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  • Venerdì 26 febbraio 2021

Cosa deve fare l’Unione Europea con la Russia

Essere più coerente e decisa, sostengono diversi esperti, perché quello che si è fatto finora per contrastare l'influenza russa non è stato sufficiente

Vladimir Putin (AP Photo/Gregorio Borgia)
Vladimir Putin (AP Photo/Gregorio Borgia)

Nell’ultima riunione dei ministri degli Esteri dei paesi dell’Unione Europea sono state decise nuove sanzioni nei confronti della Russia, che verranno verosimilmente applicate nei prossimi giorni. La decisione è arrivata a pochissima distanza da una visita di stato a Mosca del capo della diplomazia europea, l’Alto rappresentante per gli affari esteri Josep Borrell, che aveva l’ambizioso obiettivo di far ripartire una forma di dialogo col governo semiautoritario di Vladimir Putin. La visita di Borrell, comunque, è stata giudicata unanimemente disastrosa.

I due eventi – da una parte la ricerca di dialogo, dall’altra un atto ostile come l’imposizione di sanzioni – hanno provocato qualche perplessità. L’Unione Europea è stata accusata di non avere una politica estera coerente nei confronti della Russia, critica non certo nuova e già avanzata in diverse occasioni negli ultimi anni.

I critici sostengono che in particolare in questo momento storico l’Unione dovrebbe essere più unita, e decisa.

La Russia è storicamente contraria al progetto di integrazione europea: lo vede come potenzialmente pericoloso per la sua influenza nell’Europa orientale, e cerca sistematicamente di indebolire l’unità dei paesi europei in modo da poter trattare singolarmente con ciascuno di loro da una posizione di forza. Negli ultimi mesi è riuscita nel suo intento, grazie a vecchi e nuovi strumenti di politica estera, come il vaccino per il coronavirus Sputnik V e la sua enorme disponibilità di gas naturale.

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Di fronte a tutto questo, l’Unione Europea non è riuscita ad agire come un vero blocco: non che negli ultimi anni non ci abbia provato.

Da quando i rapporti tra le due parti si sono deteriorati, a partire dal 2014 con l’invasione russa in Crimea e l’ingerenza degli hacker statali nelle elezioni americane ed europee, ci sono stati vari tentativi di «resettare» la politica europea nei confronti della Russia: per esempio una strategia in cinque punti approvata nel 2016 dalla Commissione Europea e dai governi nazionali e un nuovo tentativo di dialogo avviato nel 2019 dal presidente francese Emmanuel Macron. Nessuno dei tentativi è andato a buon fine.

Vladimir Putin ed Emmanuel Macron a una conferenza di pace sulla Libia nel gennaio del 2020 (Sean Gallup-Pool/Getty Images)

L’approccio europeo con l’Unione Sovietica prima e la Russia poi ha sempre oscillato fra due scuole di pensiero: concentrarsi su pochi punti condivisi per sviluppare un dialogo, in modo da mantenere un qualche tipo di legame ed evitare pericolose escalation di tensione, oppure sanzionare sistematicamente un paese dove il potere è concentrato nelle mani di un presidente autoritario e del suo circolo ristretto, che reprimono dissidenti e media indipendenti e portano avanti azioni ostili nei confronti dei paesi occidentali.

Negli ultimi anni si è spesso preferito il secondo approccio, a cui anche Borrell ha accennato nel resoconto della sua recente visita, spiegando che «la Russia non ha voluto cogliere l’opportunità di avere un dialogo più costruttivo con l’Unione Europea». L’idea più condivisa è che la Russia non sia interessata a stringere legami, fare compromessi o anche solo rispettare l’attuale status quo, e che quindi sia necessario un approccio più severo da parte dei paesi europei.

«L’opinione dei russi è che Mosca abbia fatto troppe concessioni strategiche unilaterali fra gli anni Novanta e i primi anni Duemila», ha scritto di recente Nicu Popescu, che si occupa di Russia per il think tank European Council on Foreign Relations, citando il ridimensionamento della politica estera russa dopo la fine dell’Unione Sovietica: «ora quindi tocca all’Occidente fare altrettanto. In altre parole Mosca non è interessata a mantenere lo status quo, soprattutto vicino ai suoi confini. Piuttosto intende ottenere influenza nei territori limitrofi che condivide con l’UE, e non semplicemente mantenerla. Se proprio l’Occidente vuole un ripristino delle relazioni, pensano i russi, spetta a loro fare qualche concessione».

Mentre l’Unione Europea decide cosa fare, la Russia sta proseguendo nella sua campagna usando soprattutto due strumenti di influenza, uno vecchio e uno nuovo.

Lo strumento più recente è il vaccino statale Sputnik V contro il coronavirus, che nelle fasi sperimentali ha dato ottimi risultati. La Russia ne ha già fornito 24 milioni di dosi al Messico, è in trattative per altri dieci milioni al Brasile ma soprattutto lo ha proposto a diversi paesi dell’Europa orientale dentro e fuori dall’Unione Europea.

La Serbia, uno dei paesi balcanici tradizionalmente più vicini alla Russia, e che l’Unione Europea cerca da anni di avvicinare a sé, è uno degli stati più avanti al mondo nella campagna vaccinale e ha già somministrato decine di migliaia di dosi di Sputnik V. Più di recente ha stretto un accordo per iniziare a produrlo sul proprio territorio entro la fine dell’anno.

Anche Montenegro, Kosovo e Bosnia ed Erzegovina hanno iniziato a prendere accordi con la Russia, mentre all’interno dell’Unione Europea l’unico paese che ha chiesto un’autorizzazione speciale per comprare e utilizzare lo Sputnik V – che per essere somministrato nell’Unione Europea ha bisogno di una complessa autorizzazione dell’Agenzia europea del farmaco – è l’Ungheria, a guida semi-autoritaria che da tempo sta costruendo legami col governo russo. Anche San Marino, che invece non fa parte dell’UE, ha acquistato un lotto di vaccini Sputnik V e ha già iniziato a somministrarlo.

Una confezione di Sputnik V aperta in un ospedale di Caracas, Venezuela (Leonardo Fernandez Viloria/Getty Images)

Per diversi esperti europei, la Russia sta cinicamente dando la precedenza al tentativo di estendere la propria influenza in giro per il mondo e nell’Europa orientale rispetto alla campagna vaccinale vera e propria. Secondo dati raccolti da Associated Press la somministrazione di massa dello Sputnik V sta andando a rilento e la scorsa settimana avevano ricevuto la prima dose appena 3,2 milioni di russi, appena il 2,2 per cento della popolazione totale (in Italia hanno ricevuto la prima dose 2,7 milioni di persone, a fronte di una popolazione che è meno della metà di quella russa).

Oltre ai contratti per forniture stabili dello Sputnik V, la Russia sta anche donando quantità simboliche di vaccino a paesi e posti particolarmente instabili come Ucraina e Striscia di Gaza, nella speranza di ottenere un immediato ritorno di immagine, e sta conducendo un po’ in tutto il mondo una campagna di disinformazione sull’efficacia dei vaccini prodotti dalle aziende occidentali.

Per riuscire a bilanciare gli sforzi della Russia, l’Unione Europea dovrebbe quantomeno muoversi in blocco sull’adottare o meno lo Sputnik e fare pressione per accelerare su COVAX, un meccanismo che coinvolge l’Organizzazione mondiale della sanità e diverse associazioni e fondazioni studiato per facilitare una distribuzione equa dei vaccini anche ai paesi più poveri, fra cui quelli dei Balcani. Proprio nei giorni scorsi la Commissione Europea ha annunciato che raddoppierà il proprio finanziamento al meccanismo COVAX passando da 500 milioni di euro a un miliardo.

La diffusione dello Sputnik V in Europa occidentale sarà forse frenata dal fatto che nei dati diffusi dai ricercatori russi gli esperti europei stanno trovando alcune anomalie: ma i paesi che hanno più bisogno del vaccino difficilmente faranno a meno dello Sputnik V, e nel corso dei prossimi mesi l’Unione Europea dovrà darsi da fare per riabilitare la propria immagine.

L’Unione Europea deve anche fare i conti con uno strumento che la Russia usa già da molti anni per fare pressione sui paesi limitrofi: la sua immensa disponibilità di gas naturale.

– Leggi anche: Cos’è il Nord Stream 2, spiegato

Russia e Germania hanno concordato la costruzione di un secondo gasdotto sottomarino, il Nord Stream 2, che collegherà direttamente il territorio russo e quello tedesco bypassando gli stati dell’Europa orientale. I sostenitori del progetto, che si trovano soprattutto nella classe dirigente tedesca, dicono che sarà un modo per creare un legame con la Russia e allontanare un ulteriore deterioramento dei rapporti. Tutti gli altri ritengono invece che la Russia acquisirà un enorme strumento di pressione nei confronti della Germania, il paese europeo più ricco e influente dell’Unione Europea.

La costruzione del Nord Stream 2 è arrivata a circa il 90 per cento e sarà completata entro l’estate, a meno di interruzioni che nelle ultime settimane sono state chieste da diversi alleati della Germania, fra cui i governi di Ucraina e Polonia. Difficilmente la Germania mollerà il colpo: da diversi anni è il principale importatore europeo di gas naturale dalla Russia, e la decisione di Angela Merkel di chiudere le centrali a carbone entro il 2030 ha convinto industriali e politici tedeschi della necessità di raddoppiare il Nord Stream.

Il percorso del gasdotto Nord Stream 2. (PJSC Gazprom)

Probabilmente è troppo tardi per prendere una decisione sul gas naturale russo in sede europea. «Mentre la situazione geopolitica con la Russia andava aggravandosi dalla crisi in Crimea a quella in Ucraina, l’UE si è bloccata in una paralisi senza trovare un punto di convergenza tra gli interessi economici ed energetici dei suoi stati membri», ha spiegato al Foglio Alberto Clò, ex ministro dell’Industria italiano.

Il progetto potrebbe essere interrotto, ipotizzano alcuni, se il nuovo presidente statunitense Joe Biden facesse pressione per fermarlo: ma finora non ha fatto passi in quella direzione, tanto che alcune fonti ucraine si sono lamentate con Axios che alla recente Conferenza di Monaco sulla sicurezza Biden non abbia preso alcun impegno concreto sul Nord Stream 2.

In tutto questo c’è un altro tema su cui l’Unione Europea dovrebbe trovare una posizione unitaria: le proteste in favore della democrazia e a sostegno di Alexei Navalny, il principale oppositore di Putin appena condannato a tre anni e mezzo per corruzione in un processo considerato una farsa dagli osservatori internazionali, e quasi ucciso in estate da un tentativo di avvelenamento compiuto dall’intelligence russa.

L’Unione Europea va molto fiera del suo ruolo nella promozione dei valori democratici in giro per il mondo e nelle scorse settimane ha espresso unanimemente solidarietà a Navalny chiedendo a più riprese la sua scarcerazione. Nei prossimi giorni approverà nuove sanzioni in base alla nuova legge europea che permette di applicarle nei confronti di paesi o persone che compiono violazioni dei diritti umani: ma a meno di sorprese, le sanzioni saranno piuttosto contenute e riguarderanno quattro o sei funzionari russi, nessuno dei quali particolarmente vicino a Putin. Insomma, sarà un’altra misura a metà strada.

La tesi che si sta facendo strada fra gli esperti di politica europea è che Putin e la Russia capiscano solo le maniere forti, come testimonia il fatto che le misure di cui negli anni si sono lamentati di più sono le sanzioni approvate nel 2014 dall’Unione Europea per l’invasione della Crimea e da allora sempre rinnovate.

«Se l’Unione Europea rispondesse in maniera ferma e senza far trapelare emozioni alle aggressioni di Putin, dovrebbe essere in grado di contenere la sua maligna influenza», sostiene Mark Leonard, direttore dello European Council on Foreign Relations: «Paradossalmente, il modo migliore per i leader europei di attirare l’interesse del Cremlino per un dialogo costruttivo è quello di sembrare meno disponibili a volerlo. Lasciate che sia Putin a venire da voi».