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  • Venerdì 6 luglio 2018

Le donne rohingya stuprate dai soldati birmani hanno partorito

Associated Press ha raccontato la storia di alcune di loro, e comunque sia andata sono storie terribili

"M" con il suo bambino, nato dopo una violenza sessuale nel campo do Kutupalong in Bangladesh 26 giugno 2018 (AP Photo/Wong Maye-E)
"M" con il suo bambino, nato dopo una violenza sessuale nel campo do Kutupalong in Bangladesh 26 giugno 2018 (AP Photo/Wong Maye-E)

Sono passati più di dieci mesi da quando i soldati del Myanmar avviarono l’ennesima campagna di persecuzione contro i rohingya, minoranza etnica di religione musulmana che abita le zone occidentali del paese. Le violenze commesse dai soldati furono enormi: uccisioni indiscriminate, incendi di interi villaggi e stupri. Nelle ultime settimane sono nati i bambini concepiti durante quelle violenze.

Queste nascite sono state vissute dalle donne stuprate come un dramma, per diverse ragioni: perché sono la conseguenza di una violenza, ovviamente, perché si tratta spesso di ragazze che hanno meno di diciotto anni, ma anche perché la comunità di cui fanno parte considera lo stupro uno stigma, una vergogna per chi l’ha subìto.

Pramila Patten, inviata speciale delle Nazioni Unite con il compito di verificare gli abusi sessuali nelle aree in conflitto, ha esplicitamente accusato le forze armate birmane di «ordinare, orchestrare e perpetrare le violenze sessuali» usate come arma di genocidio. Lo stupro «è uno strumento finalizzato allo sterminio e alla rimozione dei rohingya come gruppo etnico», ha detto. Nella storia, la violenza sessuale è stata molto spesso utilizzata come strategia di guerra pianificata e coordinata: dai tempi dell’antica Grecia fino ad oggi. Secondo l’Unione Europea, circa 20mila donne furono ad esempio stuprate in Bosnia negli anni Novanta dai nazionalisti serbi. Lo stupro sistematico ha conseguenze durature, di cui molto spesso ci si occupa poco, e che vanno molto oltre la fine del conflitto stesso.

Nei campi profughi del Bangladesh, stato che confina con il Myanmar e dove hanno trovato rifugio centinaia di migliaia di civili rohingya, alcune donne incinte sono riuscite a interrompere la gravidanza prendendo una pillola abortiva, ma non tutte. La legge del Bangladesh proibisce l’aborto dopo il primo trimestre e molte donne hanno dovuto dunque portare avanti la gravidanza e poi partorire.

Per le donne che sono rimaste incinte durante le violenze sessuali dello scorso anno dire la verità può significare l’isolamento totale, o rischiare di perdere tutto. Anche per questo motivo non ci sono numeri certi sugli stupri. Nessuno sa quante donne ci siano nei campi profughi del Bangladesh e Medici Senza Frontiere ha detto di essersi occupato di 224 vittime di violenza sessuale fino al 25 febbraio, ma ha aggiunto che ce ne sono molte altre che non hanno cercato aiuto. Le organizzazioni umanitarie, e specialmente quelle che lavorano con donne e bambini, si erano preparate alle nascite, ma a giugno il tasso di natalità nelle cliniche è rimasto relativamente stabile. Gli operatori umanitari hanno cominciato quindi a sospettare che molte donne avessero affrontato da sole le gravidanze: «Non si faranno avanti per i controlli prenatali, cercano di nascondere la loro gravidanza», ha detto un’ostetrica di Medici Senza Frontiere. «Sono sicura che molte sono morte durante la gravidanza o durante il parto».

Associated Press – che ha seguito la storia con diverse inchieste – ha intervistato alcune donne che hanno acconsentito ad essere identificate solo con l’iniziale del nome, dicendo di avere paura di ritorsioni da parte dell’esercito del Myanmar. Una di loro, scrive AP, era così preoccupata che i vicini scoprissero la gravidanza che ha patito in silenzio durante tutto il travaglio infilandosi una sciarpa in bocca per non far sentire le grida. Un’altra, una bambina di 13 anni, “A”, stuprata e incinta, temeva che partorire il bambino di un soldato buddhista l’avrebbe contaminata e che poi nessuno l’avrebbe mai voluta come moglie. Quando ha scoperto di essere incinta, la madre l’ha portata in una clinica, ma lei si è talmente spaventata dalla descrizione dell’operazione che ha deciso di non farla. Si è chiusa dunque per mesi nell’alloggio del campo profughi cercando di appiattire la pancia avvolgendola con delle sciarpe. Usciva solo per usare il bagno a pochi metri di distanza.

“A,” una bambina di 13 anni stuprata dai soldati birmani, ha partorito una bambina che ha poi dato in adozione. Ora si trova in un campo profughi del Bangladesh, 26 giugno 2018 (AP Photo/Wong Maye-E)

“A” ha spiegato che molti uomini che avevano mostrato interesse per lei se ne sono andati quando hanno saputo dalla violenza che aveva subito. «Voglio giustizia», ​​ha detto, «Ecco perché sto parlando con te». “A” ha partorito una bambina e l’ha data in adozione. Non sa chi si prende cura della figlia adesso, ma i gruppi che operano nei campi hanno trovato alcune famiglie rohingya disposte a farsi carico dei bambini nati dagli stupri. Finora sono stati collocati circa dieci bambini.

Un’altra storia raccontata da AP è quella di “M”, che ha una cicatrice sul seno lasciata dal soldato che l’ha morsa mentre la stuprava. AP scrive che durante l’intervista il bambino nato da quell’aggressione piangeva tra le braccia della sorella di 8 anni che cercava di consegnarlo alla donna, che però non lo voleva: «Io non lo amo». Il marito di “M” non era a casa: da quando ha saputo dello stupro e della gravidanza non ha più voluto avere a che fare con lei. “M” ha raccontato la storia della violenza che ha subito, e che è simile a quella di molte altre: era dentro casa, ha sentito un rumore di spari e un coro di urla. Ha guardato fuori e ha visto i soldati che davano fuoco alle case. Le sue due figlie sono riuscite a scappare, ma quando “M” è uscita dalla porta con suo figlio di 2 anni in braccio, sei soldati la stavano aspettando. Uno di loro le ha strappato il bambino dalle braccia, lo ha strangolato davanti a lei e ha gettato il suo corpo a terra. I soldati l’hanno costretta a rientrare in casa, si sono slacciati i pantaloni e l’hanno violentata uno dopo l’altro. Sono passati due giorni prima che suo marito la trovasse e la portasse via superando il confine in Bangladesh. Il marito le ha poi chiesto se i soldati l’avessero violentata, ma lei, vergognandosi troppo per dirgli la verità, ha risposto che l’avevano solo picchiata.

“M” mostra il morso sul seno dopo la violenza sessuale. Ora si trova nel campo di Kutupalong in Bangladesh, 26 giugno 2018 (AP Photo/Wong Maye-E)

Dopo due mesi, “M” si è accorta di essere incinta. Aveva le vertigini e la nausea e desiderava cibi acidi come il tamarindo, proprio come le era successo con le altre gravidanze. Terrorizzata da come avrebbe reagito il marito, non ha detta nulla. Sono passati altri due mesi e sapeva che non avrebbe potuto nascondere la gravidanza molto a lungo. Così ha deciso di raccontare la sua storia: «Sono stata stuprata da sei soldati. E sono incinta». Suo marito ha reagito dicendo che era colpa sua. Le ha chiesto perché non era riuscita a scappare dai soldati, e le ha detto che non avrebbe mai più potuto fare sesso con lei. Poi ha detto che voleva sposare un’altra donna: «Sei inutile per me».”M” lo ha pregato di non lasciarla, gli ha detto che aveva bisogno di aiuto con le figlie che già avevano.

“M” ha partorito da sola e senza alcun aiuto. Il marito non ha mai guardato né baciato il bambino a cui lei non ha dato alcun nome per diverso tempo. Poi ha scelto il primo che le era venuto in mente: dice che per lei non ha molta importanza, però non vuole dare il bambino in adozione. Il suo unico altro figlio maschio è stato ucciso nell’attacco, quindi ha deciso di prendersi cura di questo bambino come può, nella speranza che un giorno lui si prenderà cura di lei. In fondo, dice, è solo un bambino e non ha alcuna colpa. Nemmeno lei ha qualche colpa, eppure continua a rimproverarsi per lo stupro che ha subìto: mette in discussione la sua decisione di non uscire di casa prima, si chiede in che cosa ha sbagliato e passa la maggior parte del tempo sdraiata su una stuoia.

“M” con sua figlia di 8 anni e con il bambino nato da una violenza sessuale, Kutupalong Bangladesh, 26 giugno 2018 (AP Photo/Wong Maye-E)

Alcune donne hanno invece raggiunto una certa consapevolezza, scrive AP, e in un certo senso si sono perdonate, «anche se non c’è mai stato nulla da perdonare». “H”, che ha abortito, si vergognava così tanto della gravidanza che non ha detto niente a nessuno. Ora, però, ha iniziato a condividere la sua storia con altri, e ha concentrato la sua rabbia sugli uomini che l’hanno stuprata: «Non ha fatto nulla per attirare la loro violenza, dice. Quindi perché dovrebbe vergognarsi?».