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  • Venerdì 25 settembre 2020

Trump accetterà un’eventuale sconfitta?

Lui stesso continua a ripetere che potrebbe non farlo, ma non è chiaro se sia una semplice sparata o se ci sia il rischio di una grave crisi costituzionale

(Joe Raedle/Getty Images)
(Joe Raedle/Getty Images)

Per due giorni consecutivi, mercoledì e giovedì, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si è rifiutato di dire che riconoscerà la validità del voto alle elezioni di novembre nel caso in cui il risultato dovesse essergli sfavorevole. Ne ha parlato mercoledì in conferenza stampa alla Casa Bianca, quando Brian Karem, un giornalista di Playboy, gli ha chiesto se fosse pronto a impegnarsi «qui e oggi per un trasferimento pacifico dei poteri dopo le elezioni di novembre». Trump ha risposto «Vedremo che succede», aggiungendo che il sistema del voto è «fuori controllo»; e poi ha detto che forse «non ci sarà un trasferimento. Onestamente, ci sarà una continuazione».

Il giorno dopo, giovedì, un altro giornalista ha chiesto a Trump: «I risultati delle elezioni sono legittimi solo se lei vince?». Il presidente ha risposto: «Noi vogliamo essere sicuri che le elezioni siano oneste, e non sono sicuro che possano esserlo». Poi ha detto di nuovo: «Vedremo».

Non è la prima volta che Trump dice che potrebbe non riconoscere il risultato delle elezioni, o che cerca di mettere in dubbio la loro validità. Il mese scorso, durante la convention del Partito Repubblicano, disse che «l’unico modo in cui possono strapparci quest’elezione è con una truffa elettorale». Durante un’intervista con Fox News a luglio, quando il giornalista Chris Wallace gli chiese con una certa insistenza se avrebbe sicuramente accettato il risultato delle elezioni di novembre, rispose: «No, non dirò semplicemente sì. Non dirò neppure no, e non l’ho fatto nemmeno l’ultima volta». Trump non ha mai accettato il fatto che Hillary Clinton lo abbia superato nel voto popolare nel 2016, e sostiene ci siano stati brogli – mai dimostrati – anche nelle elezioni che ha vinto.

Sempre a luglio, mentre i numeri dei contagi per il coronavirus erano molto alti negli Stati Uniti, Trump avanzò anche la possibilità di posticipare le elezioni a causa dell’emergenza sanitaria, ma si rimangiò tutto dopo che perfino i Repubblicani lo criticarono, e quando capì di non avere l’autorità per farlo.

Da mesi, tuttavia, con molte dichiarazioni e moltissimi tweet, Trump sostiene che le elezioni saranno truccate e che il voto sarà «un’enorme truffa». L’obiettivo polemico principale è il voto via posta, che secondo Trump sarebbe particolarmente esposto ai brogli. In realtà il voto via posta negli Stati Uniti si fa da decenni, e non ci sono mai state prove di truffe elettorali su larga scala: ma questo secondo i Democratici potrebbe essere irrilevante rispetto al desiderio di Trump di contestarlo, indebolirlo e usarlo poi come pretesto per non accettare un’eventuale sconfitta.

Mercoledì, poco prima della dichiarazione sul risultato del voto, Trump ha detto anche che intende nominare al più presto un sostituto per Ruth Bader Ginsburg, la giudice della Corte Suprema morta la settimana scorsa, perché si aspetta che il voto delle presidenziali sarà contestato e che la decisione finale su chi sarà il vincitore delle elezioni spetterà proprio alla Corte, anche se non è chiaro come questo dovrebbe avvenire.

– Leggi anche: Cosa succede adesso alla Corte Suprema

La possibilità che Trump non riconosca il risultato delle elezioni, e perfino che faccia in modo di rendere il processo di voto il più accidentato possibile al fine di contestarne la validità, è temuta da mesi dagli analisti e dagli strateghi elettorali della campagna del candidato del Partito Democratico, Joe Biden. Già a maggio di quest’anno, un articolo sul New York Times raccontava di un gruppo di funzionari del Partito Democratico che considerava proprio scenari di questo tipo. Tra le ipotesi c’erano: un’indagine aperta contro Joe Biden una settimana prima delle elezioni dal procuratore generale William Barr, noto e spregiudicato alleato del presidente; una dichiarazione di stato di emergenza nelle città principali degli stati più contesi, come Milwaukee e Detroit, che impedisca l’apertura dei seggi elettorali o militarizzi le strade allo scopo di tenere lontani gli elettori; un esplicito rifiuto di Trump di lasciare la Casa Bianca a seguito di una vittoria risicata di Biden, magari ottenuta rimontando lo svantaggio iniziale grazie allo scrutinio dei voti per posta.

La pandemia complica le cose: sia perché, come immaginato dai funzionari Democratici, dà a Trump una scusa per applicare eventuali misure di emergenza; sia perché aumenta la possibilità che gli americani decidano di votare via posta, allungando di molto le operazioni di conteggio del voto che già saranno rese laboriose dalle norme anti-COVID. Per questo, è molto probabile che il 3 novembre la notte elettorale passerà senza che sia chiaro chi ha vinto. Il conteggio finale potrebbe ritardare perfino di settimane, e ciò aumenterà la confusione e la possibilità che le elezioni siano contestate, specie se il risultato non sarà netto (o se Trump dovesse risultare in vantaggio la notte del voto, per poi finire rimontato qualche giorno dopo). In caso di una vittoria schiacciante di uno dei due candidati, invece, sarebbe quasi impossibile mettere in dubbio il voto.

L’articolo che meglio di tutti spiega in che modo l’amministrazione Trump potrebbe approfittare della confusione durante e dopo le elezioni – e come potrebbe amplificarla – è uscito qualche giorno fa sull’Atlantic e l’ha scritto il giornalista politico Barton Gellman, tre volte premio Pulitzer. È lunghissimo, molto dettagliato e argomenta con interviste e dati alcune ipotesi preoccupanti.

Anzitutto, Gellman ricorda che la Costituzione americana non garantisce un trasferimento pacifico dei poteri ma piuttosto lo presuppone, come dice l’esperto legale Lawrence Douglas. Questo significa che, affinché tutto vada bene, è necessario che a un certo punto lo sconfitto si riconosca come tale. Gellman ricorda anche che nell’ultimo caso di elezioni contestate, quelle tra Al Gore e George W. Bush nel 2000, al contrario di come molti ricordano non fu la Corte Suprema a decidere il risultato del voto. La Corte Suprema decise sì il risultato del conteggio in Florida, ma Gore avrebbe potuto continuare la sua battaglia legale: il giorno dopo la sentenza della Corte decise però di rinunciare, «in nome della nostra unità come popolo e della forza della nostra democrazia». Questo è il discorso che Trump potrebbe non fare mai.

Gellman scrive che il Partito Repubblicano potrebbe intralciare le operazioni di voto. Quelle di quest’anno sono le prime elezioni in 40 anni in cui i Repubblicani non devono avere l’autorizzazione di un giudice per fare “operazioni di sicurezza del voto” ai seggi. L’autorizzazione di un giudice era obbligatoria dal 1981, quando ci furono polemiche perché alle elezioni per il governatore del New Jersey i Repubblicani cercarono di intimidire il voto delle minoranze assumendo poliziotti fuori servizio per fare la guardia ai seggi.

Nel 2018, però, un giudice ha ritenuto che l’obbligo non fosse più necessario, e quest’anno il Partito Repubblicano ha messo insieme 50 mila volontari in 15 stati contesi per controllare la sicurezza ai seggi. Anche senza usare tecniche intimidatorie, questi volontari potrebbero contestare il voto di chiunque sembri loro «sospetto», rallentando o facendo impantanare le operazioni di voto. C’è anche la possibilità che organizzazioni di estremisti provochino violenze ai seggi, come ha fatto il gruppo Boogaloo durante le proteste di Black Lives Matter.

Poi c’è quello che Gellman chiama l’Interregno, cioè i 79 giorni che trascorrono tra le elezioni e l’insediamento del nuovo presidente. La Costituzione prevede in quei giorni tutta una serie di passaggi e votazioni formali che di solito contano poco, perché il vincitore è già chiaro a tutti fin dalla notte elettorale e lo sconfitto si è congratulato con lui. Ma se il voto dovesse essere incerto, o se lo sconfitto non accettasse il risultato, le formalità potrebbero diventare molto importanti.

Tra le tante ipotesi possibili, Gellman si concentra sul fatto che la Costituzione americana non prevede esplicitamente che sia il voto popolare a determinare i grandi elettori che ciascuno stato seleziona per far parte del collegio elettorale, cioè del gruppo di persone che poi, effettivamente, elegge il presidente. La Costituzione dice che ciascuno stato può nominare i grandi elettori del collegio in base alle direttive del Congresso dello stato stesso.

– Leggi anche: Come si elegge il presidente degli Stati Uniti

Per secoli questo potere è stato lasciato al voto popolare, ma se le elezioni di quest’anno dovessero essere molto contestate, se il risultato definitivo tardasse ad arrivare e nel frattempo montasse una campagna che denuncia brogli e irregolarità durante il voto, non sarebbe impossibile che alcuni stati guidati dai Repubblicani possano decidere di dichiarare non valido il voto popolare, e di selezionare per il collegio elettorale grandi elettori di loro nomina. Gellman ha parlato con tre alti esponenti del Partito Repubblicano in Pennsylvania che gli hanno detto che l’ipotesi è in discussione. I Repubblicani controllano Camera e Senato in diversi stati in bilico.

Gellman ipotizza che il 14 dicembre il Collegio elettorale si possa formare senza che ci sia un consenso comune sulla sua composizione, e che si creino perfino due Collegi elettorali con due diverse maggioranze che votano in maniera differente, una per Biden e una per Trump.

A quel punto spetterebbe al Congresso, che si riunisce il 6 gennaio del 2021, dirimere la questione. Ma la Costituzione e le leggi ordinarie sono così fumose o complicate che si apre un «labirinto» di ipotesi, per un caso a cui nessuno aveva mai davvero pensato. Per fare un esempio, in una delle tante possibili alternative la speaker della Camera Nancy Pelosi diventa presidente pro-tempore. La soluzione più probabile sarebbe uno scontro piuttosto brutale tra i poteri costituzionali, in cui alla fine il partito che domina il Senato conquista la presidenza.

La cosa migliore da fare per gli elettori americani, secondo Gellman, è evitare il voto via posta e andare a votare di persona, per fare in modo che ci sia un risultato chiaro e immediato fin dalla notte elettorale. Paradossalmente anche Trump dice la stessa cosa, ma per altre ragioni: spera che molti elettori spaventati dalla pandemia non vadano a votare, contando sul fatto che storicamente la bassa affluenza ha favorito i Repubblicani.

Mercoledì, dopo le dichiarazioni di Trump, Joe Biden ha risposto con tono leggero. «In che paese siamo?», ha chiesto ironico, e poi: «Guardate, dice cose irrazionali, non so cosa dire». A giugno, però, durante un’apparizione televisiva Biden aveva detto: «Il presidente cercherà di rubare le elezioni. È la mia più grande preoccupazione». Secondo Vanity Fair, i funzionari della sua campagna elettorale hanno parlato con i manager delle principali reti televisive chiedendo cautela nel dichiarare la vittoria nei vari stati durante la notte elettorale, e stanno mettendo a punto altre contromisure preparandosi a lunghe battaglie legali.

Poche ore dopo le parole di Trump, anche alcuni alti esponenti del Partito Repubblicano hanno reagito. Mitch McConnell, il leader della maggioranza al Senato, ha scritto su Twitter che ci sarà una transizione ordinata, «come succede ogni quattro anni dal 1792», ma poi non ha voluto fare altri commenti e ha evitato le domande dei giornalisti.

Ben Sasse, senatore Repubblicano, ha detto ai giornalisti: «Il presidente dice cose pazze. La transizione del potere è sempre stata pacifica. Questo non cambierà». Mitt Romney, che tra i senatori Repubblicani è il più apertamente critico nei confronti di Trump, ha detto: «Non c’è dubbio che tutti coloro che hanno giurato di sostenere la Costituzione faranno in modo che ci sia una transizione del potere pacifica». Nemmeno lui, però, ha condannato Trump in modo esplicito, né l’ha citato per nome.