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  • Sabato 14 dicembre 2019

Il pasticcio del Consiglio Europeo sul “Green Deal”

Il presidente dell'organo che riunisce i capi di stato e di governo aveva annunciato di aver trovato un compromesso sul piano per azzerare le emissioni nette, ma non era vero

(© European Union)
(© European Union)

Giovedì si è tenuta a Bruxelles una lunga riunione del Consiglio Europeo, l’istituzione europea composta dai capi di stato e di governo dell’Unione Europea, per discutere la recente proposta della nuova Commissione Europea guidata da Ursula von der Leyen di ridurre a zero le emissioni inquinanti nette prodotte dall’UE entro il 2050, il cosiddetto “Green Deal”.

Intorno a mezzanotte il presidente del Consiglio Europeo, il neoeletto ex primo ministro belga Charles Michel, ha twittato che era stato trovato un accordo per appoggiare la proposta della Commissione. Non era vero, però, come si è scoperto nel giro di pochi minuti: e la cosa ha creato un piccolo pasticcio, oltre a rivelare le profonde divisioni fra i paesi dell’Unione sui provvedimenti da prendere per contrastare il cambiamento climatico. Il Consiglio ha deciso di riparlare dell’argomento a giugno, quando la Commissione avrà diffuso proposte più precise su come raggiungere l’azzeramento delle emissioni nette.

Nella prima pagina delle conclusioni della riunione, si legge che in realtà tutti i paesi hanno trovato un accordo sull’obiettivo del 2050 tranne uno, «che in questo momento non è riuscito ad impegnarsi per raggiungerlo».

Il testo non lo cita esplicitamente ma si parla della Polonia, un paese con un governo semi-autoritario che negli ultimi due anni si è opposto alla maggior parte delle proposte progressiste discusse all’interno dell’Unione Europea, come la riforma del regolamento di Dublino o le risoluzioni sul rispetto dello stato di diritto in tutti i paesi dell’Unione. In questo caso la Polonia ha deciso di opporsi probabilmente perché l’80 per cento del suo fabbisogno energetico ancora oggi è coperto dal carbone, una sostanza molto inquinante e abbandonata da anni dagli stati più ricchi dell’Unione.

(il primo paragrafo delle conclusioni della riunione di ieri)

 

 

 

 

 

Per l’Unione Europea è una figuraccia notevole. Per le leggi europee tutte le decisioni più delicate vengono prese all’unanimità dal Consiglio, che è l’organo che detta l’agenda politica dell’Unione. Se negli anni questa regola ha di fatto messo nelle mani degli stati più piccoli un potere notevole, ha anche rappresentato un punto di forza: le conclusioni che uscivano dalle riunioni venivano prese sul serio dal resto della comunità internazionale, proprio perché tutti conoscono la rigidità delle istituzioni europee nella ricerca di una posizione comune.

Spacciare come raggiunta all’unanimità una decisione a cui uno stato si è esplicitamente sottratto «non manda un messaggio fortissimo, dal punto di vista politico», ha spiegato un diplomatico europeo al Guardian. Anche Politico ha notato che nella conferenza stampa tenuta dopo la riunione Michel «ha fatto fatica a spiegare la contraddizione fra l’annuncio di un compromesso e l’ammissione che se ne riparlerà a giugno nella speranza di convincere la Polonia». La Polonia, peraltro, non sembra intenzionata a cedere: il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha detto ai giornalisti di aver ottenuto una «esenzione» che permetterà alla Polonia di raggiungere l’obiettivo «alla sua andatura».

Non è esattamente così, dato che la commissione von der Leyen ha già fatto capire che se approvato il “Green Deal” sarà contenuto in una direttiva, cioè una legge legalmente vincolante per tutti i paesi europei. La Polonia potrà comunque continuare a opporsi alla sua approvazione.

Ogni proposta della Commissione – come in questo caso il “Green Deal” – dev’essere approvata con una maggioranza qualificata in Consiglio che comprenda il 55 per cento dei paesi dell’UE, cioè 16 su 28, oppure dai paesi che rappresentino almeno il 65 per cento della popolazione. Per opporsi efficacemente la Polonia dovrà quindi trovare altri alleati, che cercherà soprattutto negli altri paesi dell’Est, i più indietro per quanto riguarda la sostenibilità energetica.

Giovedì, per esempio, Repubblica Ceca e Ungheria hanno preteso che nelle conclusioni fosse inserito un paragrafo in cui viene rivendicato «il diritto di ogni stato membro a scegliere le proprie fonti energetiche e scegliere le tecnologie più appropriate»: un riferimento al fatto che i due paesi al momento sono dipendenti dall’energia nucleare, che diversi paesi europei non ritengono di potere includere fra le fonti di energia pulita. Il primo ministro ceco Andrej Babiš ha già fatto capire che se al prossimo giro non verranno offerte ulteriori garanzie potrebbe votare contro il “Green Deal”.