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  • Giovedì 15 aprile 2021

Perché i fondi stanno investendo così tanto nello sport

Succede ora perché i bilanci sono in perdita e c'è crisi di liquidità, ma dietro c'è l'attrattiva ormai consolidata del settore

(Getty Images)
(Getty Images)

I grandi fondi di investimento avevano iniziato a interessarsi allo sport professionistico già nel corso dell’ultimo decennio, attratti dalle crescenti opportunità offerte da un settore in forte crescita e con caratteristiche particolarmente attraenti. Gli effetti della pandemia sui bilanci di campionati, squadre e federazioni hanno accelerato questo processo a tal punto che gli investimenti dei fondi ai più alti livelli dello sport possono essere considerati il primo grande impatto a lungo termine che la pandemia ha avuto sul settore.

Soltanto nell’ultimo mese il fondo britannico CVC Capital Partners ha acquistato il 14 per cento delle quote del torneo Sei Nazioni di rugby per una somma compresa tra i 350 e i 425 milioni di euro, mentre RedBird Capital Partners ha acquistato il 10 per centro della Fenway Sports Group, società valutata oltre 6 miliardi di dollari che fra le altre cose controlla i Boston Red Sox nel baseball e la squadra di calcio del Liverpool (tra gli investitori riuniti in RedBird Capital Partners c’è anche LeBron James).

Lo stesso fondo che ha acquistato le quote di minoranza nel Sei Nazioni sta trattando da tempo il suo ingresso come socio nella gestione della media company che dovrebbe occuparsi della commercializzazione del campionato di Serie A. Insieme ad altri due fondi, CVC ha offerto 1 miliardo e 700 milioni di euro per il 10 per cento delle quote.

In Nuova Zelanda, invece, l’associazione nazionale di giocatori e giocatrici si è recentemente opposta alle trattative in corso tra New Zealand Rugby, l’organo che governa il rugby professionistico neozelandese, e il fondo statunitense Silver Lake, che offre 276 milioni di euro per acquistarne il 15 per cento sotto forma di diritti commerciali.

(Hannah Peters/Getty Images)

Gli investimenti non riguardano soltanto tornei ed enti federali, ma anche i club. L’elenco di squadre controllate da fondi d’investimento sta diventando sempre più lungo. In Italia il Milan è dal 2018 proprietà del fondo statunitense Elliott, che controlla il club al 95,73 per cento. Elliott ha interessi anche in un’altra squadra europea, il Lille, pignorato per insolvenza dalla vecchia proprietà lo scorso dicembre e affidato a una nuova dirigenza. Sempre in Italia, a Milano, anche l’Inter è alla ricerca di un socio di minoranza, con buone probabilità che si tratterà di un fondo.

Lo sport professionistico era già considerato un investimento sicuro prima dell’inizio della pandemia. È infatti un “settore” che ha oltre un secolo di storia e che fin dagli inizi non ha mai smesso di crescere su scala globale. Le aziende, cioè i club, hanno una base di consumatori estremamente fedeli, più di qualsiasi altro marchio in commercio. Nel corso degli anni, le singole attività sono anche diventate economicamente più solide e affidabili, basti pensare alla Serie A italiana. Dieci anni fa i proprietari delle venti squadre del campionato erano tutti italiani: spesso famiglie e altrettanto spesso incostanti e imprevedibili nella gestione delle loro attività. Oggi il 35 per cento dei club è di proprietà straniera, e la quota sembra destinata a salire ancora.

Le stringenti norme finanziarie introdotte dalla UEFA — il cosiddetto Fair play finanziario — sono servite a ridurre i debiti e a rendere economicamente più stabile il calcio europeo, diventato quindi più appetibile. Quello che però continua a trainarne la crescita, così come gli investimenti, sono il merchandising (nel caso delle squadre più conosciute) e i diritti televisivi. Tra il 2007 e il 2010 i diritti di trasmissione esteri della Premier League inglese, il campionato di calcio più famoso al mondo, furono venduti per 650 milioni di sterline; dieci anni dopo, quelli validi per il triennio 2016-19 hanno fruttato 3 miliardi di sterline.

Lo sport presenta tuttavia anche dei rischi, costituiti principalmente dalla sua esposizione nei periodi di crisi. È appurato infatti che la domanda di intrattenimento di carattere sportivo dipende dal clima economico del luogo in cui si trova: in difficoltà economiche, come prima cosa tifosi e appassionati tendono a tagliare i costi sostenuti per tutto quello che è legato allo sport.

(Mike Hewitt/Getty Images)

Ma nonostante questo sia effettivamente un periodo di crisi economica causato dalla pandemia, la stessa pandemia ha in un certo senso spianato la strada all’ingresso dei fondi nello sport. Anche le realtà più grandi e poco soggette a svalutazioni — come gli All Blacks nel rugby — stanno registrando bilanci in perdita e affrontano grosse crisi di liquidità. Le restrizioni hanno infatti privato lo sport di uno dei suoi maggiori punti di forza: le grandi e puntuali immissioni di liquidità in occasione degli eventi ospitati, o nei periodi di vendita degli abbonamenti stagionali. Leghe e club — il cui valore medio in questo periodo è stabile — stanno quindi cercando liquidità in altri modi: principalmente dai fondi di investimento, che ne dispongono in abbondanza. In cambio rinunciano a una parte delle loro quote, le stesse che i fondi ritengono di poter far fruttare nel tempo secondo le loro previsioni di crescita.

I modi con cui i fondi progettano di far fruttare i loro investimenti possono essere diversi fra loro, ma puntano tutti allo stesso obiettivo. Il rugby, per esempio, è uno sport considerato ancora “giovane”: il professionismo esiste da circa un ventennio, tante competizioni devono ancora trovare un formato adatto e i calendari internazionali, di conseguenza, sono abbastanza confusionari e soggetti a modifiche. Da questo punto di vista, la fruibilità televisiva del rugby offre un grande potenziale ancora inespresso, soprattutto nei paesi del Commonwealth. Una riorganizzazione dei calendari potrebbe quindi aumentare in modo sostanziale il valore del movimento, quindi i profitti dei fondi che ci hanno investito.

Un esempio diverso è l’Inter, che dopo una ristrutturazione societaria durata un decennio, con due diverse proprietà, è tornata di recente ai vertici del calcio italiano e a meno di sorprese tornerà a vincere lo Scudetto. Per il club si prospettano quindi significativi aumenti di entrate, sia dalla parte sportiva che da quella commerciale — trainata anche dalla prospettiva di un nuovo stadio —, che lo rendono appetibile agli investitori. A inizio anno il fondo inglese BC Partners, interessato a una quota di minoranza, aveva valutato l’Inter tra i 750 e gli 800 milioni di euro, una stima ritenuta però bassa dall’attuale proprietà.

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