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  • Domenica 27 ottobre 2019

I giornalisti contro Rodrigo Duterte

La storia di Maria Ressa, che da anni indaga sul violento presidente delle Filippine e che per questo rischia fino a 63 anni di carcere

La giornalista Maria Ressa dopo essere stata liberata su cauzione, il 14 febbraio 2019 (AP Photo/Bullit Marquez)
La giornalista Maria Ressa dopo essere stata liberata su cauzione, il 14 febbraio 2019 (AP Photo/Bullit Marquez)

Lo scorso aprile il Manila Times, il più antico giornale in lingua inglese delle Filippine, pubblicò un articolo in cui accusava una serie di persone di star organizzando un colpo di stato contro il presidente Rodrigo Duterte. A capo di questo tentativo di colpo di stato ci sarebbe stato il sito di notizie Rappler e in particolare la sua fondatrice Maria Ressa, accusati di aver diffuso notizie false per manipolare l’opinione pubblica contro Duterte, di aver avuto contatti con un’organizzazione di sinistra e di aver cercato di arruolare persone tra le forze di polizia per raggiungere il proprio obiettivo (il giornale aveva usato l’espressione “go for the kill”, che in inglese può avere sia il significato letterale di “uccidere” che uno più vago di “realizzare qualcosa”).

L’articolo del Manila Times era stato scritto da Dante Ang, presidente emerito del giornale nonché grande sostenitore di Duterte, che nel 2017 era stato designato dal presidente come inviato speciale del governo per le relazioni pubbliche internazionali. Oltre a Rappler, tra le persone accusate dal Manila Times c’era anche Ellen Tordesillas, giornalista di VERA Files, una piccola agenzia di stampa che ha seguito Duterte fin da quando era sindaco di Davao City. Tordesillas è stata ripetutamente attaccata da Duterte a causa del suo lavoro, e in un’occasione è stata definita dal presidente «una prostituta in tutto e per tutto».

Quello del Manila Times è solo l’ultimo capitolo di una guerra che Duterte combatte da anni contro i giornali che ne criticano le politiche, e in particolare contro Rappler e Ressa, ormai famosi a livello internazionale per la qualità e i rischi collegati al loro lavoro, come ha raccontato di recente un articolo del New York Times. Più volte Duterte ha attaccato violentemente i giornalisti come categoria, definendoli “feccia”, “spie”, “avvoltoi” e “nemici del popolo”, arrivando ad augurarsi di poter “uccidere il giornalismo” nelle Filippine: «Solo perché siete giornalisti non siete esentati dall’essere assassinati, se siete dei figli di puttana», aveva detto nel 2016.

Maria Ressa è una nota giornalista filippina che ha anche cittadinanza statunitense, e nel dicembre del 2018 la rivista americana Time l’aveva inserita tra le persone dell’anno, insieme ad altri giornalisti minacciati per il loro lavoro. Ressa, che ha 56 anni, per vent’anni ha lavorato come giornalista investigativa e corrispondente all’estero per la tv americana CNN, a capo sia della redazione di Manila che di quella dell’Indonesia. In seguito ha diretto la divisione dedicata alle notizie di ABS-CBN, il principale canale televisivo di notizie delle Filippine, e nel 2012 ha fondato il sito Rappler insieme ad altre tre giornaliste: il nome Rappler nasce dall’unione di rap (“discutere”) e ripple (“fare onde”, e quindi in senso lato “smuovere le cose”).

Fin dalla sua nascita, Rappler divenne molto conosciuto per la sua attività di lotta alla diffusione di notizie false nelle Filippine, e durante la campagna elettorale che poi fu vinta da Duterte nel 2016 iniziò a occuparsi della disinformazione operata dai sostenitori del presidente, che diffondevano notizie false sui social network per favorirlo. L’indagine giornalistica di Rappler proseguì anche dopo l’elezione di Duterte e fece emergere l’esistenza una “fabbrica di troll” che attraverso decine di profili falsi diffondevano notizie false in sostegno di Duterte e in particolare delle sue violente politiche di lotta alla droga. All’inizio del suo mandato, infatti, Duterte aveva promesso di condurre una violenta campagna contro trafficanti e spacciatori di droga, e a sostegno del governo si schierarono anche diversi personaggi famosi che pubblicarono sui social network messaggi in favore delle politiche di Duterte che ottennero grande eco su Facebook e Twitter.

A oggi nelle Filippine sarebbero state uccise almeno 6.600 persone nell’ambito di questa campagna, secondo il governo, ma la Commissione filippina per i diritti umani, un organo indipendente dal governo, dice che in realtà gli omicidi sono stati 27mila. Il New York Times racconta di come fin dal 2016 Rappler abbia condotto una serie di inchieste sulla “guerra alla droga” di Duterte, rivelando come spesso gli omicidi venissero compiuti anche quando le persone coinvolte non avevano nulla a che fare con lo spaccio di sostanze stupefacenti: un articolo di Patricia Evangelista del novembre 2016 rivelò come come un uomo e la sua ex fidanzata erano stati uccisi da un gruppo di motociclisti con l’accusa di essere spacciatori, quando in realtà erano innocenti. Sempre Evangelista, in un’inchiesta di tre anni dopo, scrisse di aver trovato prove evidenti che la polizia arruolava membri di gang criminali per commettere gli omicidi e che nella città di San Fernando tre politici erano stati uccisi, e il sindaco ferito, dopo che il loro nome era finito in una “lista di spacciatori e corrotti da uccidere” pubblicata su una pagina Facebook. Evangelista scoprì che dietro la lista c’erano un imprenditore locale e un politico rivale del sindaco.

A causa di queste indagini nel luglio del 2017 Duterte sostenne senza prove che Rappler era di proprietà di cittadini americani e per questo violava la Costituzione delle Filippine. Ressa negò l’accusa ma venne comunque avviata un’indagine per verificare la proprietà di Rappler: nel gennaio 2018 l’agenzia governativa che si era occupata di indagare chiese la revoca della licenza di testata giornalistica del sito, ma una corte di appello giudicò l’accusa senza fondamento.

In seguito l’agenzia iniziò a indagare Rappler anche per evasione fiscale, con l’accusa che non avesse pagato l’equivalente di 2 milioni e mezzo di euro di tasse. A causa di quest’accusa nel novembre del 2018 fu emanato un mandato d’arresto nei confronti di Ressa: la giornalista si consegnò alle autorità e poi pagò una cauzione per essere rilasciata. Ressa venne poi arrestata nuovamente nel febbraio del 2019 con l’accusa di diffamazione online, a causa di un’indagine giornalistica del 2012 in cui Rappler aveva raccontato del coinvolgimento di un ricco uomo d’affari in un traffico di droga e di essere umani, e dei suoi rapporti con un giudice che all’epoca era membro della più alta corte delle Filippine. Ressa venne nuovamente arrestata e rilasciata su cauzione a marzo, con l’accusa di aver violato la legge delle Filippine che vieta ingerenze straniere nella stampa, ricevendo fondi da una fondazione statunitense, la Omidyar Network.

Le indagini di Rappler nei confronti di Duterte sono proseguite anche in vista delle elezioni di metà mandato dello scorso maggio. Le elezioni sono state vinte nettamente da Duterte che ora ha ottenuto la maggioranza del Senato, che finora si era opposto ad alcune leggi molto discusse. A proposito della vittoria di Duterte, Ressa ha detto al New York Times che in fondo non è una notizia così terribile. Il fatto che abbia consolidato il suo potere, dice Ressa, significa che «possiamo fare il nostro lavoro. Dopo tutto, di cosa dobbiamo avere paura?». Nel frattempo sono iniziati i processi a carico di Ressa, sia per le accuse di diffamazione che per quelle sulle ingerenze straniere in Rappler. Se venisse giudicata colpevole potrebbe rischiare fino a 63 anni di carcere in tutto.