I migliori dischi del 2020, a leggere in giro

Cosa c'è nelle liste della stampa specializzata alla fine di un anno senza musica dal vivo, ma in cui quella in studio è andata avanti

Forse ci ricorderemo del 2020 soprattutto per la musica che non c’è stata: quella dei concerti, annullati praticamente ovunque per la pandemia da coronavirus, delle feste, delle discoteche, e di tutti gli altri posti in cui normalmente la ascoltiamo con altre persone. È stato invece un anno di ascolti solitari, o perlomeno ristretti. L’industria discografica arrivava già da anni di crisi, e con l’ascesa dello streaming non aveva ancora capito quale sia, e se ci sia, un modello di business sostenibile per il futuro. Per gran parte degli artisti, dalle band emergenti alle star mondiali, una parte importante o anche la maggior parte dei guadagni negli ultimi anni era arrivata dai concerti e dagli eventi pubblici. C’è chi ha potuto permettersi un anno e più senza, c’è chi ha fatto molta fatica, e c’è chi ha dovuto rivedere i propri progetti. E c’è tutto quello che sta intorno a quei concerti e quegli eventi, dai musicisti ai tecnici ai promoter, che hanno passato mesi e mesi senza lavorare.

È stato un anno triste e difficile per la musica dal vivo, quindi per un gran pezzo della musica. Ma di dischi ne sono usciti: forse qualcuno che sarebbe finito nelle liste di fine anno è stato rimandato e non lo sappiamo, ma i siti e i giornali di musica internazionali hanno avuto comunque materiale. Come ogni anno abbiamo messo insieme le scelte di diverse testate, alcune più generaliste altre più di nicchia, americane e britanniche, individuando i venti dischi più presenti e apprezzati dalla critica musicale. Abbiamo preso in considerazione la lista di Pitchfork, del Guardian, del New York Times, di Noisey, di Crack Magazine, di The Quietus e di Mojo: i dischi non sono presentati necessariamente in ordine di posizionamento, ma quelli che sono finiti più spesso in cima alle liste sono al fondo.

WorkaroundBeatrice Dillon (PAN)

È il disco d’esordio da solista di una dj e producer londinese, e secondo Crack sembra «un’entità aliena», con uno stile originalissimo che tiene insieme generi diversi, molto concentrato sulle sperimentazioni ritmiche. Tutto il disco procede allo stesso tempo, 150 battiti per minuto, a metà tra quello generalmente associato alla techno e quello della musica jungle. Secondo il Guardian Dillon è tra quei produttori britannici che negli ultimi anni hanno costruito un genere: «il minimalismo massimale, fatto di produzioni ricchissime nei dettagli eppure eleganti».

Big Conspiracy, J Hus (Black Butter)

Momodou Lamin Jallow ha 25 anni ed è di Londra, nato in una famiglia di origini gambiane e ghanesi. È stato indicato come uno dei rapper che hanno inventato l’afroswing, che concretamente è un genere che affianca le sonorità dell’R&B ai ritmi di derivazione africana, come quelli della dancehall. Da diversi anni è uno dei rapper inglesi di maggior successo di pubblico e di critica, e l’anno scorso era finito per qualche mese in carcere per aver portato con sé un coltello in pubblico. Big Conspiracy è il suo secondo disco, pieno di «canzoni che vorresti sentire a una festa estiva» secondo Noisey, e quindi purtroppo inadatto a un’estate da pandemia.

folklore, Taylor Swift (Republic)

Il riposizionamento di Taylor Swift da popstar per adolescenti a celebrata cantautrice si è compiuto definitivamente quest’anno con due dischi usciti a sorpresa, il primo dei quali – folklore – è finito in tutte quelle classifiche di fine anno che tendono a registrare e premiare gli artisti che dominano le classifiche americane. Swift ha abbandonato i successoni da intervallo del Super Bowl e anche le incursioni nel pop anni Ottanta, per un pezzo di canzoni folk tutto accompagnato da piano e chitarra. L’ha fatto con l’aiuto del chitarrista dei National Aaron Dessner, che ha prodotto quasi tutte le canzoni, e ne sono rimasti entusiasti in particolare i critici del New York Times.

Help, Duval Timothy (Carrying Colour Records)

Secondo The Quietus è «una finestra rilassata e immersiva nel panorama della musica contemporanea», e arriva da un artista londinese originario della Sierra Leone, che da una parte dipinge e fa installazioni con tessuti, e dall’altra fa musica (è finito anche in un disco di Solange Knowles). Help è un disco molto strumentale – tanto pianoforte e chitarra – e con frequenti inserti elettronici, sempre su armonie tra il jazz, il soul e la musica contemporanea.

What’s Your Pleasure, Jessie Ware (PMR)

Lei è una cantante inglese che da quasi dieci anni bazzica le classifiche e collabora con alcuni tra i cantanti e produttori più ammirati della musica britannica. What’s Your Pleasure è un album di musica disco un po’ vecchia scuola e un po’ nord europea, ed è stato il suo primo vero successo, finito in diverse classifiche di fine anno, anche americane. Su Pitchfork è addirittura al nono posto.

A Written Testimony, Jay Electronica (Roc Nation)

Jay Electronica, nato con il nome di Timothy Elpadaro Thedford successivamente cambiato in Elpadaro F. Electronica Allah, ha una storia. È nato nel 1976 a New Orleans: cresciuto nelle case popolari, iniziò a fare rap a dieci anni, e a 19 anni se ne andò in giro per gli Stati Uniti, passando da New York, Atlanta, Detroit, unendosi nel frattempo alla Nation of Islam. Negli anni Duemila diventò una specie di mistero leggendario del rap di nicchia americano, facendo uscire una canzone diventata famosissima, “Exhibit C”, e finendo per essere assoldato nel 2010 dall’etichetta di Jay Z. Ma ci vollero altri dieci anni prima del suo primo disco da solista, A Written Testimony, che non ha deluso le aspettative della critica.

How I’m Feeling Now, Charli XCX (Atlantic)

Charli XCX è una «weirdo-pop futurist» – più o meno “futurista da pop bizzarro” secondo Lindsay Zoladz del New York Times, che ha messo al sesto posto della sua classifica personale l’ultimo disco della cantante inglese. Charli XCX, nome d’arte di Charlotte Emma Aitchison, lo ha realizzato nel giro di sei settimane interamente in casa, durante il primo lockdown, in un processo che ha coinvolto anche i fan su Zoom. Il risultato è piaciuto alla critica – era uno dei primi dischi di questo tipo a uscire, poi ne sono arrivati tanti altri – che ultimamente sta premiando le sperimentazioni pop simili, come quelle di Sophie e dei 100 Gecs, messe talvolta sotto l’etichetta di “hyper-pop”. Secondo Crack, che ha messo il disco al nono posto, Charli XCX è una delle «artiste pop più prolifiche e produttive dei nostri tempi».

Women in Music Pt. III, HAIM (Columbia)

Le tre sorelle Este, Danielle e Alana Haim si sono fatte fotografare da Paul Thomas Anderson in una gastronomia di Los Angeles piena di salsicce appese, per la copertina del loro disco che eloquentemente si chiama “Donne nella musica”. Erano tre anni che non uscivano con un album, tre anni in cui sono capitate loro alcune disgrazie personali, finite nei testi di canzoni musicalmente spensierate e movimentate il giusto. Secondo Zoladz del New York Times «sembra un viaggio attraverso le frequenze di una radio a metà degli anni Novanta, quando erano piene di una gran varietà di musiciste donne eclettiche».

YHLQMDLG, Bad Bunny (Rimas Entertainment)

Assieme a J Balvin, il portoricano Bad Bunny è il più famoso cantante del mondo di reggaeton, la musica caraibica popolarissima tra gli ispanici americani tutta sorretta da un’unica particella ritmica, il tresillo. Cosa che, nel 2020, significa avere un successo smisurato: e infatti è stato l’artista più ascoltato dell’anno su Spotify (J Balvin è stato il terzo). Si potrebbe discutere su quanto il successo commerciale di YHLQMDLG abbia influito sulla diffusa celebrazione della critica, fatto sta che è presente in molte classifiche di fine anno, al decimo posto su Pitchfork, al 19esimo su Crack, che definisce Bad Bunny «la voce più esaltante dell’hip hop ispanico». Un altro disco che, nota Noisey, senza la pandemia avrebbe accompagnato tutta un’estate di feste in spiaggia.

Shore, Fleet Foxes (anti-)

La band di Seattle dei Fleet Foxes fa pochi dischi, ma di solito non li sbaglia. Shore – la cui copertina ritrae un ghiacciaio dell’Alaska – l’ha scritto praticamente da solo il frontman Robin Pecknold, un tipo solitario che ha detto di aver avuto molti problemi e ansie nella fase finale della produzione, spariti quando grazie alla pandemia ha potuto praticare l’isolamento che desiderava. Shore è una specie di sintesi tra il folk montanaro del primo disco dei Fleet Foxes e le sperimentazioni ariose e monumentali del penultimo, Crack-Up.

Rough and Rowdy Ways, Bob Dylan (Columbia)

Bob Dylan è forse l’unico artista al mondo ancora capace di farsi notare al 39esimo –trentanovesimo – disco in studio (a cui vanno peraltro aggiunti le decine di live e bootleg che, com’è noto, rappresentano praticamente un catalogo a sé). Eppure erano otto anni che non faceva un album di canzoni originali: una delle quali, “On Murder Most Foul”, con i suoi quasi 17 minuti è la più lunga della sua carriera. È un disco che «mette a tacere le dicerie sul fatto che Bob Dylan stia perdendo la voce» scrive Pitchfork, mentre il New York Times descrive le canzoni come un misto di «ballate seriose e blues da notte fonda in una roadhouse».

Untitled (Black is), Sault (Forever Living Originals)

Dei Sault sappiamo praticamente solo i loro dischi. Ne hanno pubblicati due l’anno scorso e due quest’anno, tutti con titoli ermetici e criptici. Sono un gruppo britannico di R&B e soul, ed è coinvolto sicuramente un produttore che si chiama Inflo. Ma non danno interviste, non si fanno promozione, non si mostrano: e tutto questo mistero ha creato una certa curiosità, visto che i due dischi di quest’anno – Untitled (Black Is) Untitled (Rise) – sono piaciuti tantissimo alla critica. Dentro è tutto una celebrazione della musica, della cultura e dell’identità nera, e uscendo a metà giugno ha accompagnato le settimane delle proteste di Black Lives Matter in estate.

Future Nostalgia, Dua Lipa (Warner)

È il discone pop dell’anno, secondo la maggior parte dei critici. Dua Lipa ha 25 anni e nel 2017 aveva avuto un successo pazzesco con la canzone “New Rules”. Questo è il suo secondo disco, a cui ha lavorato una squadra di produttori esperti che hanno confezionato una sfilza di singoli che hanno ripescato un sacco di cose che hanno funzionato nel pop da classifica degli ultimi quarant’anni. Poi bisogna saperle cantare e ballare (contemporaneamente), quelle cose, e Dua Lipa lo sa fare eccome «mischiando gli stili e le ispirazioni senza sforzo, e senza ricorrere a formule forzate» secondo Pitchfork.

RTJ4, Run the Jewels (Jewel Runners)

Il disco hip hop più acclamato dalla critica, quest’anno. È, come suggerisce il nome, il quarto del duo composto dai rapper El-P e Killer Mike, che portano avanti quella tradizione dei gruppi hip hop duri e arrabbiati alla Wu-Tang Clan. Il fatto che sia uscito durante le proteste di Black Lives Matter lo ha reso particolarmente contemporaneo. Jon Caramanica, del New York Times, lo ha messo al quinto posto della sua classifica.

Græ, Moses Sumney (Jagjaguwar)

Se nel 2017 vi era capitato di sentire Aromanticism, il disco di esordio di Moses Sumney, è probabile che ve lo ricordiate perché il suo stile e il suo timbro sono abbastanza inconfondibili. Si era già fatto notare ed è uno particolarmente amato dalla stampa americana, ma con Græ è arrivato ai primi posti di tante classifiche di fine anno. La formula è rimasta la stessa: arpeggi delicatissimi di chitarra, accordi jazz, dei fiati che sembrano sempre in un’altra stanza, un tappeto ritmico quasi invisibile, il tutto ad accompagnare le lente piroette del falsetto di Sumney.

Saint Cloud, Waxahatchee (Merge Records)

Forse il meno prevedibile tra i dischi in testa alle classifiche di quest’anno. Lo ha fatto Katie Crutchfield, che insieme alla sorella Allison faceva parte dei P.S. Eliot, e parla in gran parte del suo percorso per uscire dall’alcolismo. Le sonorità sono quelle dell’Americana, il cappello in cui finisce spesso chi fa country e folk e viene dal sud degli Stati Uniti. Un disco addirittura «dylaniano», secondo il Guardian.

Heaven to a Tortured Mind, Yves Tumor (Warp)

Tra i produttori più acclamati degli ultimi anni, Yves Tumor si circonda di un certo mistero (si dice abbia vissuto o viva a Torino) ed è celebre per i suoi concerti acrobatici e per i suoi travestimenti glam. In tanti hanno definito Heaven to a Tortured Mind un disco rock, ma è uno di quei casi in cui le etichette stanno strette. È stato comunque il suo album più accessibile finora, e sembra aver funzionato.

Punisher, Phoebe Bridgers (Dead Oceans)

Phoebe Bridgers ha 26 anni ed è di Pasadena, California. Si era fatta notare per il suo primo disco (Stranger in the Alps, 2017) e per alcune canzoni finite in televisione, ma fino a quest’anno la conoscevano relativamente in pochi. Secondo Zoladz del New York Times è diventata una cantautrice generazionale, e ha fatto un disco in cui «la morte e l’apocalisse sono dietro ogni angolo», dice Pitchfork. Non è musica allegra, insomma. Sotto ai testi, in cui canta di depressione e solitudine con vari momenti di umorismo nero, c’è una certa maturità e inventiva musicale che è stata molto acclamata dalla critica.

Set My Heart on Fire Immediately, Perfume Genius (Matador Records)

Perfume Genius, nome d’arte del cantante dell’Iowa Michael Alden Hadreas (ha origini greche), è uno dei più creativi e ricercati cantanti pop in circolazione, che negli anni ha sfornato una serie di singoli di gran successo e dischi apprezzatisssimi. Set My Heart on Fire Immediately è l’ennesimo, come gli altri pieno di barocchismi e di melodie trascinate, di muri di sintetizzatori e di arpeggi appesi per aria.

Fetch the Bolt Cutters, Fiona Apple (Epic)

La veterana del pop sofisticato Fiona Apple ci ha lavorato per cinque anni nella sua casa di Venice Beach, Los Angeles, producendo un disco casalingo e a tratti scalcinato (ci sono in mezzo pentole, cani, e tanti suoni difficili da identificare: ma contrariamente alle apparenze non è un disco “da lockdown”), celebrato da subito e descritto da molti critici come il suo migliore. È un disco di Fiona Apple: cioè diverso da quasi tutto quello che si sente in giro, pieno di versi memorabili e di ritornelli storti e strani da canticchiare. «Nessuno è al suo livello», scrive Noisey.