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  • Lunedì 24 febbraio 2020

Stiamo ancora cercando il “paziente zero”

O i pazienti zero, dato che i focolai di coronavirus di Lombardia e Veneto non sembrano collegati

Codogno, provincia di Lodi, 23 febbraio 2020 (ANSA / Paolo Salmoirago)
Codogno, provincia di Lodi, 23 febbraio 2020 (ANSA / Paolo Salmoirago)

Non si sa ancora chi sia stato il cosiddetto “paziente zero” attraverso cui il coronavirus (SARS-CoV-2) si è diffuso in Italia, né per i contagi in Lombardia né per quelli in Veneto, le due regioni in cui al momento ci sono più casi.

L’uomo di 41 anni tornato di recente dalla Cina che si pensava avesse contagiato il 38enne di Codogno, il primo caso diagnosticato in Italia, è stato escluso dalla ricerca: è risultato negativo anche al test per gli anticorpi, che si sviluppano nell’organismo in presenza del virus, quindi non ha mai contratto il coronavirus. Le autorità sanitarie continuano le ricerche del paziente zero, o meglio, dei pazienti zero, dato che i focolai di Lombardia e Veneto non sembrano essere collegati: capire come si sia propagato il virus potrebbe aiutare a contenere il numero di nuove infezioni.

In Lombardia è stato possibile ricostruire in parte la sequenza del contagio – la 76enne di Casalpusterlengo morta il 20 febbraio era andata al pronto soccorso di Codogno proprio nei giorni in cui si era fatto visitare il 38enne – ma non nelle sue prime fasi. Per portare avanti le ricerche, l’ASL di Milano ha messo insieme una squadra di matematici, fisici e medici per usare un algoritmo che incroci i dati sugli infettati e le persone intorno a loro.

Il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, e l’assessore alla Sanità, Giulio Gallera, hanno detto che le indagini stanno procedendo seguendo due ipotesi principali. Le ricerche sono gestite dall’Agenzia di Tutela della Salute (ATS) della regione, che per ogni infettato certo contatta i familiari più stretti, poi gli amici, i colleghi, ma, quando possibile, anche gli sconosciuti con cui la persona contagiata è venuta in contatto: ad esempio i vicini di posto in aereo o in treno.

Pier Luigi Lopalco, epidemiologo dell’Università di Pisa, ha detto a Repubblica che «è stato un colpo di fortuna» diagnosticare la COVID-19 al 38enne di Codogno. Lopalco ha aggiunto di essere convinto che i pazienti zero non si trovino perché il virus potrebbe essere arrivato in Italia da tempo, magari fin da gennaio: «Se i malati si sono rivolti al sistema sanitario si è pensato che fossero stati colpiti dall’influenza, oppure avevano sintomi così lievi che nemmeno sono andati dal dottore. I pazienti che vediamo adesso potrebbero appartenere alla seconda o terza generazione dei contagiati».

Attraverso il test per gli anticorpi per il SARS-CoV-2 è possibile riconoscere anche le persone già guarite dalla COVID-19. Al crescere del numero dei contagiati, cresce però anche il numero di persone da sottoporre ai test: non solo quelle che presentano sintomi compatibili con il virus, ma anche quelle che sono entrate in contatto con i pazienti.

Le indagini sull’epidemia non sono semplici, anche perché molti contagiati dal coronavirus sono asintomatici o hanno sintomi leggeri. Gli asintomatici non sono contagiosi o lo sono in misura minore, ha spiegato Lopalco, ma «anche meno inclini ad avere comportamenti protettivi nei confronti degli altri». Inoltre può darsi che molte persone infettate dal virus abbiano scambiato i sintomi per quelli dell’influenza e in questo momento siano a casa dal lavoro senza sospettare di avere il coronavirus: per le autorità indagare su di loro potrebbe essere difficile.

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Per via delle caratteristiche del virus (alta contagiosità e alta frequenza di sintomi lievi o moderati) Lopalco pensa che «se iniziassero a fare tanti test, anche in Germania probabilmente salterebbe fuori un gran numero di casi».

A differenza della Germania però l’Italia aveva preso una decisione che potrebbe aver favorito la diffusione del virus, oltre a rendere più difficile trovare il paziente zero. Lo ha spiegato domenica alla Stampa Walter Ricciardi, professore di Igiene all’Università Cattolica di Milano e membro del consiglio esecutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS):

Paghiamo il fatto di non aver messo in quarantena da subito gli sbarcati dalla Cina. Abbiamo chiuso i voli, una decisione che non ha base scientifica, e questo non ci ha permesso di tracciare gli arrivi, perché a quel punto si è potuto fare scalo e arrivare da altre località. Inoltre, quando vengono contagiati i medici significa che non si sono messe in campo le pratiche adatte, oltre al fatto che il virus è molto contagioso. Francia, Germania e Regno Unito seguendo l’OMS non hanno bloccato i voli diretti e hanno messo in quarantena i soggetti a rischio, inoltre hanno una catena di comando diretta, mentre da noi le realtà locali vanno in ordine sparso.

Come Lopalco, anche Massimo Galli, professore di Malattie infettive all’Università di Milano e primario del reparto di Malattie infettive III dell’Ospedale Sacco, il più attrezzato per i casi infettivi in Lombardia, non esclude che in altri paesi europei possa accadere qualcosa di simile a quanto è successo in Italia. Al Corriere della Sera ha spiegato inoltre che la situazione del focolaio di Codogno è stata aggravata da un fattore, cioè la diffusione del virus nell’ospedale locale:

Si è verificata la situazione più sfortunata possibile, cioè l’innescarsi di un’epidemia nel contesto di un ospedale, come accadde per la MERS a Seul nel 2015. Purtroppo, in questi casi, un ospedale si può trasformare in uno spaventoso amplificatore del contagio se la malattia viene portata da un paziente per il quale non appare un rischio correlato: il contatto con altri pazienti con la medesima patologia oppure la provenienza da un paese significativamente interessato dall’infezione. […] Il primo caso clinicamente impegnativo di COVID-19 [quello del 38enne di Codogno, ndr] è stato trattato senza le precauzioni del caso perché interpretato come altra patologia.

Galli ha anche ipotizzato come sia successo che il “paziente zero” abbia portato il virus in Italia senza che nessuno se ne accorgesse: «È verosimile che qualcuno, arrivato in una fase ancora di incubazione, abbia sviluppato l’infezione quando era già nel nostro paese con un quadro clinico senza sintomi o con sintomi molto lievi, che gli hanno consentito di condurre la sua vita più o meno normalmente e ha così potuto infettare del tutto inconsapevolmente una serie di persone».

È successo in Lombardia e in Veneto, probabilmente, perché sono regioni con frequenti scambi commerciali e sociali con la Cina, anche se non è detto che il paziente o i pazienti zero fossero cinesi.

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