Lo studio che invita a riaprire le scuole fa discutere

Sembra che abbia influenzato le decisioni del governo, ma molti esperti hanno giudicato poco attendibili i dati su cui si basa

(Alessio Coser/Getty Images)
(Alessio Coser/Getty Images)

La scorsa settimana su Lancet Regional Health – Europe, una delle tante riviste affiliate alla più nota rivista scientifica Lancet, è stato pubblicato uno studio scientifico secondo cui le scuole italiane sarebbero un luogo sicuro, e non contribuirebbero a far crescere i contagi da coronavirus. I risultati di questo lavoro si attendevano da tempo, perché fin dall’inizio dell’epidemia il governo ha disposto la chiusura delle scuole senza avere dati approfonditi in un senso o nell’altro: ma questa è anche una delle principali critiche che vengono rivolte allo studio. Secondo molti esperti, infatti, l’analisi si basa su dati vecchi e poco affidabili, e giunge a conclusioni affrettate e parziali.

Nonostante sia stata presa con disinvoltura dal governo e da molti presidenti delle regioni – optando quasi sempre per la chiusura, a volte anche lasciando aperti i negozi – la decisione di riaprire o meno le scuole è una delle più complesse e problematiche: riguarda milioni di famiglie che da un anno sono state costrette a riorganizzare il lavoro e la vita privata, dovendo badare ai figli tutto il giorno, e può compromettere lo sviluppo intellettivo e sociale di milioni di giovani. Dall’autunno queste difficoltà sono aumentate perché, rispetto alla prima ondata, molte aziende hanno limitato lo smart working, e la necessità di assistere i bambini durante la didattica a distanza sta ricadendo soprattutto sulle donne.

Al momento il governo ha deciso che le scuole saranno riaperte dopo le feste di Pasqua. In zona rossa torneranno in presenza le scuole dall’infanzia alla prima media, mentre dalla seconda media fino all’ultimo anno di superiori si resterà in didattica a distanza. In zona arancione, invece, le scuole riapriranno fino alla terza media; per le superiori è prevista una quota tra il 50 e il 75 per cento in didattica in presenza. «Le evidenze scientifiche dimostrano che fino alla prima media le scuole di per sé non sono fonte di contagio, quello che lo è, è quello che c’è attorno alla scuola e più l’età si alza e più le attività aumentano», ha detto il presidente del Consiglio Mario Draghi in conferenza stampa, il 26 marzo, per spiegare le riaperture.

Pur senza citarlo direttamente, secondo molte ricostruzioni giornalistiche le “evidenze scientifiche” di cui parla Draghi sono legate allo studio pubblicato lo stesso 26 marzo da Lancet Regional Health – Europe e anticipato in due occasioni dal Corriere della Sera, il 19 dicembre 2020 e lo scorso 22 marzo.

(Diana Bagnoli/Getty Images)

Cosa dice lo studio
Gli autori della pubblicazione sono Sara Gandini, direttrice del Dipartimento di epidemiologia e biostatistica dell’Istituto Europeo di oncologia di Milano, e altri esperti: Maurizio Rainisio, Maria Luisa Iannuzzo, Federica Bellerba, Francesco Cecconi e Luca Scorrano.

Lo studio analizza i dati dei nuovi casi di coronavirus dal 12 settembre all’8 novembre comunicati da 7.976 scuole (il 97 per cento del totale) al ministero della Salute. Come riportato nello studio, i dati rappresentano 7,3 milioni di studenti, 775mila docenti e 206mila operatori non docenti.

I ricercatori hanno confrontato l’incidenza tra la popolazione generale e quella rilevata tra gli studenti di elementari e medie, gli studenti delle superiori e il personale scolastico docente e non docente. Nel periodo analizzato, l’incidenza dei positivi tra gli studenti è stata inferiore a quella registrata tra la popolazione: 66 casi ogni 10mila abitanti in elementari e medie, 98 casi ogni 10mila abitanti nelle scuole superiori contro i 108 positivi ogni 10mila abitanti della popolazione.

Tra il personale scolastico, invece, è stata registrata un’incidenza doppia rispetto alla popolazione, approssimativamente 220 casi ogni 10mila persone. «Per quanto riguarda i docenti e il personale, prima della vaccinazione ognuno di loro era esposto a numerosi contatti ogni giorno, e ciò spiega perché abbiano avuto un incremento delle infezioni», ha spiegato Gandini al Sole 24 Ore. Anche i cluster scolastici, cioè le classi con più di due casi nella stessa settimana, sarebbero stati limitati: tra il 5 e il 7 per cento sul totale delle scuole.

In verde, le regioni con un’incidenza inferiore rispetto alla popolazione (Lancet Regional Health – Europe)

Secondo le conclusioni, non c’è nessuna associazione tra l’apertura delle scuole e l’aumento dell’indice Rt durante la seconda ondata dell’epidemia. Per lo stesso motivo, la chiusura delle scuole non avrebbe influenzato la successiva discesa dell’Rt.

Sara Gandini spiega che le scuole possono svolgere un ruolo di contenimento della diffusione del virus, perché più sicure rispetto all’esterno dove i giovani si ritrovano in situazioni meno controllate. «Le scuole non sono un luogo sicuro in assoluto perché nessun luogo può esserlo in una pandemia, ma è uno dei luoghi più sicuri», ha detto Gandini. «Tenere aperte le scuole permette di fare tracciamento, quindi al limite bisognerebbe investire di più sul tracciamento. La scuola deve essere l’ultima a chiudere e la prima a riaprire, perché il concetto di salute è ben più complesso che il conteggio dei contagi e dovrebbe includere anche la salute dei ragazzi».

Le critiche
Da quando sono stati pubblicati i primi risultati, lo scorso dicembre, molti esperti e ricercatori hanno espresso dubbi sull’attendibilità del lavoro di Gandini e degli altri ricercatori. Le critiche, rafforzate dopo le nuove pubblicazioni della scorsa settimana, riguardano molti aspetti, dal metodo di analisi all’affidabilità dei dati utilizzati, fino all’autorevolezza della rivista su cui è stata pubblicata la ricerca.

Una delle critiche più condivise riguarda la scarsa attendibilità del periodo analizzato, dal 12 settembre all’8 novembre, una fase molto precoce della seconda ondata, quando il rischio di contagio era inferiore per tutta la popolazione rispetto a quanto sarebbe successo dopo. Con i dati risalenti a mesi fa, inoltre, non è possibile verificare l’impatto delle nuove varianti del coronavirus, più contagiose. La scarsa conoscenza delle varianti è stato uno dei problemi più rilevanti della cosiddetta terza ondata.

Lo studio, poi, non sembra valutare con attenzione il fatto che i bambini hanno una maggiore probabilità di essere asintomatici: contagiati ma senza sintomi, sono difficili da individuare e potrebbero sfuggire al tracciamento, ma potrebbero comunque contribuire a diffondere il virus a scuola e in famiglia.

Roberto De Vogli, epidemiologo dell’università di Padova, spiega che i risultati della ricerca non sono una base solida per dimostrare la sicurezza delle scuole. Secondo De Vogli servirebbero studi sperimentali per paragonare l’incidenza dei contagi in studenti che frequentano la scuola e studenti che non la frequentano. «La scuola è sicura solo se ci sono pochi contagi sul territorio e vengono adottate efficaci strategie basate su tamponi frequenti, tracciamenti tempestivi con tecnologie di sorveglianza epidemiologica e rigoroso isolamento/quarantena», ha scritto.

Secondo il giornalista scientifico Sergio Pistoi, laureato in Scienze biologiche all’università di Torino e con un dottorato in Biologia molecolare all’Université Pierre et Marie Curie di Parigi, già corrispondente di Reuters Health, la notevole diffusione della ricerca è stata influenzata dal fatto che molti degli autori, tra cui Sara Gandini, gestiscono una popolare pagina Facebook con posizioni generalmente contrarie a lockdown e restrizioni. «Il lancio funziona e un lavoro mediocre criticato da quasi tutti gli esperti e poi pubblicato su una rivista altrettanto mediocre diventa uno studio groundbreaking (rivoluzionario, ndr) che influenzerà il dibattito pubblico e le scelte del governo», scrive Pistoi, che definisce Lancet Regional Health – Europe «uno dei tanti sottoprodotti del gruppo Lancet, che ha dozzine di testate. Una rivista di bassissimo impatto».

(Diana Bagnoli/Getty Images)

I dati non ci sono
Lo scorso 26 gennaio Stefano Merler, ricercatore della Fondazione Bruno Kessler che ha lavorato all’analisi dei dati dell’epidemia, ha presentato al comitato tecnico scientifico un modello matematico per misurare l’impatto della riapertura delle scuole. Il modello, come si legge nel verbale pubblicato a inizio marzo, ha preso in esame l’andamento dell’indice Rt e l’incidenza settimanale dei nuovi casi prima e dopo l’introduzione delle misure restrittive con i colori.

Secondo i risultati, nelle zone rosse e arancioni l’apertura delle scuole superiori non sembra avere avuto un impatto sull’epidemia. Al contrario, in zona gialla l’epidemia risulta gestibile con la chiusura delle scuole superiori.

Ma più che i risultati relativi ormai a mesi fa, quando in Italia non c’era ancora evidenza della variante inglese, viene sottolineata la mancanza di dati affidabili. «Per ciò che concerne l’analisi dei contagi intrascolastici non si hanno ad oggi informazioni», si legge nel verbale. «Non esistono stime di trasmissibilità nelle scuole e quindi non è possibile analizzare l’effetto della riorganizzazione scolastica alla ripresa delle attività didattiche dopo la scorsa estate. Al momento, è possibile basarsi solo sul numero dei contagi che avvengono in età scolare, senza avere evidenza se questi siano avvenuti all’interno delle scuole, prima dell’ingresso negli istituti scolastici o nelle attività periscolastiche».