Una canzone di Bird York

Per raccontare la quale ci facciamo stare persino i Jalisse (ma è bella, la canzone!)

(AP Photo/Mark J. Terrill)
(AP Photo/Mark J. Terrill)

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Ieri erano 60 anni da quando Elvis Presley pubblicò la sua versione di Are you lonesome tonight?, quella rimasta più famosa di tutte, quella dove lui borbotta con quel tono piacione “auònderif…”. È il passaggio noto come lo “spoken bridge” della canzone, che è del 1926, nientemeno: e ha tutta una filologia che lo riferisce ai Pagliacci di Leoncavallo e a Come vi piace di Shakesperare. L’interpretazione di Elvis divenne una cosa così speciale e riconoscibile che si prendeva in giro lui stesso.
Anohni ha pubblicato una sua cover di I will survive, raccontando di avere rifiutato di darla a Facebook per 200mila dollari, per non collaborare alla diffusione di “fake news” da parte di Facebook durante la campagna elettorale americana.
Ieri ho visto su Netflix quel film di quattro anni fa che si chiama This is where I leave you, commedia leggerina ma spiritosa con un gran bel cast. E una buona battuta sull’imbarazzo che “la nostra canzone” di una coppia innamorata possa essere Time after time di Cindy Lauper: che si sente in un gruppo di successi anni Ottanta rimasti immortali nella provincia americana, assieme a The ghost in you degli Psychedelic Furs e Never tear us apart degli INXS (più contemporanee ci sono due canzoni di Alexi Murdoch, quello di Wait).
C’è una canzone nuova (e a gennaio un disco) dei Rhye (di cui una volta o l’altra dobbiamo parlare meglio): è una band tenuta insieme da un cantautore canadese che si era fatta molto apprezzare per il suono particolare della voce di lui e per gli arrangiamenti sinuosi. La canzone nuova ha un tratto disco in più: quello nel video è l’attore Aaron Taylor-Johnson, la regia è di sua moglie Sam.
A fine mese esce un documentario su Frank Zappa, ma non mi pare sia ancora chiaro dove lo si potrà vedere (a parte i cinema americani).
S’è fatta già viva Mariah Carey, persino quest’anno.

In the deep
Kathleen York ha fatto tantissime serie tv da attrice e un po’ di film, e probabilmente l’avete vista da qualche parte. È la ex moglie di Toby Ziegler in West Wing, per dire. Nel 2004 ebbe una parte in Crash, film di Paul Haggis che è diventato immeritatamente per gli Oscar quello che i Jalisse furono per Sanremo: un luogo comune di “vincitore che non si è capito perché abbia vinto, e che dopo è sparito dalle attenzioni e dalla memoria”. Dico immeritatamente perché il luogo comune è un po’ pigro e conformista, di quelle cose che si ripetono ammiccando, ma il film era bello in un suo strano modo.

In quel film Kathleen York – che ha quasi sessant’anni e ha pubblicato quattro dischi facendosi chiamare Bird York – cantava anche la canzone, che a sua volta fu candidata all’Oscar (in questo caso vinse un ancora più dimenticato pezzo hip hop del dimenticato film Hustle & Flow).

Certo, non era una canzone da far venire giù il teatro degli Oscar, non coi toni di My heart will go on di Céline Dion, per capirsi: benché lei sia un po’ quel tipo. È una canzone molto notturna, cupa, come il film: con un andamento nebbioso che parla del perdersi all’improvviso e trovarsi a nuotare ciecamente “negli abissi”. Ma lei ci mette la dolcezza giusta per tenere tutto a galla, e uscirne felici.
Now you’re out there spinnin’
Now you’re out there swimmin’
In the deep


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