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  • Sabato 1 febbraio 2020

Brexit era inevitabile

Lo sostiene l'Atlantic, con buoni argomenti e alcune tesi che non siamo abituati a leggere

(Jeff J Mitchell/Getty Images)
(Jeff J Mitchell/Getty Images)

Alla mezzanotte del primo febbraio, il Regno Unito ha avviato il suo processo di uscita dall’Unione Europea. Da oggi non sarà più considerato un membro dell’Unione Europea, e se tutto filerà liscio il 31 dicembre 2020 ne uscirà a tutti gli effetti. Nelle ultime settimane, proprio a causa della scadenza ravvicinata, si sono moltiplicate le analisi e i tentativi di spiegare cosa sia andato storto nel rapporto fra Regno Unito e Unione Europea. Una delle più interessanti l’ha scritta il giornalista Tom McTague dell’Atlantic, secondo cui Brexit è stata la conseguenza inevitabile di una serie di cose successe negli ultimi decenni.

McTague sostiene che il Regno Unito abbia una storia così particolare – un territorio isolato dal resto del Continente che per secoli ha mantenuto un impero poi smantellato, la cui eredità pesa ancora sulle istituzioni, la società e il dibattito pubblico – che l’ha costretto ad avere un rapporto essenzialmente ambiguo con la sempre maggiore integrazione europea avviata fra i paesi del continente dal Secondo dopoguerra in poi.

Inizialmente il Regno Unito non si unì alle prime forme di integrazione europea, gestite da altre due potenze come Francia e Germania. Non partecipò alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nata nel 1951 e considerata il primo antenato dell’Unione Europea, e si tenne fuori sia dalla Comunità europea dell’energia atomica sia soprattutto dalla Comunità economica europea (CEE), avviata dai Trattati di Roma del 1957. Entrò nella CEE soltanto nel 1973, e dopo solo due anni la sua permanenza fu sottoposta a un referendum (vinto piuttosto nettamente da chi voleva restarci).

Anche in quegli anni il dibattito britannico era impegnato in un complesso calcolo sui costi e i benefici di appartenere a una comunità europea. All’inizio degli anni Sessanta l’ex primo ministro laburista Clement Attlee si disse apertamente contrario a entrare nella CEE. Atlee sosteneva che entrando in una comunità europea, il Regno Unito avrebbe ceduto parte del controllo che aveva sugli affari nazionali per ottenere una influenza di natura regionale: «Saremo ristretti nella nostra disponibilità di gestire i nostri affari», disse nel 1962 in un discorso al Parlamento: «Potrebbe essere la cosa giusta, potrebbe essere la cosa sbagliata, ma non fatevi illusioni: sarà totalmente diverso da tutto quello che abbiamo avuto finora».

Secondo McTague, il discorso di Atlee ha anticipato un dibattito che il Regno Unito ha continuato ad avere nei decenni successivi, peraltro in modo politicamente trasversale: la scelta di dare priorità al controllo dei propri affari – evocato fra l’altro anche dagli slogan dell’ultima campagna elettorale per le elezioni politiche – oppure all’influenza che avrebbe potuto avere fra i paesi europei, in quanto di gran lunga (allora) il più ricco e potente. Su quest’ultimo aspetto insistette molto, durante il suo mandato da prima ministra fra gli anni Settanta e Ottanta, la conservatrice Margaret Thatcher, convinta che il futuro del Regno Unito fosse «legato a doppio filo con quello dell’Europa». In un’altra occasione Thatcher fu ancora più esplicita, e spiegò che se il Regno Unito avesse abbandonato la CEE avrebbe ottenuto «l’illusione» di una maggiore autonomia, quando in realtà «le nostre vite sarebbero sempre più influenzate dalla CEE».

Secondo McTague, il dibattito fra queste due visioni opposte non si è mai risolto e alla lunga ha prodotto la situazione in cui si è trovata più di recente: soprattutto dopo il Trattato di Maastricht del 1992, con cui fu creata l’Unione Europea e a partire dal quale gli altri paesi europei si impegnarono in una integrazione che appariva irreversibile:

[Dopo Maastricht], la situazione ha presentato diversi problemi. Il Regno Unito non era più un partner paritario, perché non condivideva le stesse sfide e gli stessi interessi che derivano dalla condivisione di confini e una moneta comune. Le istituzioni europee più giovani, come la Banca Centrale Europea, non riguardavano da vicino il Regno Unito come invece facevano con Francia e Germania.  […] Il Regno Unito si era unito a questo club per influenzare le sue decisioni perché gli conveniva da un punto di vista economico – eppure, aveva ceduto parte di quella influenza scivolando in uno status un po’ dentro e un po’ fuori. Così facendo aveva ottenuto il miglior risultato possibile, oppure il peggiore?

McTague sostiene che questi nodi siano emersi con forza negli ultimi anni, in cui il Regno Unito ha visto diminuire con forza l’influenza dentro all’Unione Europea, cioè fondamentalmente l’unica ragione per cui era entrata ormai diversi anni prima. Si è visto molto bene nel famoso Consiglio Europeo del 9 dicembre del 2011, nel periodo appena successivo alla crisi economica che stava minacciando i debiti di molti paesi europei come Grecia, Italia e Spagna.

In quell’occasione i leader europei decisero di rafforzare la cooperazione fra i paesi dell’Unione riguardo alla politica economica e monetaria, facendo seguito peraltro alla decisione di istituire il noto Meccanismo europeo di stabilità (MES) presa qualche mese prima. L’allora primo ministro britannico David Cameron minacciò di mettere il veto alla proposta, ma gli altri capi di stato e di governo aggirarono la posizione britannica e decisero lo stesso di assegnare ulteriori poteri in materia economica alle istituzioni europee. «L’incubo di Londra si era realizzato: nel momento della verità, si era scoperto che al Regno Unito non era rimasta alcuna reale influenza […] ». Alla fine, nella sua storia europea, «il Regno Unito ha avuto un po’ di controllo e un po’ di influenza», sostiene McTague: «ma nessuna delle due cose abbastanza da sentirsi soddisfatto».

La crisi dell’eurozona «ha condotto direttamente a Brexit», sostiene McTague: l’ambiguità di fondo della presenza britannica nell’Unione Europea è rimasta talmente incompiuta che i politici euroscettici hanno avuto gioco facile nel fare campagna per uscire dall’Unione Europea. «Lo slogan del comitato elettorale che appoggiava l’uscita dall’Unione Europea – “riprendiamo il controllo” – era che il Regno Unito aveva ceduto il controllo delle sue sorti senza ottenere una reale influenza».

Secondo McTague, lo slogan – utilizzato di nuovo dal comitato elettorale di Boris Johnson alle ultime elezioni politiche – ha fatto presa perché sembrava suffragato da eventi reali come la crisi dell’eurozona e il successivo flusso di migranti dal Medio Oriente. Oggi, conclude McTague, «il Regno Unito potrebbe non essere più in grado di influenzare la direzione che prenderà l’Unione Europea, una realtà che potrebbe preoccupare quelli che stanno ai piani alti di Londra, ma le prospettive del paese saranno ampiamente sotto il suo controllo, proprio come un tempo».