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  • Martedì 28 gennaio 2020

Cosa sono i “diritti d’immagine” dei calciatori

Permettono ai giocatori di guadagnare dalle sponsorizzazioni, ce ne sono di vari tipi e a volte sono stati sfruttati per pagare meno tasse sugli stipendi

L''immagine di Cristiano Ronaldo sulla vetrina di un negozio a Kiev, in Ucraina, nel 2018.

(Serg Glovny/ZUMA Wire/ANSA)
L''immagine di Cristiano Ronaldo sulla vetrina di un negozio a Kiev, in Ucraina, nel 2018. (Serg Glovny/ZUMA Wire/ANSA)

Quando si parla di calcio e in particolare di calciomercato, si sente spesso utilizzare l’espressione “diritti d’immagine” in riferimento ai contratti che i calciatori stipulano con le loro squadre.

Quando un calciatore viene tesserato da una società, concede a questa lo sfruttamento dei diritti relativi alle sue prestazioni sportive: si impegna insomma ad allenarsi e a giocare tutte le partite che gli vengono richieste, oltre a vari altri obblighi di natura sportiva. Di solito però il calciatore mantiene per sé il diritto allo sfruttamento della propria immagine: può decidere quindi di stipulare contratti di sponsorizzazione con qualsiasi azienda, cedendo la propria immagine in cambio di un compenso. Succede per esempio quando un calciatore diventa testimonial di un particolare marchio di abbigliamento sportivo, che può essere anche diverso da quello che sponsorizza la squadra in cui gioca.

Cosa sono i diritti d’immagine

Non esiste un solo modo in cui lo sfruttamento dei diritti viene disciplinato in tutto il calcio professionistico: le modalità variano da paese a paese, a seconda degli accordi stipulati dalle associazioni dei calciatori con le varie leghe. Nel caso dell’Italia, per esempio, la definizione di diritti d’immagine risale a una convenzione stipulata fra la Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC), le leghe e l’Associazione Italiana Calciatori (AIC) nel 1981, e successivamente modificata altre due volte. La convenzione all’articolo 1 dice che «i calciatori hanno la facoltà di utilizzare in qualsiasi forma lecita e decorosa la propria immagine anche a scopo di lucro, purché non associata a nomi, colori, maglie, simboli o contrassegni della Società di appartenenza o di altre Società e purché non in occasione di attività ufficiale».

I calciatori hanno quindi il diritto di sfruttare come meglio credono la propria immagine (senza elementi che riconducano il calciatore alla squadra di appartenenza) mentre le sole immagini di cui le società hanno i diritti sono quelle che ritraggono il singolo calciatore insieme al resto della squadra: devono essere foto di gruppo, e possono essere utilizzate solo per fare pubblicità ad aziende che sponsorizzano la squadra. Le società non possono quindi utilizzare le immagini dei singoli calciatori senza il loro consenso, e qui entra in gioco la possibilità di cedere i diritti d’immagine.

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I calciatori, infatti, possono decidere di cedere totalmente o solo in parte alla propria squadra il diritto di sfruttarne l’immagine in divisa societaria, in cambio di un compenso economico che si aggiunge al normale stipendio. Nel primo caso si parla di naked o blanket contracts, cioè contratti in cui i calciatori “si spogliano” di tutti i diritti di sfruttamento della propria immagine per cederli alla società. È un tipo di contratto molto comune in Premier League e in Bundesliga e meno in Italia.

L’unica società della Serie A che impone a quasi tutti i suoi tesserati contratti del genere è il Napoli, che rivendica il diritto di sfruttare in toto i diritti d’immagine dei calciatori: questo ha provocato in passato diverse difficoltà nel trasferimento di nuovi calciatori al Napoli, e in alcuni casi brusche interruzioni delle trattative. Ci sono poi casi, più rari, in cui le società decidono di lasciare completamente i diritti d’immagine ai giocatori (il Paris Saint-Germain, per esempio), e altri più comuni in cui le parti si accordano per spartirsi i compensi derivanti dallo sfruttamento dei diritti.

Perché i diritti vengono sfruttati per pagare meno tasse

È una pratica comune che i calciatori costituiscano società apposite che si occupino della gestione dei diritti della propria immagine, ed è a queste che le aziende pagano il compenso pattuito. Questi compensi, non essendo parte degli stipendi dei calciatori, sono sottoposti a tassazioni differenti, e per questo motivo alcuni calciatori hanno cercato di approfittarne costituendo società con sede in paesi dove la tassazione sulle società è più bassa che nel paese dove giocano, un modo per eludere il fisco e pagare meno tasse.

Questa pratica è stata utilizzata negli scorsi anni, per esempio, dai due giocatori più famosi al mondo, Cristiano Ronaldo e Lionel Messi: per questo entrambi furono condannati dalla giustizia spagnola. Ronaldo, che all’epoca dei fatti giocava nel Real Madrid, era stato condannato a due anni di carcere (con pena sospesa) e al pagamento di 18,8 milioni di euro al fisco spagnolo nel 2018, mentre Messi era stato condannato a 21 mesi di carcere (anche qui con pena sospesa) e al pagamento di circa 2 milioni di euro. Entrambi furono accusati di aver aperto società offshore per evitare di pagare le tasse sui proventi dei diritti d’immagine.

Il sito sportivo The Athletic ha raccontato di recente il primo caso scoperto di società offshore costituite per pagare meno tasse sui diritti d’immagine, avvenuto nella metà degli anni Novanta in Premier League. I protagonisti furono l’olandese Dennis Bergkamp e il britannico David Platt, entrambi acquistati dall’Arsenal nell’estate del 1995, rispettivamente dall’Inter e dalla Sampdoria. In Italia i due calciatori avevano stipulato contratti per lo sfruttamento dei diritti d’immagine da parte delle proprie società, cosa che in Premier League all’epoca non si faceva, e nel passaggio all’Arsenal questi contratti vennero replicati e adeguati ai loro nuovi guadagni.

All’epoca Bergkamp guadagnava 2 milioni di sterline all’anno (circa 2,5 milioni di euro odierni), oltre che 1,5 milioni di sterline (circa 1,8 milioni di euro) pagati direttamente a una sua società con sede all’estero per i diritti di immagine. Negli anni successivi al trasferimento il fisco britannico iniziò a dubitare della legittimità dell’operazione, ipotizzando che i diritti d’immagine dei calciatori non valessero davvero quanto li aveva pagati l’Arsenal, e che quello fosse solo un modo per pagare meno tasse sugli stipendi di Bergkamp e Platt. La commissione che indagò sul caso alla fine approvò l’operazione, ma da allora sono stati messi alcuni paletti al pagamento dei diritti d’immagine nel Regno Unito: la cifra che le società possono pagare per i diritti d’immagine di un giocatore deve essere al massimo il 20 per cento del suo stipendio totale.

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