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  • Martedì 15 dicembre 2020

La condanna a morte di cui si discute in Giappone

Takahiro Shiraishi adescava persone che scrivevano pensieri suicidi sui social network, e poi le uccideva

Lo sketch disegnato da Masato Yamashita durante la prima udienza del processo a Takahiro Shiraishi. Tachikawa, area metropolitana di Tokyo, Giappone, 30 settembre 2020. (EPA/ JIJI PRESS via ANSA)
Lo sketch disegnato da Masato Yamashita durante la prima udienza del processo a Takahiro Shiraishi. Tachikawa, area metropolitana di Tokyo, Giappone, 30 settembre 2020. (EPA/ JIJI PRESS via ANSA)

Il tribunale di Tokyo ha condannato a morte Takahiro Shiraishi, l’uomo soprannominato dai giornali giapponesi “il killer di Twitter”, per aver ucciso e fatto a pezzi nove persone, otto delle quali conosciute e adescate sui social network. Tra l’agosto e l’ottobre del 2017 Shiraishi aveva contattato alcune persone che avevano espresso pensieri suicidi su internet e le aveva attirate nel suo appartamento a Zama – una cinquantina di chilometri a sud di Tokyo – con il pretesto di aiutarle a morire. Il caso di Shiraishi sta facendo discutere per la crudezza dei suoi omicidi e il ruolo che hanno avuto i social media nella vicenda, ma ha anche aperto un dibattito rispetto agli spazi in cui si può chiedere aiuto se si sta pensando al suicidio, che in Giappone è un problema diffuso.

Shiraishi era stato arrestato dalla polizia il 31 ottobre del 2017, a 27 anni, dopo che nel piccolo appartamento dove viveva da pochi mesi erano state trovate due teste umane e pezzi di cadaveri in stato di decomposizione, conservati in vari contenitori refrigeranti o dentro delle scatole. Nel loft di 13,5 metri quadrati vennero trovate in totale 240 ossa appartenenti a otto donne e un uomo, tra i 15 e i 26 anni, che Shiraishi aveva drogato, violentato, strangolato e fatto a pezzi. Shiraishi era stato accusato formalmente nel settembre del 2018 e la condanna a morte è arrivata dopo 23 udienze.

La polizia aveva cominciato a indagare su Shiraishi nell’ottobre del 2017, dopo aver trovato dei messaggi tra lui e una donna di 23 anni di cui nessuno aveva più notizie da dieci giorni. NHK, il servizio radio-televisivo pubblico giapponese, aveva raccontato che aveva ucciso una prima donna in agosto: una ventunenne conosciuta in un parco, dopo che lei gli aveva chiesto di restituirle una somma di denaro che gli aveva prestato. Shiraishi disse poi alla polizia di aver ucciso le altre persone, contattate su internet, per paura che lo avrebbero denunciato per le violenze sessuali subite, e di aver «fatto a pezzi i cadaveri nel bagno per distruggere le prove». Aggiunse di aver «gettato la carne e gli organi nella spazzatura» ma di aver «conservato le ossa per paura di essere scoperto».

Uno dei motivi per cui il caso è così noto sia in Giappone che all’estero è che Shiraishi aveva individuato le sue vittime, a parte la prima, su internet. Cercava persone che avevano parlato dei propri pensieri suicidi su Twitter e altri social network, poi le convinceva a incontrarlo promettendo loro che le avrebbe aiutate a morire o che lui si sarebbe suicidato con loro. Per questa ragione la strategia degli avvocati della difesa è stata sostenere che le persone avevano dato il loro consenso a essere uccise.

Durante il processo, iniziato il 30 settembre, Shiraishi si è sempre dichiarato colpevole: aveva confessato gli omicidi e spiegato agli investigatori di aver ucciso le nove persone «per motivi di denaro» e «per soddisfare i suoi desideri sessuali, senza alcun consenso», aggiungendo che nessuna di loro voleva davvero morire. Ciononostante, secondo gli avvocati della difesa Shiraishi avrebbe potuto evitare la pena di morte ed essere ritenuto responsabile soltanto di omicidio – con pene più lievi – perché le confessioni dei pensieri suicidi su Twitter e i messaggi che gli avevano scritto le persone poi uccise erano prova della loro volontà di morire.

Martedì i giudici hanno stabilito che le persone non potevano in alcun modo aver dato il loro consenso a essere uccise, anche perché durante gli interrogatori Shiraishi aveva detto che mentre lui le strangolava loro opponevano resistenza (secondo la difesa, erano «riflessi condizionati»). Secondo i giudici, che hanno descritto gli omicidi come «estremamente violenti», mentre uccideva le persone Shiraishi era inoltre pienamente lucido, come avevano dimostrato cinque mesi di perizie psichiatriche.

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Il caso di Shiraishi ha fatto discutere molto in Giappone. L’Asahi Shimbun ha raccontato che martedì mattina fuori dal tribunale c’era una coda di diverse decine di persone che volevano assicurarsi uno dei pochi posti per assistere al processo nell’aula. Il Giappone è l’unico paese del G7, insieme agli Stati Uniti, dove si applica ancora la pena di morte, che solitamente viene assegnata a chi è colpevole di più omicidi e viene eseguita attraverso l’impiccagione: ma è anche uno dei paesi con il maggior tasso di suicidi tra quelli più industrializzati, e come ha spiegato Jiro Ito, responsabile della ong per la prevenzione contro i suicidi OVA, il caso di Shiraishi ha anche evidenziato che c’è un gran numero di persone vulnerabili che parlano della propria situazione su Twitter e non ricevono aiuto.

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Negli ultimi dieci anni il numero dei suicidi in Giappone è diminuito grazie anche agli interventi del governo, che ha potenziato i canali di sostegno. Secondo gli esperti citati dal Washington Post, però, quest’anno il numero di suicidi in Giappone ha ripreso ad aumentare nuovamente anche a causa della pandemia da coronavirus, soprattutto tra le giovani donne.

Per queste ragioni, il Japan Times ha spiegato che il caso di Shiraishi ha aperto un dibattito su come e dove si possa parlare di depressione o dei pensieri suicidi in sicurezza, online e attraverso altri canali, aggiungendo che il governo potrebbe intervenire con nuove misure per sostenere le persone che hanno bisogno di aiuto. Intanto di recente Twitter ha aggiornato le proprie regole di sicurezza specificando che gli utenti non dovrebbero promuovere né incoraggiare il suicidio o comportamenti autolesionistici.

Dove chiedere aiuto
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico Italia allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.

Puoi anche chiamare i Samaritans al numero verde gratuito 800 86 00 22 da telefono fisso o al 06 77208977 da cellulare, tutti i giorni dalle 13 alle 22.