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  • Domenica 3 gennaio 2021

Un Regno sempre meno Unito

Il completamento di Brexit lascia moltissimi dubbi sul futuro istituzionale di una delle due parti in causa: e non è l'Unione Europea

(Jeff J Mitchell/Getty Images)
(Jeff J Mitchell/Getty Images)

L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, che si è completata l’1 gennaio 2021 dopo che le due parti avevano trovato un compromesso sul futuro accordo commerciale, lascerà moltissimi strascichi: dai disagi e dalle lentezze burocratiche dei primi mesi fino a un ripensamento del ruolo del Regno Unito nel mondo. Nel medio e nel lungo termine potrebbe inoltre minacciare una delle due componenti fondamentali dello stato, richiamate anche nel nome: non la monarchia, il cui consenso rimane altissimo, ma l’unità dei paesi che lo compongono.

In Scozia, infatti, si sta parlando con maggiore insistenza di tenere un nuovo referendum sull’indipendenza, mentre l’Irlanda del Nord sarà di fatto spinta dal compromesso trovato con l’Unione Europea a intrattenere sempre più rapporti con l’Irlanda, da cui si era separata nel 1921. Entrambi i paesi, peraltro, avevano votato a larga maggioranza per rimanere nell’Unione Europea al referendum del 2016 su Brexit.

A minacciare l’integrità del Regno Unito non c’è solo Brexit. «L’effetto combinato del governo di Boris Johnson, della pandemia da coronavirus e di Brexit sta creando una crisi istituzionale che potrebbe verificarsi nel 2021», ha scritto il Guardian in un editoriale non firmato pubblicato a fine dicembre.

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Cosa succede in Scozia
Subito dopo l’annuncio che Regno Unito e Unione Europea avevano trovato un compromesso sul futuro accordo commerciale, la prima ministra scozzese Nicola Sturgeon ha precisato che Brexit avverrà «contro la volontà della Scozia», e che nel suo futuro vede uno stato «indipendente ed europeo». Insomma, in Scozia moltissimi da anni vorrebbero stare dentro l’Unione Europea e fuori dal Regno Unito: ora si trovano fuori dall’Unione Europea e dentro il Regno Unito.

È da molti anni che gli scozzesi hanno un’opinione dell’Unione Europea più positiva rispetto per esempio agli inglesi, che nel 2016 peraltro votarono con una maggioranza molto netta a favore di Brexit. C’entrano soprattutto ragioni storiche – in Scozia sono abituati ad avere più di una identità, e quella europea non toglierebbe nulla a quella scozzese – ma anche economiche: l’Unione Europea è assai munifica con le regioni più povere e periferiche, e nell’ultimo bilancio pluriennale 2014-2020 aveva riservato alla Scozia circa un miliardo di euro. Qualcuno ha calcolato, per esempio, che se il Regno Unito facesse ancora parte dell’Unione Europea alla Scozia sarebbero toccati più di sei miliardi di euro provenienti dal Recovery Fund, il principale strumento comunitario per bilanciare gli effetti della crisi economica innescata dalla pandemia da coronavirus.

Ai tempi del referendum sull’indipendenza, tenuto nel 2014, molti scozzesi votarono per rimanere nel Regno Unito proprio perché temevano che una volta diventato indipendente il loro paese non sarebbe più potuto rientrare nell’Unione (ogni potenziale nuovo membro deve ricevere l’approvazione di tutti i membri, e il Regno Unito avrebbe potuto facilmente bloccare l’ingresso della Scozia indipendente). Oggi invece le due spinte principali della politica scozzese, indipendentismo ed europeismo – rappresentate entrambe dal Partito Nazionalista Scozzese, che domina la politica locale dal 2007 – sembrano essersi saldate.

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Dal 2016 i consensi a favore dell’indipendenza continuano ad aumentare, tanto che nelle ultime settimane hanno raggiunto il 58 per cento degli elettori scozzesi, uno dei dati più alti di sempre. «La ragione principale è che gli europeisti che si opponevano all’indipendenza oggi la sostengono», ha spiegato a Euronews il direttore del think tank scozzese European Merchants, Anthony Salamone.

Ci sono altre ragioni, più recenti, che hanno contribuito ad aumentare la distanza fra il governo scozzese e quello centrale. Per prima cosa, la Scozia ritiene che i suoi interessi non siano stati protetti a sufficienza durante il negoziato per l’accordo commerciale: negli ultimi giorni si è parlato molto del fatto che il compromesso trovato vieti alla Scozia di esportare nell’Unione Europea le patate da seme, cioè quelle che servono per ottenere più patate dallo stesso tubero, uno dei principali prodotti agricoli scozzesi destinati all’esportazione. Finora nei paesi europei finivano circa un quinto delle patate da seme esportate ogni anno dalla Scozia.

Il governo scozzese ritiene inoltre che le nuove regole per l’accesso dei pescatori europei alle acque britanniche – fino all’ultimo uno dei punti più delicati della trattativa – siano paradossalmente più restrittive per i pescatori scozzesi rispetto a quelle attuali, di cui i Conservatori britannici (perlopiù inglesi) si sono lamentati per anni.

Anche nella gestione della pandemia il governo scozzese ha preso scelte molto diverse da quello centrale (la gestione della sanità nel Regno Unito è centralizzata solo in parte). Fin dall’inizio dell’emergenza le scelte del governo scozzese sono state generalmente più prudenti rispetto a quelle del governo centrale – in questo momento l’intera Scozia continentale è in lockdown, mentre in Inghilterra sono in vigore regimi diversi da regione a regione – e gli elettori scozzesi sembrano averle apprezzate: secondo un sondaggio realizzato dall’istituto Ipsos Mori a metà novembre il 74 per cento degli scozzesi ritiene che la prima ministra Sturgeon stia gestendo bene la pandemia, mentre solo il 19 per cento pensa la stessa cosa riguardo al primo ministro britannico Boris Johnson.

Non è ancora chiaro, comunque, se tutti questi movimenti avranno delle conseguenze concrete. I Conservatori sono molto contrari a concedere alla Scozia un nuovo referendum sull’indipendenza – che deve essere approvato dal governo centrale – e per il momento lo sono anche i Laburisti, anche se una forte pressione politica potrebbe cambiare le cose: soprattutto dopo le elezioni per rinnovare il parlamento locale scozzese, previste per maggio.

Nel frattempo, in Irlanda del Nord
«Da cinque lunghi anni l’Irlanda del Nord è stata nell’occhio del ciclone di Brexit: e ci rimarrà per molti anni ancora», ha scritto di recente sull’Irish Times Jane Morrice, ex giornalista di BBC e successivamente a lungo impegnata in politica.

Gli accordi di Brexit, in effetti, hanno lasciato l’Irlanda del Nord in una condizione ibrida che rischia di allontanarla sempre di più dal Regno Unito. Per evitare la costruzione di una barriera fisica al confine con l’Irlanda, che avrebbe provocato quasi sicuramente un aumento delle tensioni, il governo britannico ha accettato di lasciare l’Irlanda del Nord dentro all’unione doganale e al mercato unico europeo. In sostanza, significa che tutti i beni che arriveranno in Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna – nel 2018 sono stati il 60 per cento delle importazioni nordirlandesi – dovranno subire controlli e rallentamenti, col risultato che commerciare con le aziende britanniche sarà sempre più complesso.

Per tutte queste ragioni diverse aziende nordirlandesi hanno iniziato a stringere maggiori legami commerciali con quelle irlandesi. Reuters racconta che tutte le principali catene di fast food, i caffè e i pub hanno riprogrammato i loro acquisti in modo che provengano dall’Irlanda invece che dalla Gran Bretagna, per evitare lungaggini e ostacoli burocratici.

«Stiamo lavorando soprattutto ad aprire rotte commerciali con Dublino e a procurarci più prodotti dall’Unione Europea e dall’Irlanda», ha spiegato a Reuters Andrew Lynas, capo di una grossa azienda nordirlandese di grossisti. «Credo che a prescindere da quello che succederà, continueremo a vedere cose del genere», ha aggiunto.

Alcuni osservatori ritengono che un riavvicinamento commerciale fra Irlanda e Irlanda del Nord possa attivare dei circoli virtuosi e alimentare il dibattito su una eventuale riunificazione. Per alcuni il tema si trova già su un piano inclinato: le nuove generazioni hanno un ricordo sempre più distante dei conflitti del passato, e hanno posizioni meno intransigenti nei confronti di chi vive dall’altra parte del confine.

Un sondaggio realizzato alla fine di ottobre mostra per esempio che i nordirlandesi che hanno meno di 45 anni preferiscono l’unificazione con l’Irlanda alla situazione attuale, e con margini anche piuttosto netti: ma nei sondaggi che comprendono tutta la popolazione l’unificazione è sostenuta soltanto da una minoranza dei nordirlandesi, stimata intorno al 30 per cento.

Oltre ai disagi previsti a causa di Brexit, ad alimentare un nuovo dibattito sulla possibile riunificazione potrebbe contribuire il nuovo censimento, previsto per il 2021. Diversi osservatori ritengono che per la prima volta nella storia la componente cattolica della popolazione nordirlandese – tradizionalmente favorevole alla riunificazione – potrebbe superare quella protestante, che invece preferisce in larga maggioranza appartenere al Regno Unito. Nel censimento del 2011 la componente protestante contava 864mila persone contro le 810mila di quella cattolica: ma a meno di sorprese la proporzione dovrebbe invertirsi, cosa che rafforzerebbe le istanze della parte cattolica.