Il grande studio sull’omosessualità e la genetica

Ha dimostrato che non esiste un “gene dell’omosessualità” ma che i geni influenzano l’orientamento sessuale insieme a fattori ambientali

Due giovani donne si baciano durante il Pride di Atene del 14 giugno 2014 (AP Photo/Petros Giannakouris, File)
Due giovani donne si baciano durante il Pride di Atene del 14 giugno 2014 (AP Photo/Petros Giannakouris, File)

Il 29 agosto su Science è stato pubblicato il più grande studio mai fatto finora per indagare il rapporto tra omosessualità e genetica. È un lavoro molto ambizioso, basato sui dati genetici di 500mila persone. In sostanza dice che i geni hanno un peso nel determinare l’orientamento sessuale di una persona, ma non c’è un singolo gene coinvolto: al contrario tanti diversi geni hanno un piccolo effetto. Dice però anche che l’omosessualità dipende solo in parte dai geni (è stato stimato che influenzino l’orientamento sessuale per il 25 per cento o meno), e che il resto dipenda da fattori ambientali. Per questo è impossibile stabilire se una persona sia omosessuale o bisessuale solo guardando il suo DNA.

Per lo studio è stata usata la tecnica della cosiddetta “associazione genome-wide” (GWA), che permette di analizzare dati genetici di un grandissimo numero di persone e di trovare delle correlazioni tra marcatori genetici e tratti fisici o comportamentali. In particolare i ricercatori hanno cercato cosa avevano in comune nel proprio DNA persone che avevano detto di aver fatto sesso con o di essere attratte da persone del loro stesso genere. Hanno scoperto che cinque comuni differenze in alcune sequenze di DNA sono responsabili per una percentuale statisticamente significativa, ma comunque molto bassa, del comportamento omosessuale: ciascuna conta per meno dell’1 per cento. Altre parti del DNA hanno a loro volta un’influenza, ma ciascuna in misura ancora più piccola. Migliaia di diversi pezzetti di DNA, insieme ai primi cinque, sono responsabili del comportamento omosessuale per una percentuale compresa tra l’8 e il 25 per cento.

I dati usati per le analisi sono quelli di 408mila uomini e donne britannici con età compresa tra i 40 e i 69 anni contenuti nel database dell’ong U.K. Biobank e quelli di 70mila utenti, perlopiù americani, del servizio di test genetici 23andMe, che avevano un’età media di 51 anni. Non sono stati considerati i dati relativi a persone transgender e tutti quelli considerati appartengono a persone di origine europea: per questa ragione lo studio ha dei limiti di generalizzazione. Un aspetto dello studio che lo rende migliore rispetto a ricerche precedenti, oltre al maggior numero di dati usati, è il fatto che molti siano di donne e non solo di uomini.

Un video del Broad Institute che spiega i risultati dello studio, in inglese:


Lo studio è stato realizzato da un gruppo internazionale di ricercatori, tra cui quelli del Broad Institute del Massachusetts Institute of Technology e dell’Università di Harvard, un istituto di ricerca che si occupa di genomica, e il primo firmatario dell’articolo su Science è Andrea Ganna, un ricercatore italiano.

Insieme all’articolo il Broad Institute ha pubblicato vari saggi di commento, non tanto sul lavoro di ricerca svolto, ma sulle riflessioni etiche e sociologiche dei ricercatori che hanno portato alla realizzazione dello studio e alla diffusione dei suoi risultati. Il legame tra omosessualità e genetica è infatti un tema delicato e per questo gli autori dello studio hanno coinvolto varie organizzazioni della comunità LGBTQ per discuterne prima della sua pubblicazione. Molti scienziati che fanno parte della comunità LGBTQ hanno detto di essere preoccupati che le conclusioni dello studio possano essere sfruttate da chi cerca di usare dati scientifici come argomentazioni a favore di pregiudizi e discriminazioni nei confronti delle persone omosessuali.

In particolare, si teme che qualcuno possa proporre di usare l’ingegneria genetica per influenzare l’orientamento sessuale, per quanto sia una cosa tecnicamente impossibile. Si teme anche che viceversa, dato che lo studio ha concluso che i geni contino fino a un certo punto nel determinare l’omosessualità, possa confermare l’idea che essere omosessuale sia una scelta, appoggiata da chi sostiene che esistano terapie psicologiche in grado di modificare l’orientamento sessuale.

Ad esempio, il ricercatore Joe Vitti ha commentato la diffusione dei risultati dello studio dicendo:

Come persona queer e come genetista, faccio fatica a capire perché fare uno studio di associazione genome-wide per il comportamento non-eterosessuale. Nessuno mi ha ancora dato un’argomentazione convincente secondo cui i potenziali benefici di questo studio superino i suoi potenziali danni.

Ben Neale, uno dei ricercatori che hanno guidato lo studio, ha detto: «Grazie alla scienza possiamo capire meglio chi siamo e non dovremmo avere paura della conoscenza». Neale, che è gay, ha anche detto che alcune persone potrebbero fraintendere le conclusioni dello studio o anche storpiarle in modo deliberato, come è successo molte volte in passato con altre ricerche sulla genetica, ma pensa che fosse importante smentire l’idea secondo cui esisterebbe un singolo “gene dell’omosessualità” così come quella secondo cui l’omosessualità sarebbe una scelta. Ha anche detto che secondo lui era importante che istituzioni autorevoli come il Broad Institute facessero uno studio su questo tema prima che gruppi di ricerca più piccoli se ne occupassero e rischiassero di diffondere risultati meno affidabili o di comunicarli in modo sbagliato.

In generale, è bene ricordare che la sessualità umana è una cosa molto complicata su cui ci sono ancora molte cose che non sappiamo.