Come è andata a finire la promessa di Trump sul carbone?

Non bene: c’entrano l’aumento della produzione di energia rinnovabile, il calo del prezzo del gas e l’epidemia da coronavirus

di Maddalena Binda

Maidsville, West Virginia (Spencer Platt/Getty Images).
Maidsville, West Virginia (Spencer Platt/Getty Images).

Durante la campagna elettorale del 2016, Donald Trump promise di rivitalizzare l’industria del carbone e di aumentare i posti di lavoro del settore: una cosa abbastanza peculiare, dato che storicamente i minatori non avevano mai votato per il Partito Repubblicano. Grazie a quelle promesse, molti operai e lavoratori dell’industria del carbone votarono per Trump alle elezioni di quell’anno, in particolare negli stati di West Virginia, Kentucky, Pennsylvania e Wyoming.

Al termine del suo mandato da presidente, si può dire che Trump non sia riuscito a mantenere le promesse, per lo più a causa dell’aumento della produzione di energia da fonti rinnovabili, sempre più competitive, del calo del prezzo del gas e in parte anche della pandemia da coronavirus. Secondo Peter Shulman, storico alla Case Western Reserve University e autore del libro Coal and Empire, in realtà Trump non aveva mai avuto in mente misure precise per rivitalizzare l’industria: si era limitato a scegliere il settore del carbone come simbolo politico della propria campagna.

In quattro anni di presidenza Trump, la produzione di carbone ha subìto la maggior diminuzione registrata dal 1932: è scesa del 34%. Sono state chiuse 65 centrali elettriche a carbone e altre 75 saranno chiuse a breve. Si stima che nel 2020 solamente il 20% di energia elettrica prodotta negli Stati Uniti deriverà dal carbone: nel 2017 la percentuale era il 31%, nel 2010 il 45%.

Nei primi anni della presidenza Trump, dal 2016 al 2018, i posti di lavoro nell’industria del carbone erano leggermente aumentati, sebbene non avessero raggiunto i livelli del 2010-2012. Nel 2019 l’occupazione era tornata a calare e si erano registrati 779 posti di lavoro in meno. Il calo è stato poi aggravato dalla pandemia.

Per provare a rivitalizzare il settore del carbone, Trump aveva modificato le leggi sulla tutela ambientale introdotte dal suo predecessore, Barack Obama – leggi che secondo Trump erano state una delle cause del declino del settore. Nel 2017, inoltre, a capo dell’Agenzia per la Protezione Ambientale (EPA) era stato nominato Andrew Wheeler, un lobbista che si era battuto a lungo contro le misure per uno sviluppo sostenibile approvate da Obama.

Subito dopo la nomina di Wheeler, l’EPA aveva emanato l’Affordable Clean Energy Rule, legge che allentava i limiti per le emissioni di CO2 e mercurio da parte delle centrali di carbone: quei limiti erano stati fissati dall’amministrazione Obama. L’Affordable Clean Energy Rule affidava inoltre ai singoli stati il compito di fissare i propri limiti di emissioni. Nessuna di queste misure, però, era riuscita a rivitalizzare il settore.

L’insuccesso delle politiche di Trump si spiega soprattutto per tre ragioni: il calo del prezzo del gas, la maggior competitività delle fonti rinnovabili e il calo della domanda di energia causato dalla pandemia.

Negli ultimi anni, negli Stati Uniti il gas naturale ha superato il carbone come fonte principale di energia elettrica, grazie anche allo sfruttamento di giacimenti che lo hanno reso sempre più economico. Più in generale, una maggior attenzione ambientale sta facendo aumentare la domanda di energia pulita. Nel 2019, negli Stati Uniti le rinnovabili avevano sorpassato il carbone come fonti di energia elettrica per la prima volta in 130 anni. A questi fattori si aggiunge il calo dei consumi di energia dovuto alla pandemia: secondo l’EIA (US Energy Information Administration), il consumo di energia elettrica calerà di circa il 3,6% nel 2020. Ad aprile 2020 il calo registrato è stato il maggiore negli ultimi 30 anni: il consumo è diminuito del 14% rispetto ad aprile 2019.

Il carbone è il combustibile fossile più economico, ma anche più inquinante, e molti esperti sottolineano come sia necessario diminuirne drasticamente il consumo per poter contrastare i cambiamenti climatici. Eppure alcuni degli stati più popolosi al mondo faticano a privarsene. Nel 2018 la combustione di carbone ha prodotto 14 miliardi di tonnellate di CO2, metà delle quali prodotte in Cina. Dietro la Cina, ci sono India, Stati Uniti e Unione Europea. A questi quattro mercati sono da attribuire i tre quarti del carbone consumato in tutto il mondo.

La Cina ha annunciato di voler portare avanti un processo di decarbonizzazione del paese, e nel 2019 anche la Germania, dove un terzo dell’elettricità è prodotta a partire dal carbone, ha annunciato che chiuderà tutte le sue centrali elettriche a carbone entro il 2038.

Con la vittoria di Joe Biden, le politiche ambientali acquisiranno ancora maggior importanza negli Stati Uniti. Biden ha già annunciato che gli Stati Uniti rientreranno nell’Accordo di Parigi nel 2021, trattato da cui erano ufficialmente usciti qualche mese fa, e che punteranno ad azzerare le emissioni nette entro il 2050. È probabile, inoltre, che Biden cancellerà le misure introdotte da Trump per favorire il settore del carbone, accelerando in maniera probabilmente definitiva il suo declino.

Questo e gli altri articoli della sezione L’America che ha lasciato Trump sono un progetto del corso di giornalismo 2020 del Post alla scuola Belleville, pensato e completato dagli studenti del corso.