Casa Bianca, 21 gennaio (Alex Wong/Getty Images)

È in questo contesto che è maturato l’ordine di Biden di condurre nuove indagini, anche se difficilmente arriveranno a una conclusione definitiva. In circa 17 mesi non sono emerse prove significative per confermare una teoria o l’altra, anche a causa della difficile raccolta di materiale in Cina a tratti osteggiata dal governo.

Ricostruire la genesi di un virus è molto complicato e lo diventa ancora di più man mano che passa il tempo dalla sua emersione. Come già avvenuto con le cause di altre malattie, potremmo non sapere mai con certezza come si sviluppò e diffuse il coronavirus alla base dell’attuale pandemia, mancando una preziosa opportunità per ridurre i rischi che si ripeta una crisi sanitaria globale come quella che abbiamo vissuto nell’ultimo anno e mezzo.