Cosa si può imparare dai nostri errori

Una lucida analisi della Harvard Business Review mette in fila cosa è andato storto nel nostro paese e le lezioni da imparare per fermare il coronavirus

Milano, Lombardia (ANSA / PAOLO SALMOIRAGO)
Milano, Lombardia (ANSA / PAOLO SALMOIRAGO)

La Harvard Business Review (HBR), importante rivista dell’Università di Harvard (Stati Uniti), ha pubblicato un’analisi sull’epidemia da coronavirus in Italia, soffermandosi sugli errori commessi dall’Italia che dovrebbero evitare gli altri paesi in cui si sta diffondendo la COVID-19. L’articolo mostra come siano stati sottovalutati alcuni rischi legati all’epidemia, nonostante le notizie via via più allarmanti arrivate dalla Cina e da altri paesi asiatici, nei quali il coronavirus si era già diffuso.

Lo studio riconosce all’Italia che diversi aspetti della crisi “possano essere attribuiti indubbiamente alla sfortuna”, con dinamiche che difficilmente il governo avrebbe potuto tenere sotto controllo. Altri aspetti sono però indicativi di cose che si potevano fare meglio: “i grandi ostacoli in cui sono incappati i leader nel riconoscere la gravità e i rischi posti dalla COVID-19, nell’organizzare una reazione coordinata, nell’imparare dai casi di successo e – più importante – dai fallimenti”. Molti di questi ostacoli sono emersi nonostante fossero già disponibili informazioni sull’esperienza cinese e in altri paesi come la Corea del Sud.

Pregiudizio di conferma
Dopo la scoperta dei primi casi positivi nel lodigiano in Lombardia e a Vo’ in Veneto, per diversi giorni in Italia è rimasto un certo scetticismo nei confronti delle prime misure di isolamento adottate dal governo e dalle istituzioni regionali. L’impressione era che fosse sufficiente bloccare gli accessi ai paesi interessati per contenere il problema, con alcuni che ritenevano esagerate quelle stesse decisioni, evidentemente senza avere una visione più ampia della crisi sanitaria che stava arrivando, e che avrebbe poi interessato buona parte dell’Italia.

Nonostante gli avvisi di diversi esponenti della comunità scientifica, la “fase di rifiuto” è stata piuttosto condivisa: dalla campagna #MilanoNonSiFerma cui ha partecipato lo stesso sindaco di Milano, Beppe Sala, all’iniziativa dell’aperitivo ai Navigli – zona della città famosa per i suoi locali e ristoranti – con il segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, che stringeva le mani ai passanti. La settimana seguente Zingaretti sarebbe risultato positivo al coronavirus. Con modalità più o meno simili, lo stesso è accaduto in diversi paesi europei quando ormai era evidente la serietà della crisi sanitaria in Italia.

L’articolo di HBR spiega che questo approccio dimostra un “pregiudizio di conferma” da parte dalle istituzioni: la tendenza a focalizzarsi sulle informazioni che permettono di confermare le proprie posizioni e tesi iniziali (una condizione cui sono spesso soggetti gli scienziati quando fanno ricerca), scartando tutte le altre. Un’epidemia è difficile da gestire perché non ha uno sviluppo lineare ma quasi esponenziale, con un’accelerazione nell’aumento dei contagi talmente rapida da essere difficile da studiare e interpretare sul momento:

Il momento migliore per agire contro un’epidemia è ai suoi primissimi inizi, quando la minaccia appare ancora piccola, o prima ancora che si verifichi un solo caso. Ma se un intervento di questo tipo funziona, in retrospettiva apparirà come se le azioni molto forti assunte fossero esagerate. E questo è un gioco dal quale molti politici preferiscono tenersi alla larga.

Soluzioni parziali
Il modo in cui si è sviluppata l’epidemia da coronavirus in Italia dimostra la necessità di seguire un approccio sistematico al problema e non soluzioni parziali. Il governo italiano ha emesso inizialmente restrizioni per aree geograficamente molto limitate, via via espandendole per comprendere tutto il territorio nazionale. È stato un approccio in un certo senso ordinario per un problema straordinario, che con il senno di poi avrebbe richiesto meno cautele.

Eppure, già durante la crisi, si è resa evidente l’inadeguatezza delle decisioni assunte. L’andamento dei nuovi contagi era quasi esponenziale e il dato su un singolo giorno non era per nulla significativo, considerato che pochi giorni dopo sarebbe stato enormemente più grande. Dice HBR: “L’Italia ha inseguito la diffusione del coronavirus invece di prevenirla“.

La gradualità nell’introduzione delle restrizioni ha inoltre favorito, in alcune circostanze, la crescita dell’epidemia. L’annuncio sulle limitazioni agli spostamenti in tutta Italia, anticipato su molti giornali con una bozza del decreto, ha fatto sì che decine di migliaia di persone facessero ritorno dal Nord al Sud, contribuendo alla diffusione del contagio in parti d’Italia che fino a quel momento non erano state interessate dall’epidemia.

Gli approcci che finora si sono rivelati più efficaci per trattare l’epidemia sono stati quelli seguiti dalla Cina e dalla Corea del Sud. I loro modelli sono stati spesso contrapposti: da una parte quello cinese delle restrizioni e dell’isolamento, molto più pesanti di quelli in vigore in Italia, dall’altro quello sudcoreano basato su test a tappeto per la popolazione e tracciamento dei contatti. In realtà, come sta diventando sempre più evidente, i due paesi hanno seguito un approccio di base simile: realizzare rapidamente una soluzione integrata, che non prevedesse una sola tattica.

I test a tappeto, per esempio, sono utili solo nel momento in cui sono seguiti da un sistema efficiente di tracciamento dei contatti, in modo da ridurre e interrompere il prima possibile le catene dei contagi. Questo secondo obiettivo può essere raggiunto solo se ci sono soluzioni adeguate per rintracciare gli esposti, verificare le loro condizioni di salute e se necessario isolarli. Lo stesso isolamento di massa funziona solo se si lavora per separare gli infetti dai sani, in modo che si riducano i nuovi casi. In Cina, dopo una prima fase caotica, si è proceduto in questo senso, isolando altrove gli infetti per evitare che contagiassero i loro familiari.

In Italia si fatica ancora a vedere un approccio sistematico, che integri le misure restrittive. Dall’esperienza italiana gli altri paesi dovrebbero imparare a riorganizzare la loro risposta e gli stessi sistemi sanitari, per esempio dividendo gli ospedali dedicati ai casi di COVID-19 e gli altri. La crisi sanitaria, inoltre, dovrebbe essere spostata il più possibile dagli ospedali ad altre strutture intermedie, dove isolare i contagiati non gravi, evitando che possano trasmettere il virus ad altre persone.

Frammentazione
L’analisi di HBR ha inoltre identificato un altro problema nel caso italiano: l’eccessiva frammentazione del sistema sanitario, le cui competenze sono in mano alle singole regioni. Gli effetti di questa decentralizzazione, da decenni al centro di ricorrenti polemiche, è piuttosto evidente se si confrontano le strategie seguite dalla Lombardia e dal Veneto.

Secondo i dati della Protezione Civile comunicati domenica 29 marzo, in Lombardia i casi totali da coronavirus sono stati oltre 41mila, mentre in Veneto poco più di 8mila, nonostante i principali focolai si fossero registrati nelle due regioni nello stesso momento. La differenza è dovuta in parte alla diversa densità della popolazione nelle due regioni, ma HBR segnala come “diverse scelte di salute pubblica effettuate all’inizio dell’epidemia abbiano avuto un impatto”.

In Veneto si è scelto di eseguire un maggior numero di test, di effettuare un tracciamento più meticoloso dei potenzialmente positivi, di puntare di più sulle diagnosi a casa (sia cliniche sia tramite i tamponi), di fornire maggiori strumenti di protezione agli operatori sanitari e a chi per mestiere è a diretto contatto con il pubblico. In Lombardia, invece, i test sono stati eseguiti quasi esclusivamente su persone che mostravano già sintomi gravi riconducibili alla COVID-19 e non si sono fatti grandi progressi sul piano del tracciamento dei nuovi casi, per ridurre e interrompere la catena dei contagi.

L’approccio del Veneto ha permesso di ridurre il carico per gli ospedali, evitando che il virus si diffondesse nelle loro strutture andando a interessare pazienti ricoverati per altri motivi. Eppure, nonostante l’esempio virtuoso della regione confinante, la Lombardia non ha modificato la propria tattica, come scrive HRB:

Il fatto che politiche diverse abbiano portato a esiti differenti in due regioni simili doveva essere riconosciuto come una forte opportunità di apprendimento. L’esperienza del Veneto doveva essere sfruttata per rivedere da subito alcune politiche decise a livello nazionale e regionale. Eppure, solo negli ultimi giorni, e a un mese di distanza dall’inizio dell’epidemia in Italia, la Lombardia e altre regioni hanno iniziato a valutare e imitare l’”approccio Veneto”.

La lezione per l’Italia, e per gli altri paesi che iniziano ad affrontare l’epidemia, è sviluppare la capacità di reagire il più in fretta possibile per modificare approcci e strategie. Ogni politica adottata nel brevissimo termine dovrebbe essere vista come un “esperimento”, sul quale farsi rapidamente un’idea all’emergere dei primi risultati, entrando nell’ottica di accantonare ciò che non mostra di offrire gli esiti sperati.

Dati
Le modalità di raccolta e interpretazione dei dati hanno avuto notevoli conseguenze per l’Italia, e in misure diverse hanno interessato diversi altri paesi europei e gli Stati Uniti. La diffusione del coronavirus nei primi mesi del 2020 è sfuggita alle strutture e alle autorità sanitarie italiane, con l’incapacità degli ospedali di rilevare efficacemente casi sospetti di polmoniti gravi per ricondurli alla COVID-19. Questo ha fatto sì che il virus si sia diffuso nelle strutture ospedaliere, che hanno fatto da amplificatore del contagio.

Se guardiamo all’epidemia oggi, il problema è la mancanza di dati precisi sull’estensione del contagio. Mancando un effettivo coordinamento nazionale sui test, per esempio, ogni regione ha mantenuto approcci diversi sulle modalità con cui effettuare i tamponi, restituendo dati disomogenei e parziali che diventano poco significativi se messi insieme a livello nazionale. L’impressione è che il numero dei contagiati rilevati sottostimi enormemente i contagi reali, rendendo quindi più alto il tasso di letalità, cioè la percentuale di persone tra quelle contagiate che muoiono a causa del coronavirus, e che anche il numero dei morti sia sottostimato.

La mancanza di dati coerenti diventa un enorme problema dal punto di visto epidemiologico, perché non si possono ottenere modelli statistici affidabili per valutare la diffusione dell’epidemia. I problemi di interpretazione dei dati riguardano sia le singole realtà locali sia l’analisi a livello nazionale. In queste condizioni, diventa estremamente difficile capire quale approccio stia funzionando meglio e dove.

L’analisi di HBR ricorda che in condizioni ideali i dati dovrebbero essere raccolti nel modo più ordinato possibile, fornendo standard da seguire a ogni istituzione coinvolta nella loro raccolta. In assenza di un sistema integrato di raccolta dei dati, i rischi di rendere ingestibile l’epidemia aumentano, con conseguenze dirette per la popolazione e per l’andamento stesso dei contagi.

Si poteva fare meglio?
L’articolo di HBR riconosce al governo italiano di avere lavorato in condizioni straordinarie, muovendosi in un territorio completamente nuovo e incerto, con livelli di complessità che non hanno precedenti dal secondo dopoguerra: “Dobbiamo accettare l’idea che capiremo in modo univoco quali soluzioni possano funzionare tra diversi mesi, se non anni”.

L’esperienza italiana insegna comunque che dinanzi a una crescita quasi esponenziale di un’epidemia non ci sia tempo da perdere. E che da una crisi come quella posta dalla COVID-19 si può uscire solamente con un approccio simile alla mobilitazione in tempo di guerra, in termini di risorse economiche e umane dedicate all’emergenza:

La necessità di agire immediatamente e di rispondere con un’enorme mobilitazione implicano che una risposta efficace a questa crisi richieda un approccio ben distante dall’ordinaria amministrazione. Se le istituzioni vogliono vincere la guerra contro la COVID-19, è essenziale adottare una strategia che sia sistematica, che metta al primo posto l’apprendimento e che sia in grado di espandere velocemente gli esperimenti di successo e di interrompere quelli che si rivelano inutili. Certo, è un’ardua impresa, specialmente nel bel mezzo di una crisi enorme. Ma, considerato ciò che è in gioco, è da fare.