Il diritto di voto andrebbe esteso ai 16enni?

Una proposta di Enrico Letta ha rianimato un vecchio dibattito: cosa dice chi è a favore, e cosa obietta chi è contrario

Un momento della manifestazione per lo sciopero globale del clima Fridays For Future, Roma, 29 novembre 2019 (ANSA/ANGELO CARCONI)
Un momento della manifestazione per lo sciopero globale del clima Fridays For Future, Roma, 29 novembre 2019 (ANSA/ANGELO CARCONI)

Nel suo discorso all’Assemblea nazionale del Partito Democratico di domenica, prima di essere eletto segretario, Enrico Letta ha proposto di dare il diritto di voto a chi ha compiuto 16 anni. L’idea non è nuova: Letta l’aveva proposta anche nel 2019, riprendendo Walter Veltroni che l’aveva lanciata nel 2007 quando divenne segretario del Partito Democratico. Nel 2015 la Lega Nord presentò una proposta di legge costituzionale a riguardo, e la stessa iniziativa era stata avanzata anche dai Socialisti. Da anni esiste un dibattito sulla questione, con autorevoli posizioni e argomentazioni pro e contro.

Come funziona e qualche dato
In Italia, dice la Costituzione, bisogna avere compiuto almeno la maggiore età (un tempo era 21 anni, ora 18) per esprimere il proprio voto per la Camera, e 25 anni per il Senato: la legge costituzionale per consentire di eleggere senatori e senatrici anche alle persone che hanno compiuto 18 anni si era fermata in Parlamento lo scorso ottobre, dopo essere stata approvata da una larghissima maggioranza alla Camera nel luglio del 2019.

In Europa, alcuni paesi hanno già abbassato i limiti di età al voto: in Austria chi ha sedici anni può votare in tutte le elezioni dal 2007, così come a Malta dal 2018. Per essere candidabili, in entrambi i paesi è necessario aver compiuto 18 anni. In Grecia, grazie a una riforma del governo guidato da Alexis Tsipras, dal 2016 possono votare anche i diciassettenni. In Ungheria i maggiori di sedici anni possono votare se sposati, in Germania solo nelle elezioni dei Parlamenti di alcuni länder e in Svizzera nel cantone di Glarona. In Scozia, i sedicenni hanno votato per la prima volta nel 2014 (al referendum per l’indipendenza) e c’è stata una sperimentazione anche in Norvegia nel 2011, in occasione di alcune elezioni locali.

Nel resto del mondo il diritto al voto è esteso ai e alle sedicenni in Argentina, Brasile, Nicaragua, Cuba, Ecuador, mentre in Indonesia e Timor Est si vota dai 17 anni in su (si può votare a 17 anni anche in Corea del Nord, anche se non serve a molto).

La Stampa, citando i dati ISTAT, ricorda oggi che in Italia le persone che hanno tra i 16 e i 18 anni non compiuti sono circa 1 milione e 130 mila, «un cinquantesimo del corpo elettorale delle politiche del 2018, un 2%». Una percentuale «che non potrebbe spostare grandi equilibri» anche se tutti e tutte votassero in modo compatto per un singolo partito.

Un po’ di storia
Storicamente, e non senza grandi campagne e battaglie, la direzione dei paesi democratici è stata quella dell’inclusione di un sempre maggior numero di persone nel processo democratico. La più significativa di queste lotte fu quella per il suffragio chiamato universale, ma dal quale erano escluse le donne, vinta in quasi tutto il mondo cosiddetto sviluppato tra la fine dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del secolo successivo. In Italia le donne furono considerate cittadine al pari degli uomini solo alla fine della Seconda guerra mondiale, il 10 marzo del 1946. La loro prima occasione di voto non fu, come molti pensano, il referendum del 2 giugno 1946 per scegliere tra monarchia e repubblica, bensì le amministrative di qualche mese prima.

– Leggi anche: La storia del suffragio femminile in Italia

Nei decenni precedenti al suffragio realmente universale non erano escluse solo le donne: tra i maschi potevano esercitarlo soltanto quelli che pagavano una certa quantità di tasse oppure i proprietari terrieri, poiché si riteneva che chi non possedeva nulla non avesse interesse al benessere della società (negli Stati Uniti il diritto di voto rimase legato alla proprietà fino alla Guerra Civile).

Quando il “voto per censo”, cioè basato sulla ricchezza, fu sconfitto in quasi tutta Europa e nel continente americano, cominciò la lotta contro coloro che ritenevano che l’istruzione dovesse costituire il requisito necessario per poter votare. Fino a buona parte dell’ultimo secolo, infatti, moltissimi paesi non permettevano agli analfabeti di partecipare alle elezioni, oppure obbligavano i cittadini a superare un test per ottenere il diritto di voto. La giustificazione formale che si adottava all’epoca era che gli analfabeti e le persone poco istruite non fossero in grado di capire la politica, e che per questo non avessero diritto a dire la loro. In realtà l’esclusione venne usata soprattutto per colpire i gruppi più oppressi, che con il loro voto avrebbero potuto ottenere un cambiamento dell’ordine sociale ed economico esistente.

Prima della Seconda guerra mondiale era necessario avere 21 anni o più per votare, in quasi tutto il mondo. Solo negli anni Settanta, anche in seguito alle contestazioni giovanili, molti paesi abbassarono a 18 anni il diritto di elettorato attivo e passivo (cioè quello di essere eletti, oltre che di votare). Nel Regno Unito accadde nel 1969, negli Stati Uniti nel 1971, in Canada e Germania Ovest nel 1972, in Australia e Francia nel 1974 e infine nel 1975 anche in Italia.

Queste riforme furono accompagnate da larghi dibattiti, molto polarizzati dal punto di vista politico: i conservatori citavano l’irresponsabilità delle persone giovani ipotizzando disastri che avrebbe comportato la loro inclusione nel corpo elettorale. Il timore, almeno negli anni Settanta, era soprattutto che avrebbero votato in massa a sinistra: cosa che in parte peraltro si verificò. Dall’altra parte i giovani e chi li sosteneva all’interno dei partiti di sinistra citavano la ciclicità di simili obiezioni, già sentite in passato per escludere le persone povere, analfabete e le donne.

Parte di queste argomentazioni è presente anche nel dibattito attuale sul voto ai 16enni, anche se rispetto a un tempo è un po’ più frastagliato e meno sovrapponibile a fazioni politiche facilmente identificabili.

Perché no
Uno degli argomenti principali contro il voto a chi ha compiuto 16 anni è la convinzione che a quell’età non si sia sufficientemente maturi, istruiti e consapevoli, e che si sia al contrario irresponsabili e incapaci di avere una coscienza politica. Sulla Stampa di oggi, ad esempio, la psicologa dello sviluppo Anna Oliverio Ferraris dice che a 16 anni «c’è ancora tanta immaturità e impulsività: si lasciano dominare dalle emozioni, è facile influenzare le loro opinioni e strumentalizzarli». Alcuni, per sostenere questa argomentazione, fanno anche paragoni tra generazioni ed epoche: negli anni Settanta, si dice, quando fu approvata la legge che abbassò la maggiore età da 21 a 18 anni, anticipando dunque il diritto di voto, le persone più giovani avevano tendenzialmente una maturità politica differente rispetto ai loro coetanei attuali.

C’è poi chi pensa che i giovani tendano a votare come i loro genitori e che quindi l’estensione del diritto di voto non farebbe che dare più forza al voto di chi già vota. Questo argomento è avanzato generalmente da chi è preoccupato dalla direzione di questi nuovi voti: gli aventi diritto nati dopo il 1997, alle ultime elezioni europee, hanno ad esempio votato a destra. È stato calcolato che il 38 per cento di chi ha votato alle europee per la prima volta ha votato Lega, percentuale superiore al dato nazionale aggregato.

Un altro argomento laterale contro l’estensione ha poi a che fare con le priorità della politica, che non dovrebbe occuparsi di giovani concedendo loro il diritto di voto, ma occupandosene sul serio. Qualche ora fa Giorgia Meloni su Facebook ha scritto: «Veramente qualcuno crede che per un sedicenne, oggi, la priorità sia il diritto di voto e non il diritto all’istruzione, alla socialità, alla libertà? Pietà!».

Michela Marzano su La Stampa ha spiegato: «Cos’è che ci rimproverano veramente i più giovani? Di non votare a 16 anni oppure di non poter ottenere un posto di lavoro nonostante si diplomino e si laureino? Di non sentirsi rappresentati in Parlamento oppure di imporre loro il nostro narcisismo, quello che ci porta a dire sempre “io” senza lasciare spazio al “tu”?». E ancora: «Oltre a voler concedere loro il voto, si ha in mente di riscrivere i programmi scolastici, e quindi di discutere con loro di diritti e di giustizia distributiva, di uguaglianza e di memoria, di crisi ambientale e di utilizzo responsabile dei social – formando prima di tutto i loro insegnanti – oppure si pensa di buttarli nell’arena politica senza strumenti, magari senza nemmeno suscitare in loro il desiderio di esserci?».

Per altri, dall’acquisizione di questo diritto deriverebbero conseguenze di cui nel dibattito si tiene poco conto: permettere il voto a 16 anni significherebbe anticipare la maggiore età, con conseguenze dirette sul piano penale, civile o amministrativo. Il presidente emerito della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli, ha spiegato sullo Huffington Post che per dare il voto ai sedicenni si potrebbero seguire due strade: si potrebbe modificare la maggiore età che oggi è fissata a 18 anni intervenendo sull’articolo 2 del codice civile, oppure si potrebbe cambiare la Costituzione abbassando solamente l’età necessaria per il voto.

In questo secondo caso, dice Mirabelli, «ci potrebbe essere il rischio di una irragionevolezza per la maturità ordinaria per acquisire il potere di autodeterminarsi in qualsiasi altro settore». Cioè «per svolgere un atto come il voto, che ha una rilevanza quasi maggiore degli altri» basterebbe un’età più bassa rispetto a quella necessaria per esempio per guidare l’automobile. Intervenendo sul codice civile ci sarebbero quasi automaticamente una serie di altre conseguenze a cascata: si abbasserebbe l’età in cui si ha piena responsabilità penale, ci sarebbero effetti per l’età matrimoniale, cambierebbero «anche norme di contorno come quelle di carattere previdenziale. Per esempio fino a quale età si può godere degli assegni familiari. Ma pensiamo anche più banalmente al conseguimento della patente di guida», dice Mirabelli, concludendo che «se si vuole procedere in questo senso c’è bisogno di un intervento che armonizzi l’intero sistema».

Sì e No
Tra il no netto e il sì a prescindere ci sono alcune posizioni intermedie che tengono conto anche di come accompagnare l’eventuale riforma o del cosa fare prima che venga introdotta. Sulla Stampa di oggi Ariete, nome d’arte di Arianna Del Giaccio, cantante diciottenne, ha ad esempio spiegato: «Dobbiamo fare le cose seriamente», dice. «Una proposta come questa ha senso se è inserita in un discorso più ampio (…) L’educazione civica è importantissima e necessaria per formare nuovi elettori, ma deve essere fatta nelle aule scolastiche, tutte le settimane. (…) Prima di dare ai ragazzi la possibilità di votare, bisogna dare loro la possibilità di formarsi. Così diventerà un’ottima idea».

Anche la sociologa Chiara Saraceno ha spiegato che il diritto di voto non può essere dato «senza prima preoccuparci di affrontare la povertà educativa», altrimenti si rischia «di fare solo un maquillage, sottovalutando la loro condizione, senza dare loro gli strumenti necessari e renderli cittadini competenti. Avrei voluto sentire da Letta qualcosa in più sulla scuola, così sembra un balzo in avanti senza premesse».

Perché sì
Gli argomenti a favore dell’allargamento dell’elettorato a chi ha 16 anni (che spesso tengono conto anche del come attuare la proposta) sono generalmente più articolati rispetto a quelli contrari. Uno ha a che fare con lo squilibrio demografico dell’Italia tra chi ha meno di 35 anni e chi ne ha più di 65: anche abbassando l’età del voto, il peso elettorale dei primi rimarrebbe inferiore di oltre 2 milioni rispetto al peso dei secondi, ha spiegato sul Sole 24 Ore Alessandro Rosina. La proposta consentirebbe quindi di ridurre in modo marginale il divario. Rifiutarla, dice Rosina, «lascerebbe agli squilibri demografici di decidere per noi che i giovani contano poco».

In una lezione molto discussa di due anni fa, il capo del dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Cambridge David Runciman sostenne la stessa cosa: «I giovani sono sistematicamente messi in inferiorità numerica dagli anziani», e questo non solo perché i giovani tendenzialmente votano meno frequentemente degli anziani, ma anche perché se anche andassero a votare tutti insieme sarebbero comunque di meno. Il loro svantaggio numerico è reso definitivo e insormontabile dal fatto che la coda della loro classe d’età, coloro che hanno meno di 18 anni, è esclusa dal diritto di voto, mentre «non si perde il diritto di voto arrivati a 75 anni. Puoi continuare a votare fino al giorno della tua morte e senza dover affrontare alcun test».

Francesco Clementi, costituzionalista e professore di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia, ha usato la questione demografica per sostenere anche un secondo argomento: «L’attuale sistema toglie ai giovani la possibilità di poter incidere nelle decisioni. Quindi è la demografia che determina la necessità di riequilibrare il problema del voto per i giovani, perché le decisioni di indirizzo del paese per lo più sono in mano a una generazione che ha meno futuro di quello che normalmente i giovani hanno. E questo produce differenze notevoli della definizione dell’agenda delle politiche, prima che della politica, del paese, inevitabilmente rallentando ogni spinta al futuro e alle scelte che esso comporta».

Sono insomma soprattutto le nuove generazioni a subire o a trarre beneficio dalle scelte politiche che vengono prese oggi, quindi andrebbe data loro la possibilità di votare: perché possano contribuire concretamente a decidere e per dare un maggior peso alle pressioni che possono esercitare sulla politica e sull’idea di futuro che proprio loro abiteranno più a lungo. Assumendo il punto di vista della politica istituzionale, la proposta potrebbe anche essere considerata una sfida per i partiti che darebbero maggiore rilevanza all’opinione delle nuove generazioni e che si troverebbero davvero a confrontarsi con le loro istanze e richieste.

Rosina, sul Sole 24 Ore, nota anche che a sedici o a diciassette anni, in particolari condizioni, si può lavorare e si possono pagare le tasse. Perché dunque, si chiede, almeno alle amministrative non dare la possibilità di «contribuire con il proprio voto alla decisione di chi gestirà il bene pubblico del territorio di residenza?»

C’è poi una cosa da tener presente, dice chi è a favore della proposta. Migliaia di ragazzi e ragazze delle scuole medie e superiori sono tornati in massa e in modo più organizzato a protestare, anche in Italia: per il clima, per i diritti delle donne e contro la violenza di genere e per il diritto allo studio. I dati sul servizio civile, si spiega sul Sole 24 Ore, dicono poi che le domande sono più che raddoppiate rispetto ai posti resi disponibili: «Abbinare l’estensione del diritto al voto (…) a un potenziamento del diritto alla cittadinanza nelle scuole, potrebbe essere il modo più efficace per rafforzare (…) l’interesse a capire meglio le sfide del proprio tempo e il percepirsi come parte attiva per le soluzioni da dare».

Da maggiori interessi in gioco, dice chi vuole estendere il diritto di voto, deriverà insomma un maggiore interesse e una maggiore assunzione di responsabilità. Il voto potrebbe aiutare a rendere le persone più giovani partecipi alla vita politica del paese, e ci sono anche delle prove. Quando nel 2007 l’Austria divenne il primo paese europeo a dare il voto ai e alle sedicenni, si scoprì che chi aveva appena acquisito questo diritto si informò allo stesso livello delle persone più anziane e più inclini ad andare a votare.

“Avere un’idea di come stanno le cose”, osservano poi in molti, non è considerato un requisito necessario per votare, né sono i “migliori” o i più  “degni” quelli che hanno diritto di esprimersi tramite un voto che in democrazia dovrebbe essere il più esteso e rappresentativo possibile, per comporre e conciliare interessi e soggettività differenti. Gli strumenti culturali e l’educazione civica, insomma, mancano spesso anche agli adulti e infatti nemmeno ai maggiori di 18 anni si chiede di essere informati o preparati per votare. Nessuno, inoltre, pensa di ritirare il diritto di voto ai malati di Alzheimer o agli anziani affetti da demenza senile, o ad altre categorie di adulti per cui si possa ipotizzare una minore consapevolezza e lucidità politica.

La presunta scarsa formazione, poi, non può essere un ostacolo, ha spiegato la scrittrice Lidia Ravera alla Stampa: «Perché i ragazzi hanno tanti modi di informarsi e imparare: non credo che un sedicenne sia per forza meno preparato di un diciottenne, anzi. I giovani hanno uno sguardo non inquinato da decenni di delusioni e sentono la responsabilità del nostro pianeta più di noi adulti: ora che si parla di investimenti sull’ambiente vedo bene una leadership dei 16enni, Greta Thunberg insegna. Io ho iniziato a pensare politicamente nel ’68, proprio a 16 anni, e non ho più smesso: ho sempre sperato nell’irruzione delle donne nella politica, ma va bene anche quella dei 16enni».