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  • Sabato 26 ottobre 2019

Che ne è stato dei rohingya

I piani per il rimpatrio non stanno funzionando, e quelli che non sono riusciti a scappare dalla Birmania continuano a vivere sotto la minaccia di genocidio

Due persone in un campo profughi del Bangladesh, 25 agosto 2019 (Allison Joyce/Getty Images)
Due persone in un campo profughi del Bangladesh, 25 agosto 2019 (Allison Joyce/Getty Images)

Dall’agosto del 2017 centinaia di migliaia di persone rohingya – che appartengono a una minoranza etnica di religione musulmana – sono scappate dal Myanmar e si sono rifugiate nei campi profughi del vicino Bangladesh. A partire dal novembre del 2018 i governi di entrambi i paesi hanno più volte annunciato l’inizio del loro rimpatrio, poi la data è stata rimandata, poi di nuovo annunciata e di nuovo rimandata. Di fatto i rohingya che sono tornati in Myanmar, dove non è stata offerta loro alcuna garanzia di sicurezza, sono solo poche decine; coloro che invece dal Myanmar non se ne sono mai andati sono ancora soggetti a persecuzioni sistematiche.

La crisi in Myanmar era cominciata nell’agosto del 2017 con gli scontri tra l’esercito birmano e i ribelli rohingya nello stato del Rakhine, nell’ovest del paese, vicino al Bangladesh. Nel giro di poche settimane centinaia di migliaia di civili – si parla di 730 mila persone – erano stati costretti a lasciare le loro case, avevano superato il confine con il Bangladesh e si erano rifugiati nei campi profughi vicini alla frontiera. Le violenze commesse dai soldati birmani e dall’esercito – i cui vertici, secondo l’ONU, dovrebbero essere processati – sono state enormi: uccisioni indiscriminate, incendi di interi villaggi e stupri diffusi e sistematici. Il maggio del 2018, a nove mesi dall’inizio dell’esodo, è stato il mese in cui le donne rohingya hanno cominciato a partorire i bambini nati da quelle violenze sessuali.

Il rimpatrio dei rohingya sarebbe dovuto cominciare nel gennaio del 2018 e avrebbe dovuto coinvolgere inizialmente 1.200 persone, che erano state inserite in un elenco senza il loro consenso, come hanno sostenuto molte organizzazioni non governative. Il piano, a seguito delle proteste internazionali, era stato dunque rimandato dal governo del Bangladesh. Nell’aprile 2018 i due paesi avevano raggiunto una specie di accordo promettendo rimpatri sicuri, volontari e dignitosi, ed erano state stabilite diverse nuove scadenze. Nessuna è andata però a buon fine e il centro di rimpatrio allestito a Nga Khu Ya in Birmania, al confine con il sud del Bangladesh, è praticamente deserto.

Gli stessi rohingya si sono opposti ai rimpatri sostenuti da diversi gruppi per la difesa dei diritti umani. La situazione in Myanmar, dicono, non offre garanzie di sicurezza, anche perché quelle garanzie dovrebbero essere mantenute da un governo che anche secondo l’ONU avrebbe avuto un ruolo attivo in quello che è accaduto. Nonostante dunque le condizioni di vita nei campi profughi del Bangaldesh siano intollerabili, i rohingya, scrive il New York Times, «sono perplessi dall’idea di dover tornare in un paese il cui governo si è rifiutato di ammettere che sono state commesse delle atrocità». «Come possiamo credere a coloro che hanno ucciso i nostri cari e i nostri vicini?», ha chiesto per esempio Ramjan Ali, l’unico sopravvissuto di una famiglia che è stata massacrata nel villaggio di Tula Toli.

Secondo i dati delle autorità birmane che si occupano di migrazioni, dal maggio del 2018 al maggio del 2019 dal Bangladesh sono stati rimpatriati solo 185 rohingya. Ma anche quel numero sembra essere poco realistico: di quelle 185 persone, 92 erano state fermate dalle autorità birmane mentre cercavano di fuggire dal paese su una barca, altre 62 erano appena state rilasciate dalle carceri della Birmania e solo 31 erano tornate volontariamente. E quando sono state chieste delle spiegazioni su queste cifre, le autorità birmane hanno accusato i rohingya più attivi politicamente e le organizzazioni musulmane che operano nei campi profughi del Bangladesh di aver sistematicamente dissuaso le persone: «I terroristi musulmani nei campi dicono che non è sicuro tornare, quindi le persone non hanno il coraggio di farlo, anche se rimpatriare è totalmente sicuro», ha detto un dirigente del distretto di Maungdaw, nello stato di Rakhine.

Il Myanmar, in realtà, ha fatto ben poco per assicurare ai rohingya un cambiamento delle condizioni che hanno portato al genocidio. Il governo si è rifiutato di considerare le proprie forze militari responsabili della violenza, anche se l’ONU, dopo un’indagine indipendente, ha dichiarato che i capi dell’esercito del Myanmar dovrebbero essere processati per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra («Non è stato ucciso un solo musulmano innocente», ha detto invece Soe Aung, funzionario del distretto di Maungdaw). Il paese finora si è rifiutato di collaborare a qualsiasi indagine internazionale sulle violenze di massa.

La narrazione ufficiale in Myanmar sostiene che i rohingya si siano bruciati le case da soli per ottenere la solidarietà internazionale e per beneficiare degli aiuti dati dai paesi musulmani. I funzionari birmani accusano i funzionari del Bangladesh di perdere tempo e si chiedono anzi se non siano proprio loro a rifiutarsi di rimpatriare i rohingya: «Forse vogliono che le persone restino lì», ha detto U Kyaw Sein, amministratore del campo di Nga Khu Ya. Questa narrazione però non trova riscontri. Non solo le atrocità sono state commesse e dimostrate, ma i bengalesi, spiega il New York Times, dopo aver mostrato una straordinaria ospitalità verso i rohingya, continuano a minacciare di reinsediarli su un’isola in mezzo al Golfo del Bengala.

Infine, i circa 600 mila rohingya che si trovano ancora in Myanmar vivono sotto la minaccia del “genocidio”: lo ha fatto sapere una missione indipendente dell’ONU in un nuovo rapporto pubblicato lo scorso 16 settembre a Ginevra. Per gli investigatori dell’ONU, a cui non è stato permesso entrare nel paese, il Myanmar continua a commettere crimini contro l’umanità. «Il Myanmar non sta rispettando l’obbligo di prevenire il genocidio, di indagare sul genocidio e di attuare una legislazione efficace che criminalizzi e punisca il genocidio», ha dichiarato Marzuki Darusman, presidente della missione. E ancora: «I 600.000 rohingya che rimangono in Birmania sono sistematicamente perseguitati e vivono sotto la minaccia del genocidio». Le loro condizioni di vita «deplorevoli» sono peggiorate nell’ultimo anno e tutto questo dimostra come il rimpatrio sia ad oggi «impossibile».