Come sta andando la scuola

È passato quasi un mese da quando non si può più andare in classe: abbiamo parlato con insegnanti di tutta Italia per capire come continuano a fare il loro lavoro

L'aula di una scuola di Milano (ANSA / MATTEO BAZZI)
L'aula di una scuola di Milano (ANSA / MATTEO BAZZI)

Le scuole sono chiuse da quattro settimane nella maggior parte d’Italia e da sei in Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna e Friuli Venezia Giulia. In questo periodo gli insegnanti e gli studenti hanno dovuto adattarsi a insegnare e imparare in un modo nuovo, a distanza, usando app per videolezioni, cartelle condivise online e altri strumenti digitali. È ancora presto per tirare le somme su come stia andando, anche perché ogni scuola e ogni insegnante hanno propri gradi di autonomia per organizzarsi, ma tra i dati finora messi insieme dal ministero dell’Istruzione e i racconti degli insegnanti ci si può fare una prima idea della situazione e, soprattutto, capire cos’è stato fatto finora.

Il 26 marzo la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina ha comunicato al Senato i risultati di un sondaggio preliminare fatto a livello nazionale, a cui ha risposto il 93 per cento delle circa 8mila scuole italiane. Secondo il sondaggio, alla settimana scorsa, degli 8,3 milioni di iscritti nelle scuole italiane più di 6,7 milioni erano stati raggiunti dalle attività di didattica a distanza e l’89 per cento delle scuole aveva organizzato attività e preparato materiali specifici per gli alunni con disabilità.

Il Post ha parlato con 17 insegnanti di scuole primarie, medie e superiori, che lavorano nelle province di Torino, Cuneo, Milano, Brescia Cremona, Mantova, Verona, Bologna, Forlì-Cesena, Firenze, Roma, Reggio Calabria e Catania, per farsi raccontare quello che si sta facendo in diversi contesti e molti racconti si somigliano: dopo la prima settimana in cui gli insegnanti hanno dovuto pensare a come continuare a insegnare (e in molti casi hanno assegnato un eccesso di compiti a casa perché presi alla sprovvista), è cominciata la didattica a distanza, in forme diverse a seconda dell’età degli alunni, come richiesto dal governo. Non mancano i problemi, ma tutti gli insegnanti con cui il Post ha parlato sono abbastanza ottimisti, contenti della partecipazione dei propri studenti alle attività didattiche a distanza e convinti del fatto che le attività che si stanno portando avanti, per quanto limitate rispetto alla didattica tradizionale, siano molto importanti.

Come e quanto si fa lezione
Le scuole si possono dividere in due gruppi, a seconda dell’approccio scelto nei primi giorni di chiusura: ci sono le scuole che hanno chiesto agli insegnanti di cominciare a dare compiti e andare avanti con il programma in autonomia, e quelle che invece hanno prima stabilito un metodo comune per farlo.

Tra chi da subito ha dovuto cercare un suo metodo c’è un professore di matematica e fisica dell’Educandato Statale SS. Annunziata di Firenze, che ha impiegato due giorni per costruire una lightboard, cioè una lavagna trasparente, per poi aprire un canale di YouTube in cui carica video più o meno lunghi con esercizi e spiegazioni. Un altro professore di matematica e fisica, che insegna in un liceo della provincia di Mantova, ha cominciato a usare un blog di WordPress per spiegare gli argomenti delle lezioni in formato testuale e ha invitato gli studenti a usare la sezione dei commenti per fare domande. C’è chi ha cominciato fin da subito a organizzare videolezioni in diretta, e chi invece anche dopo qualche settimana continua a dare agli studenti solo lezioni registrate.

Le scuole i cui insegnanti fin da subito hanno usato metodi simili sono state quelle in cui già prima della crisi sanitaria erano usate alcune piattaforme online, come G-Suite for Education, i software di Google per la didattica. In un istituto della provincia di Torino dove si fanno molte sperimentazioni didattiche, digitali e no, è stata addirittura diffusa una circolare sulla netiquette che gli studenti devono seguire durante le videolezioni in diretta, simile a quelle che si trovano online per chi lavora da casa: non si possono registrare le lezioni, bisogna essere pronti prima che inizino con tutto quello che serve, non si possono consumare merende o pasti davanti allo schermo né guardare lo schermo di un altro dispositivo elettronico.

Altrove c’è voluta almeno una settimana perché gli insegnanti meno abituati a usare gli strumenti digitali trovassero un modo per farlo, e nel frattempo si è creata un po’ di confusione: un po’ per la straordinarietà della situazione e un po’ perché i docenti meno pronti come prima soluzione hanno dato molti compiti a casa, sovraccaricando i ragazzi, e i metodi diversi usati dagli insegnanti hanno reso più complessa l’organizzazione dello studio. Per quanto riguarda i compiti, lo stesso ministero dell’Istruzione, in una nota diffusa il 17 marzo, ha chiesto agli insegnanti di evitare un «eccessivo carico cognitivo» e cercare piuttosto di fare videolezioni il più possibile.

In ogni caso, oggi non si fanno tante lezioni quante erano previste dal normale orario scolastico: sia per evitare che gli studenti passino troppo tempo davanti a uno schermo, sia perché non tutti hanno accessi a internet che permettono di passare molte ore del giorno guardando dirette video. In un liceo della provincia di Brescia dove tutti gli studenti hanno una buona connessione, si arriva a un massimo di quattro videolezioni in diretta al giorno, che non arrivano mai a durare un’ora intera. Alle medie dell’Istituto Comprensivo Federico Sacco, in provincia di Cuneo, non si fanno più di tre ore di videolezione al giorno e così anche in altre scuole medie. La regola generale è che dopo i saluti iniziali gli studenti spengano i propri microfoni, ma possono chiedere di intervenire usando le chat presenti nelle app per le videoconferenze. Nei momenti di esercitazione alcuni professori invitano uno studente a partecipare come si fa in classe alla lavagna: lo studente accende il microfono e dice la sua, e l’insegnante scrive da sé la risposta sullo schermo condiviso che tutta la classe vede.

Per le scuole primarie le cose sono più complesse, perché i bambini sono meno autonomi: quelli di prima e seconda non sono abbastanza grandi per seguire videolezioni in diretta, che in alcune scuole si cominciano a fare dalla terza in su, in altre solo per quarte e quinte. Anche le maestre dei più piccoli però continuano a seguire gli alunni per quanto possibile: mandano testi da leggere e si fanno mandare indietro note vocali grazie a cui possono monitorare i progressi nella lettura dei bambini (una maestra della provincia di Roma ha addirittura organizzato delle “olimpiadi della lettura” per motivare gli alunni) e organizzano brevi videotelefonate a gruppetti per chiacchierare una o due volte a settimana. A loro volta poi fanno video registrati per andare pian piano avanti con il programma.

Una maestra che insegna a Bologna ha raccontato di usare spesso un sistema per fare piccoli quiz online sugli argomenti di studio dei suoi alunni di seconda elementare, come le parole che contengono la lettera H e il ciclo dell’acqua: anche i più piccoli possono farli in modo quasi autonomo, perché per accedervi basta cliccare su un link che viene diffuso tra i genitori tramite WhatsApp. Molti esercizi pensati per i bambini poi sono da svolgere sui quaderni e non su uno schermo: le maestre verificano comunque che siano stati svolti, e li correggono, facendosi mandare le foto dai genitori.

Per tutti gli insegnanti con cui il Post ha parlato – compresa una professoressa di inglese che insegna in un istituto professionale, in provincia di Verona – la partecipazione degli studenti alle videolezioni è altissima, anche se non mancano notizie e voci di scuole superiori dove molti ragazzi sono poco coinvolti.

Come è cambiato il lavoro degli insegnanti
A prescindere dalle ore di videolezione in diretta, in molti casi gli insegnanti stanno lavorando molte ore in più rispetto al normale. Lo hanno dovuto fare, soprattutto le prime settimane, per riadattare le proprie lezioni (anche considerando che certi materiali saranno guardati dallo schermo di uno smartphone e tenendo conto dei diversi sistemi operativi), imparare a fare video e usare altri strumenti digitali, trovare contenuti facilmente condivisibili e assistere genitori e studenti con vari problemi tecnici. Ma continuano a farlo, fino a sera, per rispondere alle domande degli studenti, per ricevere e correggere i compiti consegnati dai genitori dei ragazzini più piccoli e, in alcuni casi, per dare una mano a qualche collega meno esperto di video, cartelle condivise e simili. Se a loro volta sono genitori di bambini e ragazzini, gestire questo carico di lavoro è complicato.

Del resto anche per i genitori dei bambini che frequentano le scuole primarie e, in misura minore, le medie, c’è molto da fare, oltre il consueto aiuto con i compiti. La situazione è particolarmente gravosa per i genitori che lavorano entrambi da casa o per quelle famiglie con due o più figli e spazi ridotti a disposizione e dispositivi digitali da condividere.

Il rapporto tra famiglie e insegnanti è ancora più stretto per quanto riguarda gli insegnanti di sostegno e i genitori dei ragazzi che seguono. Le attività di sostegno si sono trasformate in sostegno a distanza, come è accaduto per tutto il resto: i docenti di sostegno seguono le videolezioni delle classi in cui lavorano, come normalmente assistono alle lezioni in classe, e fanno videotelefonate con i ragazzi di cui si occupano per affrontare in modo più adeguato i temi trattati con gli altri docenti. Gran parte del loro lavoro consiste nel creare materiali il più possibile adatti alla situazione e ai problemi dei ragazzi che seguono.

Ovviamente non tutti gli insegnanti pensano che la didattica a distanza sia efficace, e alcuni inizialmente avevano scarse competenze digitali. Ma anche professori e maestre vicini alla pensione si stanno impegnando per imparare qualcosa di nuovo. Poi ci sono eccezioni spiacevoli – una professoressa di una scuola media della provincia di Milano, peraltro coordinatrice di classe, non ha voluto saperne di fare didattica a distanza e ha lasciato tutto l’impegno ai colleghi – ma le scuole stanno cercando di fare la loro parte in questa situazione.

I problemi con dispositivi e connessioni
Non tutte le famiglie hanno tablet e computer che bambini e ragazzi possono usare per seguire la didattica a distanza e alcune non hanno nemmeno una connessione a internet fissa, per cui si teme che la didattica a distanza escluda i ragazzi le cui famiglie hanno condizioni socio-economiche svantaggiate. Secondo i più recenti dati dell’ISTAT sull’accesso a internet in Italia, il 27,4 per cento delle famiglie con almeno un membro minorenne non ha un collegamento a banda larga fisso.

Le scuole ovviamente stanno cercando di raggiungere tutti gli studenti e così il ministero dell’Istruzione. Molti insegnanti nei primi giorni della chiusura delle scuole hanno fatto dei sondaggi tra i propri studenti o tra i genitori dei propri alunni per capire quali potessero avere maggiori difficoltà e già molti istituti hanno dato in comodato d’uso agli studenti con più necessità i tablet in loro possesso. In un liceo della provincia di Catania, per aiutare una studentessa che può accedere a internet solo tramite il proprio smartphone e non poteva permettersi di acquistare più GB di traffico del solito, i professori hanno preso l’iniziativa personale di farle una ricarica.

Con il decreto legge del 17 marzo il governo ha stanziato 85 milioni di euro per le scuole: di questi, 70 milioni di euro serviranno per acquistare tablet da dare in comodato d’uso agli studenti meno abbienti e «per garantire la connettività di rete nei territori ove essa sia carente o mancante», ha detto la ministra Azzolina in Senato.

I problemi più gravi e difficili da risolvere sono soprattutto quelli di connessione, che in alcune zone, al di fuori delle città, non è buona anche a causa delle infrastrutture: non arriva la fibra e anche le connessioni fisse di casa non permettono di seguire al meglio gli streaming in diretta. È difficile immaginare come le scuole possano risolvere tutti questi problemi. In provincia di Cremona, raccontano dall’Istituto Comprensivo Luigi Chiesa di Spino d’Adda e Dovera, che include scuole dell’infanzia, primarie e medie, per contattare i genitori di alcuni alunni e tenerli aggiornati sulle attività di didattica a distanza si è dovuto ricorrere a lettere e telefonate tradizionali.

Anche tra gli insegnanti c’è chi ha difficoltà con la connessione: c’è chi, come un professore di matematica e fisica della provincia di Mantova e un professore di latino e greco della provincia di Torino, ha per la prima volta finito i GB del suo abbonamento mensile prima della fine del mese.

Le valutazioni
Una questione ancora irrisolta in molte delle scuole dove lavorano gli insegnanti che hanno parlato con il Post è quella delle valutazioni. La ministra Azzolina ha invitato gli insegnanti a farle, consigliando di concentrarsi su criteri formativi. Alcuni professori hanno già iniziato a interrogare in videoconferenza, mentre altri sono dubbiosi sull’oggettività delle verifiche orali a distanza e stanno aspettando indicazioni più precise dai propri dirigenti scolastici o dal ministero per cominciare a valutare i ragazzi.

Secondo il professore di latino e greco della provincia di Torino, è possibile interrogare in modo efficace, coinvolgendo due o tre studenti alla volta in un’unica videoconferenza – anche per avere testimoni delle prove: si possono fare domande aperte in cui si chiede agli studenti di ragionare, per cui è più difficile cercare un suggerimento in un libro o tra gli appunti, oppure si possono pensare domande molto secche, con cui si può capire in modo immediato se lo studente è preparato. Il professore di matematica e fisica della provincia di Mantova invece è scettico sulla fattibilità delle interrogazioni a distanza perché i suoi stessi studenti gli hanno raccontato come sono riusciti a barare con altri insegnanti.

Nel liceo della provincia di Brescia tutta questa settimana è stata dedicata alle prime interrogazioni e prove scritte. Per fare le verifiche scritte si è usato questo metodo: gli studenti sono stati divisi in gruppi e a ciascun gruppo è stata assegnata una prova diversa, proiettata in videoconferenza attraverso la condivisione dello schermo dell’insegnante; i ragazzi devono rispondere ai quesiti, piuttosto brevi e su una parte molto limitata del programma, su un foglio, che poi fotografano e inviano all’insegnante rapidamente.

Soprattutto alle medie vengono usati gli strumenti presenti nei programmi come G-Suite per fare quiz, mentre nelle scuole primarie si sta tenendo conto più che altro della costanza e della partecipazione – anche perché capita che i genitori dei bambini più piccoli esagerino con l’aiutarli. Il preside di una scuola primaria di Milano ha chiesto agli insegnanti di dare una piccola valutazione positiva, un semplice +, a tutti i compiti consegnati, per incoraggiare i bambini.

Secondo una professoressa di lettere di una scuola media della periferia di Milano non si può valutare quello che i ragazzi stanno imparando in questo periodo nello stesso modo in cui lo si faceva con le scuole aperte. Non solo per tutte le difficoltà di fare prove a distanza, ma anche perché il modello didattico è cambiato: è molto più vicino a quella che gli esperti chiamano “classe capovolta”, un modo di insegnare in cui le nozioni si apprendono con la lettura e lo studio individuale a casa e gli incontri con gli insegnanti servono invece per fare riflessioni ed elaborare quanto si è imparato. In questo modello più che le nozioni si valutano le competenze degli studenti e secondo la professoressa di Milano alla fine di questo periodo di didattica a distanza i ragazzi saranno appunto diventati più competenti: forse dovranno recuperare qualcosa del programma dell’anno precedente, ma avranno imparato meglio, ad esempio, a cercare le informazioni e ad aiutarsi tra loro.

Cosa stanno imparando le scuole
«Bisogna dimenticare il concetto di “finire il programma”», dice il professore di latino e greco di Torino, che come molti altri insegnanti definisce quella di questi giorni una “didattica della lentezza”, in cui gli obiettivi sono cambiati. Le cose più importanti sono mantenere il contatto con gli studenti facendo da legame con la normalità del “prima” e dare loro una routine mattiniera che regoli il tempo che passano in casa.

Il Post ha chiesto cosa stiano imparando le scuole a Giovanni Biondi, presidente dell’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (INDIRE), un ente di ricerca del ministero dell’Istruzione che segue come si sta facendo didattica a distanza e che, da quando è iniziata la crisi sanitaria, ha permesso a più di 20mila insegnanti italiani di fare webinar di formazione online sulle tecnologie digitali. Secondo Biondi quello che è emerso finora è che a distanza non si può replicare il modo in cui si fa scuola normalmente, con le lezioni frontali e seguendo l’orario che alterna le materie a seconda dei giorni della settimana, dato che gli studenti non possono passare più di 4 ore davanti a uno schermo. Per questo la situazione attuale è un’occasione, per la scuola, di ripensare certi metodi, come si stava facendo anche prima nelle scuole più innovative del paese. Alla fine di questo periodo particolare gli insegnanti avranno maturato un’esperienza professionale che permetterà di capire, come mai prima, come gli strumenti digitali si possono usare per fare scuola.