La strategia che ha portato Gucci al successo

È tra le poche aziende di moda in grado di tradurre la visione bizzarra del direttore creativo in prodotti accessibili e che vendono tanto

La collezione primavera/estate 2020 di Gucci, Milano, 22 settembre 2019 
(Jacopo Raule/Getty Images for Gucci)
La collezione primavera/estate 2020 di Gucci, Milano, 22 settembre 2019 (Jacopo Raule/Getty Images for Gucci)

A giugno Marco Bizzarri, amministratore delegato dell’azienda di moda Gucci, disse che l’obiettivo di vendite del 2020 sarebbe stato di 10 miliardi di euro, vicino a quello delle due aziende di moda più importanti al mondo: Chanel, che nel 2017 aveva venduto per 8,6 miliardi di euro, e Louis Vuitton, che nel 2018 aveva superato i 10 miliardi di vendite (LVMH, il gruppo del lusso che la controlla, non fornisce dati più precisi).

È un risultato a portata di mano ma che pochi anni fa, prima dell’arrivo di Bizzarri nel gennaio 2015, sarebbe stato inimmaginabile: Gucci era un’antica e prestigiosa azienda di moda fiorentina che negli anni Novanta era stata sul punto della bancarotta, aveva ritrovato il successo sotto la direzione creativa dello stilista Tom Ford, dal 1994 al 2004, per poi stagnare in anni di crisi e incertezze sotto quella della stilista Alessandra Facchinetti e poi di Frida Giannini. Le cose vennero ribaltate dall’arrivo di Bizzarri, che ebbe l’intuizione di scegliere come nuovo direttore creativo l’allora sconosciuto Alessandro Michele: aveva iniziato a disegnare gli accessori da Fendi ed era arrivato a Gucci nel 2002, dove aveva ricoperto lo stesso ruolo prima di diventare uno stretto collaboratore di Giannini. Michele disegnò in pochissimo tempo la collezione donna per la primavera/estate di quell’anno, stravolgendo l’estetica di Gucci e lanciando uno stile inconfondibile, imitatissimo e che è diventato dominante nel mondo della moda: un accostamento di stili di epoche e gusti lontanissimi, coloratissimo, eccessivo, che si ferma sempre un filo prima dell’accozzaglia e del kitsch, in un momento in cui il gusto dominante era quello sobrio e raffinato della stilista Phoebe Philo di Céline.

Nel 2014 le vendite di Gucci furono di 3,5 miliardi di euro ma dopo l’arrivo di Bizzarri e Michele aumentarono a ritmi altissimi, arrivando nel 2017 al 45 per cento in più rispetto all’anno prima; il 2018 si chiuse con ricavi di 8,3 miliardi di euro, pari all’80 per cento di quelli del gruppo del lusso Kering, di cui Gucci fa parte. Da quest’anno la crescita dell’azienda si è normalizzata: nel primo trimestre del 2019 le vendite sono state di 2,3 miliardi di euro, il 20 per cento in più del primo trimestre del 2018, che era invece cresciuto del 37,9 per cento rispetto al primo trimestre del 2017. Nel primo semestre di quest’anno le vendite sono cresciute del 16 per cento rispetto a quello del 2018, toccando i 4,6 miliardi di euro: per dare un’idea, le vendite dei primi sei mesi di quest’anno hanno superato quelle dell’intero 2016. Quest’anno il marchio sta attraversando per la prima volta un rallentamento: nel secondo trimestre c’è stata una decrescita del 2 per cento delle vendite nel Nord America, dovuta anche a una polemica su un passamontagna che ricordava il blackface (la pratica dei bianchi, considerata razzista, di dipingersi il volto di nero), mentre nell’Asia del Pacifico la crescita è passata dal 47 al 23 per cento. È una normalizzazione che prima o poi sarebbe arrivata e non un momento di crisi, a cui Michele ha già provato a reagire disegnando una collezione diversa dal solito.

Questo successo economico ma anche culturale, che ha portato Gucci a diventare uno dei marchi più cool al mondo, è attribuito alla gestione di Bizzarri e alla creatività di Michele, ma si dimentica spesso, scrive il sito di moda Business of Fashion, il ruolo centrale e determinante del merchandising, gestito dal responsabile Jacopo Venturini. La strategia del merchandising da Gucci è infatti molto diversa da quella della maggior parte delle aziende di moda e ha contribuito in modo centrale alle vendite e al successo del marchio.

La prima cosa da sapere è che i ricavi delle aziende di lusso non si appoggiano tanto sugli abiti che si vedono alle sfilate quanto sugli accessori e sui prodotti più economici e facili da portare, pensati apposta per essere venduti facilmente: sneaker, portachiavi, borsette, cinture, foulard, cappellini (da Gucci per esempio la pelletteria copre il 57 per cento delle vendite). Da un lato c’è il lavoro del direttore creativo e della sua squadra, che crea una visione del marchio, gli costruisce attorno un mondo, lo indirizza, dall’altra quello degli uffici del merchandising, che lavorano sui prodotti che l’azienda si aspetta di vendere di più e ne curano tutti gli aspetti: gli analisti individuano le richieste del mercato e gli stilisti le traducono in oggetti che poi vengono promossi e distribuiti sempre tenendo conto di dati, calcoli e previsioni. Nella maggior parte delle aziende questi due mondi lavorano separatamente: il direttore creativo disegna la sua collezione, la fa sfilare in passerella e successivamente chi lavora nel merchandising traduce quel che ha visto negli oggetti che finiranno nei negozi. Da Gucci invece lavorano in modo integrato, sviluppando in due direzioni diverse – una più artistica e stravagante, l’altra più pragmatica – la visione di Gucci immaginata di volta in volta da Michele. Aiuta anche il fatto che lo stesso Michele abbia iniziato a lavorare come stilista di accessori e abbia quindi chiaro il ruolo centrale che ricoprono nell’economia di un marchio.

I grandi classici e il loro corrispettivo alla moda del momento (Business of Fahion)

Questo doppio binario – l’eccentricità creativa da un lato e la concretezza commerciale dall’altro – innerva tutta la strategia di Gucci, che non precludendosi alcun tipo di mercato è riuscita ad allargare la sua base di clienti in tutto il mondo. Bizzarri stesso ha spiegato che, scrive il sito Business of Fashion, «la grossa tendenza di oggi non è l’esclusività. Un prodotto può essere esclusivo ma l’esclusività di un marchio è qualcosa di molto diverso. Oggi è l’inclusività la carta vincente di un marchio, in tutti i suoi aspetti: nei negozi, nella pubblicità, nella comunicazione e soprattutto nelle persone. […] Le cosa assolutamente importante è che non ci rivolgiamo a una fascia d’età. Non abbiamo mai voluto rivolgerci solo ai Millennials [quelli nati dai primi anni Ottanta alla metà degli anni Novanta, n.d.r.]. Abbiamo sempre cercato di rivolgerci a uno stato mentale». Il discrimine però non è solo l’età: Gucci cerca di intercettare sia i clienti più sperimentali e alla moda che quelli che desiderano un buon prodotto che duri nel tempo. È una delle cose più difficili che deve fare un’azienda di moda: da un lato inventarsi sempre qualcosa di nuovo e incarnare le tendenze senza bucarle, rischiando di perdere centinaia di migliaia di euro; dall’altra proteggere il marchio e garantire le vendite con i grandi classici che restano gli stessi di stagione in stagione. Finora Gucci ha cercato di proporre un’idea di mondo e insieme tantissime tendenze concrete, così da guadagnare nuovi clienti e mantenere saldi quelli storici, che preferiscono il mocassino classico senza la decorazione di perle o pelliccia.

Nel 2015 Bizzarri spiegò la strategia di merchandising di Gucci dicendo che «in passato era stata gestita facendo molta attenzione ai dati. Avevo tonnellate di dati a disposizione, se chiedevo come andavano le borsette mi davano duemila indicatori sulle prestazioni. La strategia era molto orientata verso i numeri e poco sulla sensibilità e sul sentimento del prodotto. Così decisi di cambiarne la struttura e chiamai Jacopo da Valentino. Volevo davvero lavorare con lui perché avevo capito che era uno che i prodotti li sentiva». Da allora Venturini lavora con gli stilisti di Michele per tradurre le borse, le scarpe e gli accessori in versioni più commerciali, anziché farlo a sfilata conclusa: «Non volevo», spiega sempre Bizzarri, «che Alessandro disegnasse la collezione e poi dire a fine stagione “le cose che vendono meglio dovete farle in un colore e in una taglia diversi”. È troppo tardi, bisogna sviluppare tutto insieme. Noi tre lavoriamo in questo modo».

Il risultato, conclude BoF, è che i pezzi più semplici riflettono ancora la visione di Michele e non sembrano «una linea secondaria di prodotti annacquati». Ogni collezione presenta circa il 30 per cento di prodotti interamente nuovi e il 70 per cento di classici, tutti disegnati insieme e in accordo. Alcune di queste novità possono diventare a loro volta grandi classici come, tra i successi più recenti, la borsetta Dionysus, le sneaker Ace e i mocassini di pelle Princetown, che rappresentano il cuore delle vendite mentre Michele continua a stupire con pezzi più bizzarri e stagionali, come le scarpe da trekking di lusso e i copri-orecchie d’oro.