Possono convivere uomini e leoni?

Una ong sta provando ad addestrare i guerrieri masai a monitorare ed evitare i leoni, invece che ucciderli per proteggere il bestiame

Due leoni nel Tarangire National Park. (AP Photo/Jerome Delay)
Due leoni nel Tarangire National Park. (AP Photo/Jerome Delay)

Le aree in cui attualmente vivono i leoni sono il 6 per cento di quelle che occupavano un tempo, che spaziavano dall’India alla Turchia, dalla Grecia all’Iran, e si estendevano per praticamente tutta l’Africa. Oggi si stima siano rimasti circa 22.500 leoni africani, un terzo dei quali vive in Tanzania, il paese più importante per la loro tutela.

In Tanzania vivono anche decine di milioni di persone, diverse centinaia delle quali sono di etnia masai: e la convivenza tra umani e leone è da sempre complicata. Nella savana i leoni minacciano da sempre la vita delle altre comunità, principalmente quando attaccano il bestiame. In risposta, uccidere i leoni è una tradizione per i guerrieri masai, che su atti di coraggio del genere misurano spesso il proprio valore. Da un po’ di tempo, ha raccontato un reportage di Associated Press, una ong chiamata African People and Wildlife sta lavorando nel complesso tentativo di far convivere uomini e leoni.

«I nostri anziani hanno ucciso e quasi sterminato i leoni. A meno che non impartiamo loro un’educazione diversa, si estingueranno» ha spiegato ad Associated Press Saitoti Petro, un guerriero masai che come decine di altri ha imparato grazie a African People and Wildlife a tracciare gli spostamenti dei leoni, seguendo per ore le loro tracce e annotandone con precisione gli avvistamenti. In questo modo, Petro e gli altri masai impegnati nel progetto possono aiutare i pastori a scegliere percorsi privi di minacce, ed evitare gli attacchi dei leoni.

«Sarebbe una grande perdita se i nostri figli non dovessero conoscere i leoni», ha spiegato Petro, riferendosi al declino del 40 per cento della popolazione di leoni africani negli ultimi vent’anni. Il monitoraggio dei leoni non è l’unica attività di African People and Wildlife: negli ultimi dieci anni, l’ong ha aiutato oltre mille famiglie a costruire recinti fatti di reti metalliche e alberi di acacia, che hanno sostituito quelli più rudimentali e inefficienti fatti di rovi intrecciati, per proteggere il bestiame la notte.

Un recinto per il bestiame a Narakauwo, Tanzania. (AP Photo/Jerome Delay)

A minacciare i leoni sono una gran varietà di attività umane, prima fra tutte la distruzione della savana per farne campi coltivati e aree urbane. Ma anche nelle aree in cui l’habitat dei leoni è ancora intatto, sono spesso uccisi dai bracconieri e dagli abitanti locali, come ritorsione e prevenzione contro gli attacchi al bestiame. In condizioni di povertà estrema come quella di molte comunità della Tanzania, uno o più capi di bestiame uccisi da un leone possono rappresentare una perdita enorme, talvolta insuperabile.

Come hanno raccontato diversi anziani masai ad Associated Press, fino a non molto tempo fa uccidere un leone era un atto di coraggio che garantiva il rispetto della comunità. Sono avversari rispettati, però, e c’è la credenza che chi ne uccide più di nove nel corso di una vita riceva una sorta di maledizione. Ma negli ultimi anni queste uccisioni hanno cambiato modalità, avvenendo sempre più spesso attraverso carcasse avvelenate, che possono uccidere diversi esemplari (e non solo leoni, peraltro).

Ci sono alcuni dati incoraggianti: nel 2005 il bestiame del villaggio di Loibor Siret, di circa 3.000 abitanti, subì una media di tre attacchi di predatori al mese. Nel 2017, dopo anni di attività di African People and Wildlife, sono scesi a uno al mese. E ci sono indicazioni che simili sforzi possano aiutare anche la popolazione di leoni a crescere: secondo uno studio su un’area campione del Tarangire Lion Project, dal 2011 al 2015 sono cresciuti di un terzo, da 120 a 160, pur rimanendo ancora inferiori ai 220 del 2005.

Saitoti Petro, al centro e vestito di blu, mentre cerca tracce di leoni vicino al villaggio di Loibor Siret. (AP Photo/Jerome Delay)

Rimangono dei grossi problemi. Il primo è che le strategie di tutela faunistica sono solitamente applicate all’interno dei parchi naturali, che però rappresentano soltanto una parte dei territori nei quali si spostano i leoni, che nelle loro migrazioni stagionali percorrono centinaia di chilometri. Questi territori fuori dai parchi sono quasi sempre abitati, almeno in parte, e spesso le perone non sono favorevoli agli sforzi di protezione dei leoni, visti perlopiù come una minaccia.

Come racconta Associated Press, però, la cultura all’interno di molte comunità masai sta cambiando: «ci aspettiamo che le prossime generazioni ricevano un’istruzione sempre maggiore, e che quindi capiscano l’importanza degli animali selvatici» ha detto Petro.