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  • Domenica 26 aprile 2020

Le accuse all’OMS sono fondate?

Sia Trump che altri sostengono che sia subalterna alla Cina, ma secondo gli esperti ha fatto quello che poteva nonostante la scarsa collaborazione cinese: i veri ritardi sono stati altri

(EPA/SALVATORE DI NOLFI)
(EPA/SALVATORE DI NOLFI)

Il 14 aprile il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato di voler sospendere temporaneamente i finanziamenti all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), in attesa di un’indagine che ne verificasse «il ruolo nella cattiva gestione e insabbiamento della diffusione del coronavirus». È stato un attacco molto grave all’OMS, accusata da Trump di essersi sostanzialmente piegata ai tentativi della Cina di nascondere inizialmente la gravità di quella che sarebbe diventata la più grave crisi sanitaria dal dopoguerra.

Al di là della dichiarazione di Trump, negli ultimi mesi l’OMS ha ricevuto simili accuse da più parti: tra gli altri, per esempio, il vice primo ministro giapponese Taro Aso ha sostenuto che debba essere rinominata “China Health Organization”. I media conservatori americani, compresi quelli più rispettati e autorevoli come il Wall Street Journal, hanno duramente attaccato l’organizzazione citandone la presunta complicità con la Cina e i ritardi nella risposta all’emergenza.

Varie ricostruzioni negli ultimi giorni hanno smentito la versione di Trump ridimensionando le colpe dell’OMS, che pure secondo qualche esperto ci sono state. L’organizzazione, segnalano tanti esperti, si è ritrovata nella complicata posizione di dover collaborare con la Cina, il cui comportamento nelle prime settimane dell’epidemia sembra essere stato indirizzato principalmente a contenere i danni economici, più che alla condivisione di informazioni con la comunità scientifica internazionale. Un’analisi più approfondita della cronologia dei provvedimenti dell’OMS e delle conseguenti misure prese dai singoli stati, in ogni caso, suggerisce che i maggiori ritardi nella risposta al coronavirus siano da attribuire ai governi.

Il tweet del 14 gennaio
Il 12 gennaio la Cina condivise con l’OMS la sequenza genetica del virus, e pochi giorni dopo l’OMS propose di inviare una squadra per investigarlo: la Cina però rifiutò. Gli esperti concordano che l’OMS non poteva imporsi in questa situazione, ma qualcuno sostiene che col senno di poi avrebbe dovuto fare maggiori pressioni per ottenere il permesso di verificare la situazione sul campo. Nella sua decennale esperienza di lotta alle epidemie, però, l’OMS non si era ancora ritrovata in una posizione così delicata nei confronti di una nazione potente quanto la Cina, che non poteva assolutamente essere alienata se si voleva sperare in una futura collaborazione: non solo per l’epidemia da coronavirus, ma anche per quelle che verranno in futuro.

Due giorni dopo, il 14 gennaio, l’immunologa americana Maria Van Kerkhove, responsabile tecnica della risposta dell’OMS al coronavirus, aveva tenuto una conferenza stampa avvertendo del rischio di una diffusione molto rapida del nuovo coronavirus. Secondo un’informata ricostruzione del Guardian, dopo la conferenza stampa un funzionario di medio livello dell’OMS, preoccupato che questa valutazione contraddicesse quanto comunicato fino a quel momento dalla Cina, chiese ai responsabili dei social media dell’organizzazione di scrivere un tweet che bilanciasse le affermazioni di Van Kerkhove. Il tweet recitava: «le prime indagini condotte dalle autorità cinesi non hanno trovato prove certe della trasmissione da persona a persona del coronavirus». Questo tweet è uno degli argomenti più citati da chi critica la comunicazione dell’OMS nelle prime fasi dell’epidemia.

Il tweet, all’epoca, diceva una cosa vera soltanto ufficialmente. Per quanto oggi ci sia il forte sospetto che il governo cinese fosse all’epoca già consapevole della probabile trasmissione del nuovo coronavirus tra gli esseri umani, le indagini ufficiali cinesi continuavano a negarlo. In ogni caso, già dal 10 gennaio l’OMS suggeriva ai governi di comportarsi come se fosse stata accertata la trasmissione tra le persone, dato che si stava parlando di un’infezione respiratoria.

La prima ammissione da parte della Cina del reale rischio rappresentato dal coronavirus sarebbe arrivata alcuni giorni dopo, il 20 gennaio, quando il più famoso epidemiologo del paese, Zhong Nanshan, fece un discorso televisivo per spiegare che le autorità locali di Wuhan avevano nascosto la gravità dell’epidemia, che il contagio tra persone era rapido, che i medici stavano morendo e che tutti dovevano evitare Wuhan.

Zhong era stato mandato nell’Hubei dal governo cinese. Eccentrico 83enne che aveva coordinato la risposta all’epidemia di SARS nel 2002, Zhong era una delle poche persone abbastanza autorevoli per dare pubblicamente del bugiardo a Zhou Xianwang, sindaco di Wuhan, promettente funzionario del partito comunista cinese. Secondo quanto ricostruito dal New York Times, Zhou aveva minacciato i dottori che denunciavano la gravità del coronavirus e assicurato alla popolazione che la trasmissione del contagio era molto limitata, per evitare di annullare un congresso locale del partito e un pasto collettivo che il 18 gennaio coinvolse 40mila famiglie residenti a Wuhan, e che oggi è considerato uno dei momenti in cui il virus si diffuse di più in città.

La data più importante: il 22 gennaio
L’OMS, fondata dall’ONU nel 1946, è l’unica organizzazione internazionale con le risorse e l’autorevolezza necessaria per coordinare una risposta globale a un’emergenza come il coronavirus – motivo per cui in tanti hanno criticato la decisione di Trump di interrompere i finanziamenti – ma non ha nessun tipo di giurisdizione sui singoli stati, che possono decidere se e quanto seguire le sue raccomandazioni. Quando c’è un’epidemia, i suoi esperti si ritrovano periodicamente – fisicamente o in teleconferenza – per condividere analisi e previsioni e vengono decisi i provvedimenti.

Il 22 gennaio il comitato di emergenza dell’OMS discusse se dichiarare o no una “emergenza sanitaria di rilievo internazionale” (PHEIC), una dichiarazione formale che avvertisse il mondo della gravità di una nuova minaccia alla salute pubblica. Negli ultimi dieci anni ci sono state sei dichiarazioni di questo tipo: per la febbre suina nel 2009, per la poliomielite e per ebola nell’Africa occidentale nel 2014, per Zika nel 2016, per ebola nel Congo nel 2019. Gli stati sono legalmente vincolati ad adeguarsi alle dichiarazioni di questo tipo, ma le risposte possono variare moltissimo a seconda dell’importanza attribuita dai singoli governi alla minaccia sanitaria.

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La riunione del 22 gennaio arrivava quasi un mese dopo le prime segnalazioni di una nuova polmonite virale identificata a Wuhan, e dopo settimane in cui le informazioni raccolte dall’OMS sull’epidemia cinese erano state condivise con i vari governi. A quel punto anche la Cina aveva ammesso la pericolosità del virus e la sua facile trasmissibilità tra le persone. La dichiarazione di una PHEIC avrebbe avuto un forte valore simbolico, ma dopo che gli esperti internazionali presentarono le loro posizioni, i membri del comitato si divisero. Chi era a favore della dichiarazione citava l’aumento dei contagi e le prove sempre più evidenti della gravità della COVID-19; chi era contrario citava le misure prese dalla Cina per contenere il virus, e il basso numero di casi registrati all’estero.

Tedros Adhanom Ghebreyesus, l’etiope direttore generale dell’OMS, aggiornò la riunione al giorno successivo. Il 23 gennaio c’erano ufficialmente 581 casi di contagio confermati in Cina e 10 all’estero: quel giorno la Cina prese la decisione di isolare Wuhan e altre città della provincia dell’Hubei, nella più imponente quarantena imposta nella storia. Secondo una fonte citata dal Wall Street Journal, la Cina fece pressioni sull’OMS perché non dichiarasse l’emergenza internazionale. Tedros ha detto che la Cina presentò la sua posizione, ma non fece pressioni: «E se anche le avesse fatte, non sarebbe cambiato niente». Gli avvertimenti di Zhong erano arrivati tre giorni prima, l’isolamento dell’Hubei il giorno stesso, ma sempre il 23 gennaio Tedros disse che non c’erano ancora prove di una rilevante diffusione del virus fuori dalla Cina. «Non fraintendetemi: è un’emergenza in Cina, ma non lo è ancora diventata a livello globale. Ma potrebbe diventarlo».

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Se il comitato era diviso a metà, in ogni caso, significa che almeno alcuni paesi occidentali erano d’accordo con la valutazione cinese: gli esperti presenti alla riunione provenivano da Stati Uniti, Thailandia, Russia, Francia, Corea del Sud, Canada, Giappone, Paesi Bassi, Australia, Senegal, Singapore, Arabia Saudita, Svezia e Nuova Zelanda, ha scritto il Guardian.

Tedros, che ne aveva la facoltà, decise di non contraddire il voto del comitato. Lawrence Gostin, direttore dell’ente dell’OMS che si occupa di leggi sanitarie internazionali, ha detto al Guardian che Tedros sentiva di dover avere un voto unanime dal comitato, o perlomeno una schiacciante maggioranza, per una dichiarazione così importante. L’indecisione di quella prima riunione, dovuta alle conseguenze di una dichiarazione d’emergenza sulla Cina, è stata interpretata come l’ennesima dimostrazione della difficoltà dell’ONU e delle sue agenzie di prendere decisioni tempestive e condivise tra i suoi membri.

Tedros decise intanto di andare di persona in Cina per verificare la situazione, convocando una nuova riunione per dieci giorni dopo. Volò in Cina per incontrare il presidente Xi Jinping il 28 gennaio, quando i casi confermati erano 4.537 in Cina e 56 all’estero, e lodò pubblicamente la gestione cinese dell’epidemia. Dopo il suo viaggio in Cina, Tedros convocò nuovamente il comitato, che questa volta dichiarò l’emergenza internazionale: era il 30 gennaio, una settimana dopo la prima riunione. La diffusione del virus tra persone era stata confermata fuori dalla Cina, e le preoccupazioni per una diffusione globale erano ormai molto alte.

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L’OMS si è piegata alla Cina?
Gostin ha provato a riassumere al New York Times qual è stato l’atteggiamento dell’OMS nelle prime settimane dell’epidemia: «Il modo indulgente di metterla è che l’OMS non aveva i mezzi per verificare quanto stesse accadendo sul campo. Il modo meno indulgente è che l’OMS non ha fatto abbastanza per verificare quello che diceva la Cina, e ha preso per buona la sua versione».

Le parole di apprezzamento di Tedros alla Cina sono state interpretate da molti esperti come un tentativo diplomatico di ottenerne la necessaria collaborazione: non è detto che un approccio più duro, che accusasse Xi di nascondere informazioni, avrebbe ottenuto più trasparenza. Negli stessi giorni, peraltro, anche Trump si era congratulato con quello che stava facendo la Cina per contenere il coronavirus. Il 23 gennaio l’OMS stava infatti ancora provando a convincere la Cina a consentire l’ingresso nel paese a una squadra di esperti, cosa che non sarebbe successa per altre tre settimane. «Evidentemente Tedros e l’OMS decisero di mordersi la lingua e di convincere la Cina a uscire dal suo guscio, cosa che poi è in parte successa», ha detto al New York Times Amir Attaran, docente di legge e salute pubblica all’Università di Ottawa.

La Cina è stata estesamente accusata dai governi e dai media internazionali di aver intenzionalmente nascosto la gravità dell’epidemia, e aver trattenuto informazioni che sarebbero state importanti per la comunità scientifica internazionale. Uno degli esempi più evidenti di questo atteggiamento fu la detenzione di Li Wenliang, uno tra i primi medici che avevano avvertito della minaccia, che poi si ammalò e morì di COVID-19. Ma più recentemente diversi esperti hanno fatto notare come bilanci di contagi e morti ampiamente sottostimati siano stati forniti anche da molti governi occidentali, compresi Italia e Stati Uniti. Monitorare un’epidemia è un’operazione molto complessa, e lo è di più se si è il primo posto a essere colpiti, e per giunta da un virus sconosciuto.

Blocchi sui voli
A fine gennaio l’Italia chiuse i voli diretti dalla Cina. Il 2 febbraio gli Stati Uniti li ridussero molto, seguiti da molti altri paesi che sono arrivati a quasi un centinaio. Nelle settimane seguenti l’OMS aveva ricevuto molte critiche perché aveva sconsigliato il blocco dei voli, sostenendo che non fosse un mezzo scientificamente provato per contenere le epidemie. In realtà, infatti, raggiungere l’Italia dalla Cina aveva continuato a essere possibile con un semplice scalo, peraltro complicando gli eventuali sforzi per identificare gli ingressi a rischio. Anche negli Stati Uniti si stima che circa 40mila persone siano arrivate dalla Cina dopo il divieto, oltre alle 430mila arrivate dopo la scoperta del coronavirus ma prima del blocco.

L’OMS non criticò esplicitamente le decisioni dei paesi che avevano bloccato i voli, e non tutti gli esperti sono concordi che indicazioni diverse avrebbero contenuto meglio l’epidemia (il grosso si poteva fare, ed è stato in parte fatto, limitando i movimenti in uscita da Wuhan). Ma c’è chi oggi crede che se l’OMS avesse raccomandato la chiusura dei voli dalla Cina l’epidemia forse sarebbe stata ritardata: «Il messaggio dell’OMS che no, non bisognava andare nel panico, che i viaggi potevano continuare e i confini potevano restare aperti, e il sostegno al governo cinese, è stato contraddittorio», ha detto al Wall Street Journal Kelley Lee, docente alla Simon Fraser University, in Canada, collaboratrice dell’OMS e autrice di un libro sull’organizzazione.

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Anche Adam Kamradt-Scott, docente di salute globale all’Università di Sydney, ha detto a Vox che maggiori blocchi agli spostamenti e ai commerci «avrebbero potuto ritardare l’arrivo del virus». Secondo Kamradt-Scott l’OMS rivedrà le sue linee guida sul tema in futuro: «è spinoso. Crea problemi economici, ma se può aiutare gli stati a guadagnare tempo forse è giustificato».

I maggiori ritardi sono stati altri
La maggior parte delle critiche arrivate all’OMS, in ogni caso, si riferiscono al ritardo avvenuto tra la prima riunione che avrebbe potuto dichiarare l’emergenza internazionale e quella in cui è stata effettivamente decisa, una settimana dopo. Sette giorni in una pandemia possono fare la differenza tra la vita e la morte di migliaia di persone, e sul collasso di interi ospedali: ma molti esperti non sono convinti che sia questo il caso.

Secondo Gostin, «l’OMS avrebbe dovuto farlo un po’ prima, ma non penso che abbia fatto una grande differenza». Fin dal 22 gennaio, due giorni dopo che la Cina ammise la gravità dell’emergenza, Tedros cominciò a tenere conferenze stampa quasi quotidiane sottolineando costantemente la necessità che gli stati prendessero seriamente l’epidemia e ricorressero alle misure necessarie per anticipare i pericoli, preparandosi allo scenario peggiore. Il Guardian scrive che le videoconferenze tra funzionari governativi internazionali – compresi quelli statunitensi – e l’OMS cominciarono il 7 gennaio, e dal 10 gennaio contennero avvertimenti sul rischio di trasmissione del virus tra persone.

Sul New York Times, l’esperto di epidemie

La maggior parte degli esperti che sono intervenuti sui principali media statunitensi ha sostenuto che Trump abbia tentato semplicemente di scaricare la colpa sull’OMS, attribuendole la responsabilità della mancata preparazione al coronavirus. Già a gennaio il consigliere di Trump Peter Navarro avvertì il presidente che il virus avrebbe potuto uccidere mezzo milione di americani, eppure ancora il 27 febbraio Trump disse che il virus «sarebbe scomparso» da solo. Per un mese, dopo la dichiarazione della PHEIC, Trump ha continuato a minimizzare i rischi dovuti all’epidemia, accumulando un grande ritardo nella preparazione del sistema sanitario, emerso poi con i problemi nelle operazioni di test sulla popolazione, negli approvvigionamenti di dispositivi di protezione sanitaria e di strumentazioni e posti letto nei reparti di terapia intensiva.

In Italia, gli amministratori locali e il ministero della Salute hanno spesso detto di essersi attenuti rigorosamente alle direttive dell’OMS nel fare i test sulla popolazione. Andrea Crisanti, microbiologo dell’Università di Padova che ha coordinato la risposta del Veneto all’epidemia, ha criticato l’OMS per non aver raccomandato da subito i tamponi agli asintomatici. Ma il problema, in regioni come la Lombardia e il Piemonte, è stato soprattutto un altro: e cioè che i tamponi sono stati fatti soltanto a una parte dei sintomatici, quelli più gravi e principalmente quelli ricoverati in ospedale.

In molte regioni gli sforzi per aumentare l’approvvigionamento dei reagenti e la capacità dei laboratori per analizzare i tamponi sono stati tardivi, e principalmente successivi all’arrivo del virus in Italia. Il Veneto, invece, si era attivato fin da fine gennaio, dopo i primi avvertimenti dell’OMS: ed è stata infatti la regione – tra quelle più colpite – che ha contenuto meglio l’epidemia, anche grazie a un sistema sanitario più attento alla medicina territoriale e alla gestione dei ricoveri ospedalieri. La maggior parte delle direttive e dei provvedimenti ministeriali sul coronavirus, così come l’applicazione dei protocolli di sicurezza negli ospedali, risale alla fine di febbraio. Ed è accertato che in Lombardia alcuni ospedali siano stati tra i principali focolai dell’epidemia. In molte RSA, dove il coronavirus ha ucciso migliaia di anziani, le precauzioni necessarie furono poi adottate soltanto a inizio marzo.

Quando infine l’11 marzo l’OMS dichiarò quella da coronavirus una pandemia, ricorse a una soluzione più che altro formale: ancora in quell’occasione Tedros disse che era una misura necessaria perché molti paesi non stavano prendendo abbastanza seriamente l’epidemia.