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  • Martedì 22 dicembre 2020

Cosa dice la nuova perizia sul crollo del ponte Morandi

Parla di errori di progettazione e costruzione, ma anche di carenza di controlli e di mancati interventi di manutenzione

(Stefania M. D'Alessandro/Getty Images)
(Stefania M. D'Alessandro/Getty Images)

Quattro periti incaricati dalla procura di Genova di stabilire le cause del crollo del ponte Morandi, avvenuto il 14 agosto 2018, hanno presentato la loro attesa relazione. Il documento è lungo 476 pagine, divise in 14 capitoli, e risponde a 40 quesiti. Lo hanno scritto i periti Gianpaolo Rosati, Stefano Tubaro, Massimo Losa, Renzo Valentini (tutti e quattro ingegneri e docenti universitari, due a Milano e due a Pisa) ed è stato presentato al giudice per le indagini preliminari Angela Nutini.

Come ha scritto Repubblica, la perizia è «il documento più importante prodotto dal momento del disastro a oggi». Nel suo tentativo di determinare quanto successo al ponte prima del 14 agosto 2018 e nei momenti del crollo, la relazione – della quale sui giornali ci sono diversi estratti – parla infatti di un processo di corrosione che era in corso da anni e che secondo loro si sarebbe dovuto e potuto individuare e che così non è stato a causa di una scarsa manutenzione e attenzione ai segnali in merito.

La perizia
Secondo i periti, «la causa scatenante il crollo è la corrosione della parte sommitale del tirante della pila 9», che «ha mostrato un’evidente e gravissima forma di corrosione nella zona di attacco con l’antenna», una corrosione che «ha avuto luogo in zone di cavità e mancata iniezione formatesi nella costruzione del ponte». I periti hanno scritto che il processo di corrosione «è cominciato sin dai primi anni di vita del ponte ed è progredito senza arrestarsi fino al momento del crollo determinando una inaccettabile riduzione dell’area della sezione resistente dei trefoli che costituivano l’anima dei tiranti, elementi essenziali per la stabilità dell’opera».

Il documento dice anche che dal 1993, quando fu fatto l’ultimo concreto intervento di manutenzione del ponte, «non sono stati eseguiti interventi che potessero arrestare il processo di degrado in atto e/o di riparazione dei difetti presenti nelle estremità dei tiranti che, sulla sommità del tirante Sud-lato Genova della pila 9 erano particolarmente gravi». E secondo i periti, se controlli e manutenzioni fossero stati fatti nel modo corretto, «con elevata probabilità avrebbero impedito il verificarsi dell’evento». Hanno poi aggiunto:

«La mancanza e/o l’inadeguatezza dei controlli e delle conseguenti azioni correttive costituiscono gli anelli deboli del sistema; se essi, laddove mancanti, fossero stati eseguiti e, laddove eseguiti, lo fossero stati correttamente, avrebbero interrotto la catena causale e l’evento non si sarebbe verificato».

Sul Corriere della Sera, Andrea Pasqualetto ha sintetizzato così la “catena di cause” del crollo: «collasso per la rottura del tirante, rottura per l’alta corrosione, corrosione per la scarsa manutenzione e scarsa manutenzione per gli inadeguati controlli e ispezioni».

All’origine di tutto, però, i periti hanno scritto di aver individuato anche carenze progettuali, di costruzione e di collaudo. Secondo i periti, infatti, «le cause profonde» del crollo «possono individuarsi in: carenze progettuali, che non avevano tenuto conto in modo adeguato dei particolari costruttivi, con riferimento alla difficoltà di eseguire i getti in presenza di interferri molto ridotti; mancanza di specifiche tecniche adeguate sulle guaine dei cavi e sulle modalità di iniezione; difetti costruttivi in fase di realizzazione […]; carenze dei controlli in fase di costruzione da parte della direzione dei lavori e della commissione di collaudo in corso d’opera; mancata esecuzione di indagini specifiche (demolizioni localizzate in corrispondenza delle estremità dei tiranti) necessarie per verificare lo stato dei trefoli dei gruppi primari, così come era stato raccomandato sin dal 1985; assenza di interventi di restauro o di riparazione, che avrebbero dovuto essere eseguiti nel tempo per riparare il tirante difettoso».

Il documento presentato al gip di Genova spiega poi che «sono state trascurate negli anni le indicazioni dello stesso ingegner Morandi con particolare riferimento al degrado degli acciai» che Morandi (il progettista da cui il ponte aveva preso il nome) «aveva posto attenzione al rischio di corrosione dei cavi» e che non molto dopo l’inaugurazione del ponte, avvenuta nel 1967, sia tecnici del gestore sia lo stesso Morandi avevano «evidenziato un già diffuso stato di ammaloramento e proposto modifiche di intervento».

– Leggi anche: Storia e problemi del ponte Morandi

«Se gli interventi manutentivi fossero stati eseguiti correttamente» hanno scritto i periti «con elevata probabilità avrebbero impedito il verificarsi dell’evento». E, sempre secondo i periti, chi doveva occuparsi della manutenzione del ponte «avrebbe dovuto avere una conoscenza adeguata di come l’opera era stata costruita, valutando la rispondenza con i documenti progettuali, cosa che avrebbe permesso di individuare il grave difetto costruttivo nell’ultimo tratto del tirante, in corrispondenza della sommità dell’antenna, consentendo di prevedere e tenere sotto controllo il processo di degrado».

E ora?
La perizia presentata al gip – che fa seguito a una dell’agosto 2019, che già aveva evidenziato difetti strutturali e assenza di manutenzione – fa parte del secondo incidente probatorio delle indagini. La perizia, in altre parole, è una prova a tutti gli effetti, anche se il processo vero e proprio non è ancora iniziato e si è solo alla fase delle indagini preliminari. Come ha spiegato Repubblica, ora tutte le parti coinvolte «avranno oltre un mese per studiarsi a fondo ogni singola parola del documento» dato che «l’inizio della discussione in aula è fissato per il primo febbraio 2021».