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  • Giovedì 23 luglio 2020

Su Internet fingiamo sempre

E ogni cosa che facciamo o diciamo o mostriamo è una performance più o meno consapevole, racconta Jia Tolentino nel libro "Trick Mirror"

Trick Mirror: Le illusioni in cui crediamo e quelle che ci raccontiamo è una raccolta di nove saggi della giornalista del New Yorker Jia Tolentino, appena pubblicato in Italia da NR Edizioni. Quando uscì negli Stati Uniti, lo scorso agosto, Trick Mirror fu uno dei libri di saggistica di cui si parlò di più e meglio, per la chiarezza e la lucidità con cui Tolentino analizzava alcuni aspetti della vita contemporanea. A partire dalla sua esperienza, Tolentino racconta l’evoluzione di internet e di come utilizziamo i social network, la rincorsa alla fama attraverso la televisione, i modelli femminili dell’infanzia e dell’adolescenza imposti dai libri, gli squilibri del matrimonio e il suo rifiuto, e sette truffe della storia recente americana. Sono argomenti di cui si è scritto a lungo, ma Tolentino ha saputo metterli in ordine con originalità, esaminandoli dall’interno.

Jia Tolentino è nata nel 1988 a Toronto, è cresciuta in Texas e ha origini filippine. Ha lavorato come redattrice del sito femminista Jezebel e poi è passata al New Yorker, dove scrive di musica, libri, internet, femminismo e analizza i fenomeni sociali dei cosiddetti Millennials. Questo è un estratto dal primo capitolo, dove riflette su come la nostra identità si muove su internet e su com’è cambiato fino a diventare un «inferno invivibile».

La copertina dell’edizione originale

 

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La i di io in internet
(Traduzione di Simona Siri)

Nel 1959, il sociologo Erving Goffman espose una teoria dell’identità che ruotava attorno alla recitazione. In ogni interazione umana, scrive ne La vita quotidiana come rappresentazione, una persona deve inscenare una sorta di performance, lasciare un’impressione sul pubblico. La performance può essere calcolata, come il tizio che va a un colloquio di lavoro e si è preparato ogni risposta; può essere inconscia, come il tizio che ha partecipato a così tanti colloqui di lavoro che sa naturalmente cosa richiede la situazione; può essere automatica, come il tizio che fa sugli altri una buona impressione principalmente perché è un uomo bianco della classe medio-alta con un Master in Business Administration. Il tizio che inscena la performance può essere completamente preso dalla sua stessa interpretazione – può effettivamente credere che il suo più grande difetto sia il “perfezionismo” – o può essere consapevole che la sua recita è una finzione. In qualunque caso, la sua è un’esibizione. Anche se smette di provare a esibirsi, ha ancora un pubblico, le sue azioni creano comunque un effetto. “Il mondo non è, ovviamente, tutto un palcoscenico, ma non è facile individuare i modi in cui non lo è”, scrive Goffman.

Comunicare un’identità richiede un certo grado di autoinganno. Un performer, per essere convincente, deve nascondere “i fatti incresciosi che ha dovuto imparare riguardo alla sua performance. Nel contesto della vita quotidiana, ci saranno cose che conosce, o che ha conosciuto, che non sarà in grado di dire a se stesso”. Il tizio al colloquio di lavoro, per esempio, evita di pensare al fatto che il suo più grande difetto in realtà consiste nel bere in ufficio. Un’amica seduta di fronte a te a cena, chiamata a fare la terapista per i tuoi banali rompicapi sentimentali, deve mentire a se stessa, ma in realtà preferirebbe semplicemente andare a casa e infilarsi a letto a leggere Barbara Pym.

Non deve esserci per forza un pubblico fisicamente presente perché il performer si impegni in questo tipo di occultamento selettivo: una donna, sola a casa per il fine settimana, può mettersi a pulire i battiscopa e a guardare documentari sulla natura, anche se preferirebbe mettere a ferro e fuoco il suo appartamento, comprare della droga e avere un’orgia con gente trovata su Craigslist. Spesso le persone assumono delle espressioni in privato, davanti allo specchio del bagno, per convincersi che sono attraenti. La “vivace convinzione che sia presente un pubblico invisibile”, scrive Goffman, può avere un effetto significativo.

Offline, ci sono forme di sollievo integrate in questo processo. Il pubblico cambia: la performance che insceni durante un colloquio di lavoro è diversa da quella che metti in scena più tardi, in un ristorante per il compleanno di un amico, che è a sua volta diversa da quella che metti in scena per il partner a casa. A casa, puoi addirittura pensare di poter smettere del tutto di esibirti; all’interno della cornice drammaturgica di Goffman, puoi sentirti come se fossi tornato nel backstage.

Goffman osserva che abbiamo bisogno sia di un pubblico che assista alle nostre prestazioni, sia di un’area dietro le quinte in cui possiamo rilassarci, spesso insieme a dei “compagni di squadra” che si sono esibiti al nostro fianco. Pensa ai colleghi al bar dopo che hanno consegnato una proposta di vendita o a uno sposo e una sposa nella loro camera d’albergo dopo il ricevimento di nozze: magari si stanno ancora esibendo, ma si sentono a proprio agio, indifesi e soli. Idealmente, il pubblico esterno ha creduto alla performance precedente. Gli invitati al matrimonio sono convinti di aver appena visto una coppia di sposi impeccabili e felici, e i potenziali finanziatori pensano di aver incontrato un gruppo di geni che li renderanno molto ricchi. “Ma questa impressione – questo sé – è il prodotto di una scena che si svolge e non ne è la causa”, scrive Goffman. Il sé non è una cosa fissa, organica, ma un effetto drammatico che emerge da una performance. E a questo effetto si può credere o non credere a piacimento.

Online – supponendo che questo framework vi convinca – il sistema metastatizza in un disastro. La rappresentazione quotidiana del nostro io in internet corrisponde ancora alla metafora della recitazione di Goffman: c’è il palco, c’è un pubblico. Ma internet aggiunge una miriade di altre strutture metaforiche da incubo: lo specchio, l’eco, il panopticon. Mentre ci muoviamo su internet, i nostri dati personali vengono monitorati, registrati e rivenduti da una serie di società: un regime di sorveglianza tecnologica involontaria, che diminuisce inconsciamente la nostra resistenza alla pratica dell’autosorveglianza volontaria sui social media.

Se pensiamo di acquistare qualcosa, quel pensiero ci segue ovunque. Possiamo, e probabilmente lo facciamo, limitare la nostra attività online a siti web che rafforzano ulteriormente il nostro senso di identità, ognuno di noi leggendo cose scritte per persone come noi. Sulle piattaforme social, tutto ciò che vediamo corrisponde alle nostre scelte consapevoli e alle nostre preferenze guidate algoritmicamente, e tutte le notizie, la cultura e le interazioni interpersonali sono filtrate attraverso il punto di partenza del profilo. La follia quotidiana perpetuata da internet è la follia di questa architettura, che posiziona l’identità personale al centro dell’universo. È come se fossimo stati messi a fare la guardia al mondo intero e ci fossero stati dati dei binocoli che ci fanno vedere tutto come il nostro riflesso. Attraverso i social media, molte persone sono rapidamente arrivate a interpretare tutte le nuove informazioni come una sorta di commento diretto su chi sono.

Questo sistema persiste perché è redditizio. Come scrive Tim Wu in The Attention Merchants, il commercio ha lentamente permeato l’esistenza umana: nel diciannovesimo secolo, entrando nelle strade delle nostre città attraverso cartelloni pubblicitari e manifesti, poi, nel ventesimo, entrando nelle nostre case attraverso la radio e la TV. Ora, nel ventunesimo secolo, in quella che sembra essere una fase finale, il commercio è filtrato nelle nostre identità e nelle nostre relazioni. Attraverso il desiderio di replicare per internet chi conosciamo, chi pensiamo di essere e chi vogliamo essere, abbiamo fatto guadagnare miliardi di dollari alle piattaforme social, e lo abbiamo fatto anche attraverso un successivo, crescente bisogno economico e culturale.

L’individualità si piega sotto il peso di questa importanza commerciale. Negli spazi fisici, c’è un pubblico e un lasso di tempo limitato per ogni esibizione. Online, il tuo pubblico può ipoteticamente continuare a espandersi per sempre e le prestazioni possono non finire mai (puoi sostanzialmente partecipare a un infinito colloquio di lavoro). Nella vita reale, il successo o il fallimento di ogni singola esibizione spesso si manifesta sotto forma di azione fisica e concreta: vieni invitato a cena, o perdi l’amicizia, o ottieni il lavoro. Online, la prestazione si ferma per lo più nel regno nebuloso del sentimento, attraverso un flusso ininterrotto di cuori, like e occhi, aggregati in numeri associati al tuo nome.

Ma la cosa peggiore è che praticamente non c’è backstage su internet; mentre il pubblico offline si svuota necessariamente e cambia, il pubblico online non se ne va mai. La versione di te che pubblica meme e selfie per i compagni di classe adolescenti potrebbe finire a litigare con l’amministrazione Trump dopo una sparatoria in una scuola, come è successo ai ragazzi di Parkland, alcuni dei quali sono diventati così famosi che non potranno mai togliersi la maschera. L’io che scambiava battute con i suprematisti bianchi su Twitter è l’io che potrebbe essere assunto, e poi licenziato, dal New York Times, come è accaduto a Quinn Norton nel 2018 (o, nel caso di Sarah Jeong, l’io che faceva battute sulla gente bianca potrebbe diventare vittima del Gamergate dopo essere stata assunta dal Times).

Le persone che mantengono un profilo internet pubblico stanno costruendo un sé che può essere visualizzato contemporaneamente dalla loro madre, dal loro capo, dai loro potenziali capi futuri, dal loro nipote di undici anni, dai loro partner sessuali passati e futuri, dai loro parenti che detestano le loro idee politiche, così come da chiunque si prenda la briga di cercare, qualunque sia il motivo. L’identità, secondo Goffman, è una serie di affermazioni e promesse. Su internet, una persona altamente efficiente è una persona che in ogni momento può promettere tutto a un pubblico che aumenta indefinitamente.

Incidenti come il Gamergate sono in parte una risposta a queste condizioni di ipervisibilità. L’ascesa del trolling, e il suo ethos fatto di mancanza di rispetto e anonimato, è stata così potente in parte perché l’insistenza di internet su un’identità coerente e degna di approvazione è davvero forte. In particolare, la misoginia insita nel trolling riflette il modo in cui le donne – che, come scrisse John Berger, sono sempre state tenute a mantenere una consapevolezza esteriore della propria identità – spesso si fanno strada in questi ambienti online in modo redditizio.

È l’autocalibrazione che ho imparato da ragazza, da donna, che mi ha aiutato a capitalizzare il “dover” essere online. La mia unica esperienza del mondo è quella in cui l’appeal personale è fondamentale e l’autoesposizione è incoraggiata; questo paradigma giustamente sfortunato, fatto proprio prima dalle donne e ora generalizzato da tutta internet, è ciò che i troll detestano e ripudiano attivamente. I troll destabilizzano una rete basata sulla trasparenza e sulla simpatia. Ci riportano indietro verso il caos e l’ignoto.

Ovviamente, ci sono modi migliori di argomentare contro l’ipervisibilità che fare riferimento al trolling. Come Werner Herzog ha detto a GQ, nel 2011, parlando di psicoanalisi: “Dobbiamo mantenere i nostri angoli oscuri e inspiegabili. Diventiamo inabitabili allo stesso modo in cui lo diventa un appartamento quando ogni singolo angolo buio è illuminato, sotto il tavolo, ovunque: non si può più vivere in una casa così”.

(©NR Edizioni 2020)