Due anni fa il governo italiano ha ospitato un grosso criminale libico

Un leader tribale noto per essere in combutta coi trafficanti di esseri umani venne a Catania per un incontro riservato, ha scoperto Avvenire

Abdul Raman al Milad “Al Bija“ (screenshot da un'intervista al Tg1)
Abdul Raman al Milad “Al Bija“ (screenshot da un'intervista al Tg1)

Un’inchiesta del giornalista di Avvenire Nello Scavo ha scoperto che due anni fa il governo italiano ospitò un grosso criminale libico chiamato Abd al Rahman Milad “al Bija”, noto soprattutto per essere in combutta coi trafficanti di migranti, durante un incontro riservato avvenuto in un centro di accoglienza in provincia di Catania nel maggio del 2017. Scavo sostiene che l’incontro di Catania sia la prova che il governo italiano – allora guidato dal centrosinistra – stesse trattando con i trafficanti libici per fermare il flusso di migranti dalla Libia, un paese in guerra civile dal 2011 diventato negli ultimi anni il principale punto di partenza per i migranti che vogliono raggiungere l’Italia via mare.

Il governo italiano ha sempre smentito questa ricostruzione, ma la maggior parte degli analisti e degli esperti di immigrazione, così come i principali giornali internazionali, lo danno da tempo per assodato. Proprio a partire da agosto 2017, fra l’altro, i flussi di migranti dalla Libia diminuirono drasticamente, senza mai tornare ai numeri del 2016 e 2015.

Scavo ha parlato con una fonte che aveva partecipato all’incontro, che ha anche fornito una foto dell’uomo. Alcuni mesi prima dell’incontro l’uomo era diventato piuttosto noto perché in un video diffuso dal Times di Londra lo si vedeva frustare alcuni migranti appena soccorsi in mare. Sull’incontro vero e proprio non si sa moltissimo: per ragioni di sicurezza Avvenire ha oscurato le facce dei partecipanti tranne quella di al Bija. Scavo ha scritto che al Bija e altri libici erano stati «accompagnati» dalle autorità italiane: non è chiaro nemmeno a chi si riferisca, se a funzionari dell’intelligence o del ministero dell’Interno, che in quei mesi era guidato da Marco Minniti e curava in maniera diretta i rapporti con la Libia e la gestione dei flussi migratori.

I critici di Minniti e dell’approccio del governo italiano in Libia – che nei confronti dell’immigrazione non è cambiato moltissimo né durante il primo governo di Giuseppe Conte né durante quello attuale – gli rimproverano da tempo la legittimazione di criminali e miliziani libici, che a loro dire avrebbe ulteriormente peggiorato la tensione in Libia con l’unico scopo di impedire ai migranti di raggiungere l’Italia. Nei centri di detenzione libici per migranti le violazioni dei diritti umani, le violenze e gli stupri sono sistematici, come documentato da moltissime inchieste giornalistiche e rapporti di organizzazioni internazionali.

Secondo una fonte di Scavo, i libici erano molto interessati a capire come funzionasse il centro di accoglienza di Mineo, in provincia di Catania – uno dei più grandi e problematici in Italia, prima che fosse chiuso da Matteo Salvini nel luglio del 2019 – e a un certo punto fecero capire alla delegazione italiana che «il “modello Mineo” si può esportare in Libia e che l’Italia potrebbe finanziare la realizzazione di strutture per migranti in tutto il Paese, risparmiandosi denaro e problemi». Proprio nelle settimane seguenti, fra luglio e agosto del 2017, il governo italiano avrebbe poi stretto un patto con alcune milizie libiche che controllavano il traffico di esseri umani: la notizia fu anticipata da un’inchiesta di Francesca Mannocchi, e poi confermata da una dettagliata ricostruzione di Associated Press, mai smentita nel merito dal governo italiano.

La presenza di al Bija è particolarmente imbarazzante perché difficilmente il governo italiano poteva non sapere chi avesse davanti. A febbraio del 2017 al Bija era stato oggetto di una lunga inchiesta della giornalista Nancy Porsia, insieme a Mannocchi una delle poche giornaliste italiane che si occupano con continuità di Libia.

Porsia aveva ricostruito che nel 2011 Milad – noto soprattutto col suo nome di guerra, al Bija – aveva lasciato l’accademia navale per unirsi ai ribelli che volevano rovesciare il regime di Gheddafi. Durante la guerra, la tribù a cui appartiene era riuscita ad impadronirsi dei pozzi di petrolio di Zawiyah, una piccola città costiera della Libia da dove sono partite negli anni centinaia di imbarcazioni di migranti. Successivamente al Bija divenne capo della Guardia costiera locale e cominciò a collaborare con i trafficanti locali di esseri umani. Porsia sosteneva che nel 2017 tutti i trafficanti di Zawiyah erano tenuti a cedere ad al Bija una percentuale delle loro entrate: quelli che non pagavano, raccontava Porsia, «vengono intercettati dalla sua “guardia costiera”, che ruba loro i motori e lascia le barche piene di migranti in mezzo al mare, oppure li riporta nel centro di detenzione Al Nasser di Zawiyah, sempre di proprietà della tribù di al Bija».

In un rapporto commissionato dall’ONU e relativo alla transizione politica in Libia (PDF) pubblicato poche settimane dopo l’incontro di al Bija con le autorità italiane – quindi frutto di ricerche compiute nei mesi precedenti – si denunciava il fatto che la Guardia costiera libica fosse «direttamente coinvolta in gravi violazioni dei diritti umani» dei migranti, e si faceva esplicitamente il nome di al Bija, descritto come un «collaboratore» di Walid al Hadi al Arbi Koshlaf, un potente criminale di Zawiyah che fa affari in diversi campi fra cui il traffico di esseri umani e la vendita di carburante ai trafficanti veri e propri. In un’intervista data al Tg1 qualche mese dopo, al Bija si è difeso raccontando di voler chiarire la sua posizione con l’ONU, ma non è chiaro se sia mai successo né se al Bija sia ancora attivo.

Al momento né Minniti né il governo italiano hanno commentato l’inchiesta di Scavo.