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  • Mercoledì 11 novembre 2020

I ricorsi di Trump non stanno andando da nessuna parte

Moltissimi sono già stati respinti e quelli annunciati contengono accuse molto generiche e non provate, oppure riguardano pochissimi voti

Un sostenitore di Donald Trump protesta davanti a un ufficio elettorale di Philadelphia, Pennsylvania. (Mark Makela/Getty Images)
Un sostenitore di Donald Trump protesta davanti a un ufficio elettorale di Philadelphia, Pennsylvania. (Mark Makela/Getty Images)

A quattro giorni da quando i media americani hanno proclamato Joe Biden vincitore delle elezioni, il presidente uscente degli Stati Uniti Donald Trump non ha ancora riconosciuto la sconfitta, nonostante l’avanzamento dello scrutinio continui a confermare il suo incolmabile svantaggio e nel frattempo siano arrivati a Biden i messaggi di congratulazioni dei principali leader internazionali.

Nonostante i retroscena giornalistici raccontino che il suo staff stia cercando di convincerlo che ha perso, Trump sembra deciso a contestare il risultato con tutti i mezzi a disposizione. Significa soprattutto cause legali: ma quelle che si sono viste finora sono sembrate piuttosto scalcinate, più simili a operazioni di propaganda che a veri ricorsi. E riguardano in ogni caso circostanze e voti non sufficienti a ribaltare la decisione degli elettori americani.

Trump continua a pubblicare su Twitter messaggi in cui sostiene che vincerà, e che ci sono promettenti sviluppi dallo spoglio in diversi stati in bilico, ma non è così. In Pennsylvania, per esempio, il vantaggio di Biden ha superato nel frattempo i 45mila voti, e il distacco è ormai superiore a quello che innesca un riconteggio. In Nevada Biden è adesso avanti di oltre 36mila voti, in Wisconsin di oltre 20mila, in Georgia di 14mila, in Arizona di quasi 13mila. Sono tutti margini contenuti ma comunque ampi abbastanza da scongiurare grossi cambiamenti a seguito dei riconteggi, che di solito al massimo spostano i calcoli di qualche centinaio di voti.

Nonostante il capo del partito al Senato Mitch McConnell abbia paragonato le controversie legali di queste elezioni a quelle del 2000, allora il distacco tra George W. Bush e Al Gore fu di appena poche centinaia di voti in un unico stato decisivo, la Florida. La situazione adesso è molto diversa.

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Il vantaggio di Biden infatti è enormemente superiore, ovunque, alla quantità di voti che eventualmente potrebbe essergli stata assegnata per via di errori tecnici, umani, o per casi isolati di frodi, di cui comunque non esistono al momento prove e nemmeno sospetti fondati. L’unico caso in cui le rivendicazioni di Trump sarebbero fondate sarebbe quello di una vasta e sistematica operazione di brogli elettorali: un’ipotesi senza alcun fondamento e che è categoricamente smentita dagli esperti, dai giornali e soprattutto dai funzionari Democratici e Repubblicani che si sono occupati direttamente dei processi elettorali.

Gli sforzi degli avvocati di Trump sembrano concentrati in Pennsylvania, lo stato che assegna più grandi elettori tra quelli in cui Biden ha vinto di poco: venti, che comunque non sarebbero abbastanza per dare la vittoria a Trump. Una decisione della Corte Suprema seguita a una causa dei Repubblicani (che ne avevano presentate altre per fermare lo scrutinio, respinte) ha stabilito che i voti arrivati per posta dopo il giorno delle elezioni debbano essere tenuti separati dagli altri, perché ci sono altre cause legali che contestano la legittimità del voto, e quindi la decisione serve a preservare la possibilità, comunque improbabile, che vengano annullati.

Ma si tratta di pochi voti, hanno detto più volte le autorità locali: dovrebbero essere circa 10mila. Anche nell’eventualità Trump ottenesse che non vengano contati, non gli consentirebbero di recuperare i 45mila voti di distacco su Biden. Su Twitter, Trump ha accusato il responsabile delle elezioni di essere un “RINO”, cioè un “Repubblicano solo di nome”, perché ha smentito ci siano state irregolarità.

Sempre in Pennsylvania, gli avvocati di Trump hanno presentato un’altra causa in cui sostengono che ad alcuni osservatori Repubblicani sia stato impedito di assistere allo scrutinio di circa 680mila voti. Ma visto che non ci sono prove più concrete che quei voti siano stati effettivamente truccati, gli esperti ritengono quasi impossibile che la causa porti a un annullamento dei voti in questione. C’è anche una causa simile a Philadelphia, in cui i Repubblicani hanno protestato per la distanza imposta agli osservatori, aumentata per via del coronavirus. Ma valeva anche per gli osservatori Democratici.

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Trump spera che queste cause arrivino fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti, dopo i passaggi nei tribunali e nella Corte Suprema locale, e che a quel punto possa arrivare una decisione in suo favore visto che si è appena insediata la giudice Amy Coney Barrett, che aveva nominato poche settimane fa. Ma non è così comune che i ricorsi elettorali facciano così tanta strada: l’unica volta che la Corte Suprema prese una decisione determinante sulle presidenziali fu nel 2000, quando decise di fermare il riconteggio assegnando la vittoria a Bush.

Se le cause presentate dai Repubblicani in Pennsylvania sembrano per ora molto deboli, negli altri stati le cose vanno ancora peggio. In Michigan, che Biden ha vinto di circa 150mila voti, diverse cause dei Repubblicani che contestavano la trasparenza dello scrutinio a Detroit sono state respinte. Sempre in Michigan, una causa è stata respinta perché non era stata compilata correttamente, a dimostrazione di quanto poco preparato sembri il gruppo di legali che sta portando avanti i ricorsi di Trump. Ne sono state comunque annunciate altre.

In Arizona, i Repubblicani hanno presentato una causa accusando le autorità di aver rifiutato alcune schede perché compilate con un pennarello: ma era una bufala virale che è stata smentita in fretta, e infatti la causa è stata ritirata (il procuratore generale dello stato, Repubblicano, ha ammesso che non c’erano state irregolarità). Un’altra, che denuncia una presunto sistematico errore del personale dei seggi della contea di Maricopa nel maneggiare delle schede rifiutate dalle macchine, riguarda al massimo 180 voti, si è scoperto.

In Georgia, le cause presentate riguardano un presunto errore che avrebbe portato a contare anche le schede accettate dopo la chiusura dei seggi: ma è stata respinta. Un’altra causa riguardava presunte omissioni nella gestione di 56 voti: respinta anche quella. I Repubblicani hanno chiesto le dimissioni di Brad Raffensperger, segretario di Stato locale e responsabile del processo elettorale, che peraltro è Repubblicano. Lui si è rifiutato, difendendo il suo lavoro e consigliando ai colleghi del partito di preoccuparsi dei due ballottaggi per i seggi del Senato della Georgia, previsti per gennaio.

In Nevada, una causa aveva chiesto di fermare lo scrutinio dalla contea di Clark, ma è stata respinta. Un’altra ancora pendente riguarda circa 3mila voti espressi da persone che si erano già trasferite fuori dallo stato: ma in realtà la legge permette di votare a chi se ne è andato da meno di 30 giorni, e quindi l’eventuale irregolarità dei voti deve ancora essere dimostrata.

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Secondo Amy Gardner del Washington Post, poi, il comitato elettorale di Trump non sembra intenzionato a chiedere davvero il riconteggio in Wisconsin, che costerebbe 3 milioni di dollari (a suo carico).

Le cause legali già presentate oppure annunciate dai Repubblicani sono molte, ma al momento o contengono accuse estremamente generiche e senza prove, oppure riguardano episodi molto isolati e pochissimi voti. Il New York Times ha parlato con funzionari e responsabili delle elezioni in tutti e 50 gli stati, Democratici e Repubblicani, e in nessun caso ha ricevuto segnalazioni di presunti brogli o irregolarità degne di nota. I casi segnalati da Trump su Twitter in questi giorni, ha spiegato il New York Times, riguardano episodi che sono normali in un’elezione che coinvolge 150 milioni di elettori in un territorio vasto come gli Stati Uniti. In tempi recenti, l’unico caso di frodi elettorali dimostrato avvenne nel 2018 e riguardò un’operazione per favorire un candidato Repubblicano al Congresso in North Carolina.