Il problema dei tamponi a chi è positivo ai test sierologici

Sono obbligatori e nell'attesa è previsto l'isolamento, e questo sta creando preoccupazioni e qualche disagio: e in Lombardia c'è un'ulteriore complicazione coi privati

Una paziente si sottopone al test sierologico a Roma. (Cecilia Fabiano/ LaPresse)
Una paziente si sottopone al test sierologico a Roma. (Cecilia Fabiano/ LaPresse)

Parallelamente all’indagine epidemiologica promossa a livello nazionale dal ministero della Salute, che coinvolgerà 150mila italiani scelti a campione, in molte regioni italiane è possibile sottoporsi volontariamente e privatamente al test sierologico che rileva l’eventuale presenza degli anticorpi alla COVID-19 nel sangue. Da tempo si discute della validità e dell’affidabilità di questo tipo di test, che però sono diventati molto richiesti anche a causa di alcuni fraintendimenti sulla loro effettiva utilità.

In particolare, ci sono state segnalazioni di problemi legati a una delle implicazioni pratiche di sottoporsi a un test sierologico: se il risultato è positivo, e quindi il test ha rilevato la presenza di anticorpi nel sangue, il ministero della Salute raccomanda di sottoporre il paziente al tampone naso-faringeo, che rileva l’effettiva presenza del virus nell’organismo. Nel frattempo il paziente è soggetto all’isolamento fiduciario, e quindi deve rimanere isolato in casa dai conviventi, astenersi dai contatti sociali e assentarsi dal lavoro. In caso di violazioni possono essere previste sanzioni amministrative.

Ma se l’esecuzione del tampone in certi casi avviene molto rapidamente, in altri passano diversi giorni, creando disagi alle persone coinvolte. È ancora difficile stimare quanto sia esteso il problema, e le testimonianze di percorsi efficienti sembrano la grande maggioranza. I test sierologici sono poi nelle loro primissime fasi, ed è probabile che le cose migliorino col tempo. Ma quello dell’isolamento fiduciario troppo lungo è un rischio che ha dissuaso molte persone dal sottoporsi al test, e che peraltro sembra aver reso un po’ più complicata l’indagine promossa dal ministero della Salute, molto importante a livello scientifico.

Per la Regione Lombardia ci sono poi ulteriori problemi, che dipendono dal fatto che la responsabilità del tampone ai soggetti che hanno fatto il test sierologico privatamente non è affidata alle ATS (le ASL locali) bensì agli stessi laboratori privati.

Premessa: fare il test sierologico serve?
Dipende. L’utilità più riconosciuta ai test sierologici riguarda il loro utilizzo per indagini epidemiologiche. Come avevamo spiegato più estesamente qui, servono a ricercare la presenza nel sangue di alcuni tipi di Ig (immunoglobuline), prodotte dall’organismo come risposta a un’infezione, come quella da coronavirus. Se si risulta positivi a questi valori dopo un test sierologico, quindi, si può dire con una relativa dose di sicurezza di essere venuti a contatto con il coronavirus. Se si risulta negativi, molto probabilmente non si è mai stati contagiati.

Questo tipo di risultato può essere utile se considerato in grandi numeri come quelli dell’indagine del ministero della Salute, per stimare quante persone siano state realmente contagiate sul territorio nazionale e in certe aree specifiche. Come è noto, le operazioni di test tramite tamponi sono state molto limitate, soprattutto in zone come la Lombardia, e i test sierologici possono aiutare a capire quanto sia stato realmente esteso il contagio.

– Leggi anche: La complicata questione dei test sierologici

Ma a livello individuale, il test sierologico dà risultati meno significativi. Non serve infatti a capire se si è infetti in un dato momento e quindi potenzialmente contagiosi: un risultato positivo può voler dire che si ha avuta la COVID-19 settimane prima, e che quindi si è guariti e sani, ma può anche significare che si è ancora infetti nel momento del test, e che quindi si è pericolosi per gli altri, pure se non si hanno sintomi. Un risultato negativo, allo stesso modo, significa che probabilmente non si è mai avuto il coronavirus, ma c’è sempre la possibilità che si sia stati infettati soltanto da qualche giorno, e che quindi l’organismo non abbia ancora prodotto anticorpi in quantità rilevanti.

Un’operatrice sanitaria con due buste piene di provette di sangue per i test sierologici eseguiti a Cisliano, vicino a Milano.(Claudio Furlan/LaPresse)

I test sierologici privati funzionano diversamente, a seconda della regione
Come segnalato da tempo, il problema con i test sierologici è che le regioni si stanno muovendo in ordine sparso: sia nel tipo di test autorizzati – ne esistono diversi, più o meno affidabili – sia nelle modalità di accesso. Se l’indagine del ministero riguarda tutta l’Italia, non tutte le regioni permettono di sottoporsi volontariamente, a livello individuale e tramite strutture private, al test sierologico. In Emilia-Romagna, per esempio, i privati possono farlo individualmente solo su prescrizione del medico di base, che ne valuta l’opportunità. In Piemonte e in Lombardia, invece, ci si può sottoporre volontariamente anche solo per curiosità, nonostante entrambe le regioni lo sconsiglino esplicitamente.

Anche in Puglia è necessaria la prescrizione medica, mentre in Sicilia sono state previste fasi diverse che permetteranno pian piano anche ai privati di sottoporsi ai test autonomamente. In Campania sono già possibili da settimane e senza prescrizione medica, come in Toscana, mentre è necessaria per esempio nelle Marche e in Friuli Venezia Giulia.

– Leggi anche: Come il Regno Unito traccia i contagi

Il tampone per i positivi può essere un problema
Se si è fatto un test sierologico e si risulta positivi alla presenza di anticorpi, il ministero della Salute raccomanda di fare il tampone per verificare se la persona è ancora ammalata e quindi contagiosa. Questo non è obbligatorio a livello nazionale, ha confermato il ministero al Post, ma le regioni hanno recepito le direttive rendendolo tale.

In tutte le regioni, i laboratori privati che fanno i test sierologici comunicano all’ASL di competenza, oppure al medico di famiglia del paziente, l’eventuale risultato positivo: e dappertutto tranne che in Lombardia e prossimamente in Friuli Venezia Giulia, la pratica del tampone passa a quel punto alle aziende sanitarie, che aggiungono il nominativo alla lista delle persone da contattare per eseguire il test. Nel frattempo il paziente è sottoposto all’isolamento fiduciario, analogo a quello di chi presenta sintomi compatibili alla COVID-19 e si rivolge al proprio medico di famiglia che prescrive il tampone.

Questo passaggio può essere molto rapido: nel giro di pochi giorni, o spesso anche il giorno stesso, il paziente risultato positivo al test sierologico va a fare il tampone in un laboratorio autorizzato, ottenendo il risultato nel giro di 24 o 48 ore. Se è positivo, scatta la quarantena; se è negativo, la questione finisce qui. Sui social network in questi giorni si sono accumulate molte testimonianze di percorsi rapidi ed efficienti, con test sierologici privati e successivi tamponi fatti dalle ASL nel giro di pochi giorni: in Emilia-Romagna, in Toscana o in Lazio, per esempio.

Ma ci sono già state segnalazioni di pazienti che devono aspettare diversi giorni prima di ottenere il tampone, anche nelle stesse regioni in cui altri pazienti hanno segnalato esperienze rapide e positive. Confindustria Toscana, per esempio, ha detto che i lavoratori di alcune aziende sottoposti ai test sierologici hanno dovuto aspettare anche una decina di giorni prima del tampone, durante il quale non sono potuti andare al lavoro. In Emilia-Romagna, spiega il Resto del Carlino, le adesioni agli screening coi test sierologici sono state basse perché la misura dell’isolamento fiduciario in attesa del tampone ha scoraggiato molta gente, preoccupata dal doversi assentare per giorni dal lavoro prendendo così ferie.

– Leggi anche: Non sarà difficile solo trovarlo, il vaccino

Sky TG24 ha segnalato il caso del comune di Solto Collina, in provincia di Bergamo, dove i tamponi per chi è risultato positivo al sierologico in un laboratorio privato richiedono un mese di attesa, durante i quali i pazienti devono considerarsi in isolamento fiduciario: e quindi smettere di uscire di casa e allontanarsi il più possibile dai propri familiari, senza andare al lavoro.

L’impressione quindi è che i tempi in cui viene fatto il tampone a chi risulta positivo al sierologico siano assai variabili a seconda della ASL di riferimento e del momento: se in molti casi l’intero processo è gestito con rapidità, in altri può richiedere diversi giorni, con grossi disagi per chi deve stare in isolamento fiduciario, e deve per esempio prendere ferie dal lavoro. La permanenza domiciliare fiduciaria, da decreto, prevederebbe i permessi per malattia ma nella pratica questo non avviene sempre. Per gli autonomi, poi, significa spesso interrompere la propria attività.

Le conseguenze sull’indagine nazionale
Questo sembra aver dissuaso una certa percentuale delle persone contattate dalla Croce Rossa per l’indagine promossa dal ministero della Salute. Michele Bonizzi, responsabile Area Salute presso Associazione della Croce Rossa, ha spiegato al Post che finora sono state fatte circa 31.500 chiamate, e le risposte positive sono state sopra al 30 per cento; circa il 50 per cento ha chiesto di essere richiamato, mentre il 20 per cento ha preferito non sottoporsi al test sierologico per l’indagine. Bonizzi ha spiegato che non si sa quante persone abbiano declinato per timore dell’isolamento fiduciario, ma ha confermato che questa sia una preoccupazione di una parte dei cittadini.

Gli operatori della Croce Rossa incaricati di contattare i volontari per l’indagine epidemiologica. (ANSA/US Croce Rossa Italiana)

La Croce Rossa però non ha dati sulle tempistiche dei tamponi per i positivi al sierologico, né può dare garanzie, essendo una pratica interamente in mano alle aziende sanitarie locali. La misura dell’isolamento fiduciario in attesa del tampone è una misura prudenziale, ma non è detto che debba essere l’unica, spiega Bonizzi. Le regioni potrebbero per esempio raccomandare soltanto l’applicazione rigorosa delle misure igieniche e di distanziamento, per chi risulta positivo al sierologico, disponendo nel frattempo percorsi preferenziali di accesso al tampone per chi aderisce all’indagine.

– Leggi anche: Quanto si rischia il contagio all’aperto

In Lombardia è ancora più complicato
In Lombardia le cose funzionano diversamente per i test sierologici privati. La Regione infatti prevede che i tamponi successivi ai test sierologici positivi fatti privatamente siano responsabilità degli stessi laboratori privati. I laboratori devono quindi garantire di poter eseguire il tampone almeno sul 10 per cento dei pazienti che sottopongono ai test sierologici, proprio per evitare attese troppo lunghe. In certi casi, come per esempio l’Humanitas di Rozzano, vicino a Milano, i laboratori privati che fanno il test sierologico possono eseguire e analizzare i tamponi autonomamente. Ma la maggior parte dei laboratori che fanno i test sierologici non hanno gli strumenti per analizzare i tamponi, e devono quindi provvedere a fare accordi con uno o più dei laboratori accreditati dal ministero della Salute.

Una delle due delibere dedicate della Regione Lombardia, peraltro, prevede che i laboratori accreditati che vogliono dedicarsi anche ai tamponi dei privati garantiscano un aumento della capacità di analisi che preveda un massimo del 20 per cento dei tamponi per il sistema privato, assicurando l’80 per cento a quelli del sistema pubblico (e quindi decisi dalle ATS, per esempio ai contatti di casi confermati, agli operatori sanitari o nelle RSA).

I tamponi fatti dopo i test sierologici privati, specifica la Lombardia, sono a carico dell’utente, e hanno un costo consigliato di 63 euro, che però quasi sempre è superiore anche di diverse decine di euro. La Regione ha già detto che rimborserà il prezzo del tampone nel caso in cui risulti positivo: ma a oggi, segnalano i laboratori, non ci sono ancora i moduli per questa operazione. Tutte queste informazioni, compresa l’obbligatorietà del tampone in caso di risultato positivo, devono essere comunicate chiaramente al cittadino prima del test sierologico.

C’è però un vuoto normativo nelle due delibere regionali (una e due) che regolano i test sierologici privati: i laboratori privati infatti non possono obbligare legalmente gli utenti risultati positivi al test sierologico a fare il tampone. Se per esempio una persona si rivolge a un laboratorio privato per togliersi il dubbio se la tosse e la febbre avute a inizio marzo fossero COVID-19, potrebbe realisticamente ottenere un risultato positivo nel sierologico. Il laboratorio gli proporrebbe quindi la data per il tampone, che, essendo probabilmente negativo, il paziente dovrebbe pagare autonomamente. Se si rifiuta, e questo è capitato e sta capitando, il laboratorio privato non ha ovviamente l’autorità per obbligarlo.

A questo punto entra in gioco l’ATS. La delibera regionale specifica soltanto che i laboratori privati devono garantire la possibilità di fare il tampone ai positivi ai sierologici, e informare i pazienti sull’obbligatorietà dello stesso. Specifica anche che, in caso di positività al sierologico, il laboratorio privato deve segnalare il paziente all’ATS locale, includendo oltre ai dati anagrafici la data prevista per il tampone. Da quel momento scatta il meccanismo della sorveglianza di caso sospetto, e spetterebbe quindi all’ATS rintracciare la persona per verificare se si è sottoposta al tampone nella struttura privata, e in caso negativo di fargliene fare uno tramite il sistema pubblico.

Ma come è noto, diverse ATS lombarde hanno avuto problemi a fare i tamponi e anche solo a tenere traccia di tutte le persone che ne avrebbero bisogno, per esempio perché con sintomi compatibili con la COVID-19 o perché contatti stretti o addirittura conviventi di casi positivi confermati. Nella maggior parte delle province ora la situazione è assai migliorata rispetto alle fasi più acute dell’emergenze, ma ci sono ancora frequenti segnalazioni di problemi con i registri delle persone da contattare per il tampone.

Sentite dal Post, diverse ATS lombarde hanno ammesso che i protocolli per questo tipo di casistica non sono chiari. «È il Far West», ha detto un’ATS, confermando che non c’è un obbligo tassativo per i centri privati per fare il tampone autonomamente. C’è una zona grigia, ha confermato un’altra ATS lombarda: la responsabilità del sistema sanitario pubblico comincia chiaramente in caso di tampone fatto privatamente e risultato positivo, ma nella fase precedente non è molto chiaro cosa debba succedere.

La Regione Lombardia ha spiegato al Post che nel momento in cui una persona decide di fare il sierologico si impegna anche a fare il tampone in caso di positività, firmando un modulo di consenso informato: se si rifiuta, e continua a comportarsi come se niente fosse, è come se violasse l’isolamento fiduciario. La Regione ha chiarito che finora le ATS non hanno ricevuto segnalazioni per casi di persone che non hanno fatto il tampone dopo il sierologico positivo.

Il Post ha contattato diversi centri privati che offrono questo servizio in Lombardia: la maggior parte dice che il tampone, in caso di sierologico positivo, è obbligatorio per legge e deve essere fatto presso le loro strutture. Spiegano anche che la segnalazione del risultato positivo del sierologico viene fatta all’ATS, a cui spetta poi il compito di provvedere a rintracciare la persona e assicurarsi che abbia fatto il tampone. Un laboratorio di Sondrio, invece, ha detto che il tampone è facoltativo anche in caso di sierologico positivo, confermando che c’è ancora una certa confusione.

Il Centro Medico SantAgostino, una delle più grandi reti di poliambulatori lombardi, ha spiegato che una parte minoritaria dei pazienti che hanno fatto il sierologico e sono risultati positivi ha scelto di non fare il tampone presso la loro struttura. Loro però non possono obbligarli: il modulo che fanno firmare dice esplicitamente che è un obbligo regionale, e spiega che se il paziente vuole farlo tramite il sistema pubblico deve rivolgersi al proprio medico di famiglia.