La stagione delle allergie dura di più

Almeno nel Nord America, secondo uno nuovo studio scientifico, e c'entra il riscaldamento globale

Un'ape coperta di polline (AP Photo/Michael Probst, La Presse)
Un'ape coperta di polline (AP Photo/Michael Probst, La Presse)

Il cambiamento climatico è un problema per molte ragioni, e forse dobbiamo aggiungerne una a quelle che già conosciamo. Un nuovo studio scientifico dice che a causa del riscaldamento globale le piante producono una maggiore quantità di polline rispetto al passato, e lo fanno più a lungo, almeno nel Nord America.

Da tempo gli scienziati hanno notato un allungamento della stagione dei pollini, insieme a un loro aumento. Lo studio, pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences il 16 febbraio, aggiunge qualche dato a queste osservazioni e giunge alla conclusione che tra il 1990 e il 2018 la stagione dei pollini si è anticipata di 20 giorni e si è allungata di circa 8 a causa dell’aumento di anidride carbonica nell’atmosfera e delle temperature medie più alte. Gli autori dello studio hanno anche stimato che nello stesso periodo di tempo il polline sia aumentato del 21 per cento, in parte per il cambiamento climatico, in parte per altri fattori: il solo cambiamento climatico sarebbe responsabile di un aumento dell’8 per cento.

L’aumento della quantità di polline riguarda soprattutto gli alberi, meno le piante erbacee, e alcune zone degli Stati Uniti in particolare: il Texas, gli stati sud-orientali e il Midwest. Un altro dato che emerge dallo studio è che l’aumento del polline prodotto dalle piante è stato maggiore negli ultimi anni dell’intervallo preso in considerazione.

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Per verificare che ci fosse un legame tra l’aumento dei pollini e il cambiamento climatico, gli autori dello studio hanno usato il metodo della cosiddetta “scienza dell’attribuzione”, lo stesso che si usa per stimare in quale misura gli eventi meteorologici estremi o i grandi incendi forestali siano influenzati dal riscaldamento globale. Sono state analizzate le rilevazioni di 60 stazioni di monitoraggio dei pollini sparse per gli Stati Uniti ed è stata cercata una correlazione tra le tendenze emergenti da questi dati e vari modelli climatici. Si è anche cercato di individuare gli altri fattori che hanno contribuito all’aumento del polline zona per zona, come ad esempio l’aumento del numero di piante.

La conclusione degli autori dell’articolo è che l’impatto del cambiamento climatico causato dalle attività umane sia «chiaramente riscontrabile» nella produzione di polline e che questo fenomeno sia un «esempio rilevante» di come il cambiamento climatico stia avendo delle conseguenze anche sulla salute delle persone. Per alcune persone, le allergie ai pollini sono solo un fastidio, ma per chi soffre d’asma possono essere un vero e proprio disagio.

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Non ci sono ricerche analoghe a quelle pubblicate su Proceedings of the National Academy of Sciences per l’Italia.

Un altro studio, risalente al 2019 e fatto mettendo insieme dati da diverse parti d’Europa, oltre che dal Canada, dagli Stati Uniti e della Corea del Sud, dice che l’aumento delle temperature massime e minime negli ultimi decenni può aver contribuito ad allungare la stagione dei pollini che causano allergie e ad aumentarne la produzione in varie località dell’emisfero Boreale: il fenomeno non è in realtà stato osservato per i dati italiani e sudcoreani considerati nello studio (relativi a Legnano, in Lombardia, e a Seul e Busan, in Corea del Sud), ma in queste località le temperature minime e massime non sono particolarmente cambiate nel periodo per cui si hanno i dati. L’aumento delle temperature medie dovute al riscaldamento globale del resto non è uguale in tutto il mondo.