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  • Sabato 25 aprile 2020

La pandemia ci renderà più sensibili al cambiamento climatico?

Tra chi si occupa di politiche ambientali c'è un grande dibattito: e sia gli ottimisti che i pessimisti hanno buoni argomenti

La centrale elettrica di Drax, in Inghilterra, il 2 marzo 2020; è la più grande centrale elettrica del Regno Unito – produce il 5 per cento dell'elettricità del paese – e dal marzo 2021 dovrebbe smettere di usare il carbone come combustibile (Christopher Furlong/Getty Images)
La centrale elettrica di Drax, in Inghilterra, il 2 marzo 2020; è la più grande centrale elettrica del Regno Unito – produce il 5 per cento dell'elettricità del paese – e dal marzo 2021 dovrebbe smettere di usare il carbone come combustibile (Christopher Furlong/Getty Images)

La pandemia di COVID-19 e il cambiamento climatico hanno alcune cose in comune. Si sono sviluppati a causa del rapporto tra le persone e la natura nelle società moderne. Sono un problema di scala mondiale, sebbene più grave in alcuni paesi più che in altri, responsabile della morte di molte persone. Non possiamo vedere ciò che li causa (un virus, le emissioni di gas) e per entrambi dovremmo, o avremmo dovuto, essere più preparati.

C’è quindi chi pensa che affrontando la pandemia l’umanità imparerà ad affrontare il cambiamento climatico e a combatterlo più efficacemente di quanto abbia fatto finora: l’idea che ci sia un “nemico invisibile” diventerà molto più convincente. Ma c’è anche chi pensa che dopo la fine della pandemia la lotta al cambiamento climatico potrebbe rallentare: tra gli ambientalisti e chi si occupa di politiche ambientali e ricerche sul clima è in corso un dibattito su cosa succederà alla fine della crisi sanitaria.

Il punto di vista ottimista
Bill Gates, noto imprenditore e filantropo statunitense, è uno di quelli che pensano che la pandemia possa insegnarci qualcosa su come frenare il cambiamento climatico. Durante una conversazione con il creatore delle conferenze TED a fine marzo, Gates ha detto che la diffusione della COVID-19 ci ha fatto capire quanto siano importanti l’innovazione, la scienza e la collaborazione internazionale: cose necessarie anche per poter adottare politiche ambientali efficaci.

Un’altra idea degli ottimisti è che la pandemia abbia fatto capire ai politici quanto sia importante prendere sul serio certi rischi soltanto apparentemente lontani e legati allo stile di vita delle società contemporanee: per questo in futuro potrebbero essere più cauti e coscienziosi prima di sminuire la gravità dei problemi ambientali. Anche le persone comuni potrebbero essersi sensibilizzate ai segnali di allarme dati dagli scienziati, e questo potrebbe portare a un maggior coinvolgimento nelle richieste di politiche ambientaliste.

Tra gli ottimisti si può includere Fatih Birol, il presidente dell’Agenzia internazionale dell’energia: un’organizzazione legata all’OCSE e fondata dopo la crisi petrolifera del 1973. In un intervento pubblicato il 19 marzo ha sottolineato che anche se saranno gravi, gli effetti della pandemia saranno temporanei, mentre quelli del cambiamento climatico, se non si prenderanno contromisure adeguate, saranno in una certa misura irreversibili. Per questo ha invitato i governi a cogliere la «storica opportunità di indirizzare gli investimenti nel campo energetico verso un cammino più sostenibile» e accelerare la transizione all’uso di fonti di energia rinnovabile. Secondo Birol l’abbassamento del prezzo del petrolio di questi mesi è a sua volta un’opportunità: per cancellare i sussidi per l’acquisto di carburante presenti in vari paesi.

Alcune importanti società finanziarie dicono cose simili, e ritengono che, come reazione alla crisi attuale, sarà possibile fare alcuni cambiamenti che fino a poco tempo fa sembravano impossibili da mettere in pratica. Secondo un sondaggio tra gli investitori della banca d’affari Morgan Stanley, la pandemia di COVID-19 potrebbe causare brevi ritardi nell’introduzione di politiche ambientaliste, ma nel prossimo decennio si continueranno a fare investimenti per ridurre le emissioni di gas serra. L’abbassamento del prezzo del petrolio, poi, lo rende un prodotto meno redditizio: anche per questo gli investimenti nel settore delle energie rinnovabili potrebbero aumentare.

Secondo la società di consulenza McKinsey, il mondo «non può permettersi di non preoccuparsi del cambiamento climatico» nonostante la pandemia, e non c’è un momento migliore per investire nell’adozione di fonti di energia rinnovabili (i tassi d’interesse sui prestiti per il settore sono ancora molto bassi), che potrebbero portare alla creazione di nuovi posti di lavoro.

Infine c’è la visione ottimista di Glen Peters, direttore del Centre for International Climate and Environmental Research (CICERO), un centro di ricerca sul cambiamento climatico fondato dal governo norvegese nel 1990. Il 16 marzo, in un intervento sul sito The Conversation, ha spiegato come la grande crisi economica del 2008-2009 portò a un calo dell’1,2 per cento delle emissioni di anidride carbonica (CO2) mondiali annuali, ma anche come negli anni successivi si registrarono sempre aumenti. Secondo Peters, «con un buon piano il 2020 potrebbe diventare l’anno dell’inizio del calo delle emissioni globali di anidride carbonica». Come lui stesso ha riconosciuto alla fine del suo intervento, in passato le crisi economiche a lungo termine hanno sempre portato a un aumento delle emissioni, ma la crisi dovuta al coronavirus potrebbe essere diversa vista l’eccezionalità della pandemia.

Il punto di vista pessimista
C’è chi non vuole farsi illusioni. «Sembra che la crisi della COVID-19 ci farà perdere più tempo nella lotta al cambiamento climatico di quanto ce ne farà guadagnare», secondo gli esperti di clima ed energia Zeke Hausfather e Seaver Wang del Breakthrough Institute, un centro studi americano che si occupa di temi ambientali.

Nel caso migliore, secondo le loro previsioni, nel 2020 ci sarà un calo delle emissioni di anidride carbonica compreso tra lo 0,5 e il 2,2 per cento. La previsione di Rob Jackson, presidente di Global Carbon Project, un’organizzazione che si occupa di quantificare le emissioni di anidride carbonica prodotte dalle attività umane, è diversa da quella del Breakthrough Institute: secondo lui le emissioni mondiali nel 2020 potrebbero diminuire del 5 per cento rispetto al 2019. Ma sia che le emissioni diminuiscano del 2,2 per cento, sia che calino del 5 per cento, potrebbe essere irrilevante.

Perché si possa rilevare una significativa diminuzione della concentrazione di CO2 nell’aria (quella che conta davvero a prescindere da quanta CO2 produciamo ogni anno con allevamenti, trasporti e industrie), le emissioni mondiali annuali dovrebbero essere ridotte almeno del 10 per cento. E secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato a novembre, per scongiurare i peggiori effetti del cambiamento climatico le emissioni dovrebbero diminuire di almeno il 7,6 per cento ogni anno per decenni.

Secondo i pessimisti, dopo un iniziale calo delle emissioni ci sarà un grosso aumento: le misure introdotte dai governi per far ripartire l’economia saranno guidate da strategie a breve termine e da interessi nazionali, tutto il contrario di ciò che servirebbe per portare avanti politiche attente all’ambiente. Gli aiuti all’industria potrebbero rafforzare il settore dei combustibili fossili e altri che gli sono molto legati; inoltre per aiutare le aziende in questo periodo difficile potrebbero essere allentate alcune regole per la salvaguardia dell’ambiente. Le circostanze eccezionali in cui ci troviamo potrebbero anche portare alcuni governi ad autorizzare forme di sfruttamento delle risorse naturali straordinarie. Al tempo stesso i sussidi per i settori che lavorano con le energie rinnovabili potrebbero essere sospesi.

Anche l’abbassamento del prezzo del petrolio, visto dagli ottimisti come una cosa positiva, potrebbe diventare un’ulteriore fonte di problemi: i costi minori di benzina ed energia potrebbero anche spingere a un aumento dei consumi.

Il panico causato dalla crisi economica poi potrebbe cambiare l’orientamento dell’opinione pubblica a proposito dell’urgenza delle politiche ambientali. Dieter Helm, economista dell’Università di Oxford esperto del settore energetico e consigliere di vari governi britannici, si è chiesto se a causa del coronavirus l’obiettivo di ridurre a zero le emissioni nette di anidride carbonica entro il 2050 – uno degli impegni presi dalla Commissione Europea con il suo Green Deal – sarà accantonato.

Si teme anche che la pandemia e le sue conseguenze causino una reazione di rifiuto nei confronti della scienza e degli “esperti”, per non aver previsto la diffusione del virus e rimediato velocemente ai suoi danni. Ovviamente le cose sono molto più complicate: l’eventualità di una pandemia causata da un nuovo virus era discussa e presa in considerazione da molti anni da virologi ed epidemiologi, nonché dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Una maggiore sfiducia nei confronti del sapere scientifico sarebbe dannosa per le iniziative di sensibilizzazione sul cambiamento climatico.

I più pessimisti pensano che anche le storie sulla “natura che si riprende i suoi spazi” che circolano sui social network, e l’idea che la pandemia abbia un “lato positivo” nella riduzione delle emissioni inquinanti, siano dannose: possono far credere che il cambiamento climatico sia in qualche modo scongiurato o potrebbero far pensare che a chi importa dell’ambiente non importi delle vite umane e dell’economia.

Infine, una ragione molto più concreta per cui alcuni attivisti ambientalisti sono pessimisti sul futuro è il fatto che la pandemia, tra le altre cose, sta rallentando le ricerche sul clima e ha fatto posticipare la conferenza sul clima delle Nazioni Unite che si sarebbe dovuta tenere a novembre a Glasgow, in Scozia. La collaborazione internazionale per intraprendere azioni contro il cambiamento climatico procede di suo molto lentamente e questi ritardi potrebbero rallentarla ulteriormente.

Come stanno andando le cose per ora
È presto per dire se siano gli ottimisti o i pessimisti ad aver fatto le giuste previsioni. Qualche segnale da una parte e dall’altra però c’è già stato.

In Cina, dove con la sospensione delle attività industriali per il coronavirus c’era stato un netto miglioramento della qualità dell’aria ma ora le emissioni inquinanti stanno riaumentando, il governo ha approvato un pacchetto di misure di sostegno all’economia senza imporre vincoli ambientali o favorire le attività più rispettose dell’ambiente.

Negli Stati Uniti l’Agenzia per la protezione dell’ambiente (EPA) ha annunciato un allentamento dei controlli sul rispetto delle norme ambientali per le industrie, dicendo che per via della pandemia le aziende e gli stabilimenti potranno certificare da sé se la loro attività rispetta le leggi sull’inquinamento. Il governo ha anche detto che non verranno fatte multe per eventuali violazioni per un periodo di tempo non specificato contestualmente alla diffusione della COVID-19. Nel pacchetto di misure di sostegno all’economia votato dal Congresso inoltre non sono menzionati requisiti di rispetto per l’ambiente, diversamente dalle misure introdotte dopo la crisi economica del 2008-2009.

In Europa, a marzo, il primo ministro della Repubblica Ceca Andrej Babiš ha detto che l’Unione Europea dovrebbe «dimenticarsi del Green Deal» per pensare all’emergenza legata all’epidemia. Sempre a marzo un viceministro della Polonia ha chiesto che sia cancellato – anche solo per la Polonia, che fa ancora molto affidamento sulle centrali elettriche a carbone – il sistema europeo per comprare e vendere quote di emissioni di CO2 e lasciare ai singoli paesi la libertà di decidere come occuparsi dell’ambiente. Tuttavia Frans Timmermans, vicepresidente esecutivo della Commissione europea e commissario per il “Green Deal”, ha detto più volte che le misure europee per favorire la ripresa economica dopo la fine della pandemia saranno legate alle iniziative per diminuire l’impatto ambientale dell’economia europea.