Cosa significa la nuova sentenza su Marco Cappato e Mina Welby

Le condizioni per cui sono stati assolti da istigazione e aiuto al suicidio sembrano essersi allargate: ma ancora una volta, in assenza di una legge, sono stati i giudici a doverle decidere

Marco Cappato e Mina Welby si abbracciano con gli avvocati dopo l'assoluzione nel processo per la morte di Davide Trentini, Massa, 27 luglio 2020 (ANSA/MANUELA D'ANGELO)
Marco Cappato e Mina Welby si abbracciano con gli avvocati dopo l'assoluzione nel processo per la morte di Davide Trentini, Massa, 27 luglio 2020 (ANSA/MANUELA D'ANGELO)

Lunedì 27 luglio gli attivisti Marco Cappato e Mina Welby sono stati assolti dalla Corte di Assise di Massa dall’accusa di istigazione e aiuto al suicidio per la morte di Davide Trentini, un uomo malato di sclerosi multipla che il 13 aprile del 2017 aveva fatto ricorso al suicidio assistito a Basilea, in Svizzera. Nel dicembre del 2019 Cappato era stato assolto per lo stesso reato per la morte del quarantenne milanese tetraplegico Fabiano Antoniani, più noto come dj Fabo.

Per conoscere le motivazioni della sentenza sarà necessario attendere il deposito del provvedimento, ma tra il caso di Trentini e quello di Antoniani sembra esserci un’importante differenza che ha portato l’associazione Luca Coscioni, di cui Cappato è tesoriere e Welby co-presidente, a dire che è stato fatto un altro piccolo passo in avanti.

La sentenza del 2019 della Corte Costituzionale
La sentenza della Corte Costituzionale su Fabiano Antoniani aveva stabilito che, a determinate condizioni, l’assistenza al suicidio non è punibile; e che la pratica di assistenza al suicidio non è equiparabile all’istigazione al suicidio (equiparazione che fa invece l’articolo 580 del codice penale). La sentenza non era intervenuta direttamente sul diritto al suicidio assistito, ma su chi sceglie di aiutare coloro che hanno deciso di morire. Indirettamente, però, la sentenza ha ammesso il suicidio assistito in condizioni molto circoscritte, e ha chiamato in causa su questo tema il Servizio sanitario nazionale.

Concretamente, la sentenza ha stabilito che in Italia si può aiutare una persona a morire senza rischiare di finire in carcere, se quella persona ha una patologia irreversibile, se la patologia irreversibile le provoca sofferenze fisiche o anche solamente psicologiche per lei intollerabili, se la persona è pienamente capace di decidere liberamente e consapevolmente, e se è tenuta in vita da trattamenti medici di sostegno vitale.

Nella sentenza del 2019, la Corte Costituzionale aveva infine disciplinato anche le condotte di aiuto al suicidio compiute prima della sua pronuncia.

Il caso di Davide Trentini
Nel caso di Trentini, Welby e Cappato (che si erano autodenunciati) sono stati assolti dall’accusa di istigazione al suicidio perché il fatto non sussiste e sono stati assolti dall’accusa di aiuto al suicidio perché in questo caso il fatto non costituisce reato.

Tra il caso di Trentini e quello di Antoniani sembrava però esserci una differenza. Nel caso Trentini erano presenti tutte le condizioni indicate dalla Corte Costituzionale affinché l’assistenza al suicidio non venisse punita, tranne una. Erano presenti la patologia irreversibile fonte di sofferenze intollerabili e la piena capacità di decidere per sé, ma Trentini non era sottoposto a trattamenti di sostegno vitale classicamente intesi, come per esempio la ventilazione assistita, l’idratazione e l’alimentazione artificiale: Trentini non era insomma tenuto in vita da terapie che richiedessero macchinari.

L’anestesista Mario Riccio, consulente di parte di Cappato e Welby, aveva insistito proprio su questo punto durante il processo: la terapia farmacologica contro i dolori e gli spasmi a cui era sottoposto Trentini e quella meccanica per l’evacuazione delle feci costituivano, secondo lui, una terapia di sostegno vitale e la loro interruzione avrebbe compromesso alcune funzioni vitali in modo definitivo, portandolo alla morte.

Filomena Gallo, avvocata di Cappato e Welby e segretaria nazionale dell’associazione Luca Coscioni, ha commentato l’ultima assoluzione dicendo che «è una decisione importante perché chiarisce che il requisito, per il malato, della presenza di trattamenti di sostegno vitale non è limitato alla sola presenza di macchinari ma comprende anche i trattamenti farmacologici e di assistenza come nel caso di Davide, così come dimostrato dalla consulenza tecnica fornita durante il processo».

Si dovranno comunque attendere le motivazioni per poter entrare nel dettaglio e capire se effettivamente i giudici abbiano accolto questa argomentazione. Ma sembra, per ora, che la nuova sentenza abbia interpretato i trattamenti di sostegno vitale non solo come macchinari ma anche come terapie.

E quindi?
Dal gennaio del 2018, in Italia è in vigore la cosiddetta legge sul testamento biologico, che si intitola “Norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari”. Ha stabilito che nessun trattamento sanitario (comprese nutrizione e idratazione artificiali) possa essere iniziato o proseguito senza il consenso «libero e informato» della persona interessata, che può dunque rifiutarsi anche preventivamente, anche se questo dovesse provocargli la morte.

In Italia l’eutanasia attiva (quando è il medico a somministrare il farmaco necessario a morire), il suicidio assistito (quando il farmaco viene assunto in modo autonomo dalla persona), così come l’aiuto al suicidio, sono invece vietati.

Quella della Corte Costituzionale del 2019 era una singola sentenza su un singolo caso, seppur molto importante. In assenza di una legge sono stati di nuovo i giudici a dover decidere sulle circostanze della morte di Davide Trentini. La Corte Costituzionale aveva chiesto al parlamento di intervenire legiferando, cosa che però non è ancora accaduta.