Quanto è importante l’Amazzonia per la Terra

Non è vero che "produce il 20 per cento dell'ossigeno globale" come hanno scritto in molti (anche noi), ma resta indispensabile

Gli incendi in Amazzonia visti dalla Stazione Spaziale Internazionale (Luca Parmitano / ESA)
Gli incendi in Amazzonia visti dalla Stazione Spaziale Internazionale (Luca Parmitano / ESA)

Da settimane migliaia di incendi stanno bruciando ampie porzioni della foresta amazzonica, la più grande foresta pluviale della Terra, che si trova nella parte nord-occidentale del Brasile e in porzioni di Perù, Colombia e di altri paesi del Sudamerica. Oltre a ospitare un’enorme quantità di specie animali e vegetali, l’Amazzonia è considerata uno dei più importanti produttori di ossigeno per l’intero pianeta. In molti articoli pubblicati dai media sugli incendi amazzonici – compreso il Post – sono circolate però informazioni poco chiare o scorrette sull’effettiva quantità di ossigeno prodotta dalla foresta amazzonica, portando a un po’ di confusione sull’emergenza ambientale in corso.

L’Amazzonia in brevissimo
L’Amazzonia è una foresta pluviale tropicale, la cui vegetazione si è espansa enormemente grazie alla condizioni calde e umide offerte dal bacino idrografico del Rio delle Amazzoni e dei suoi numerosi affluenti. L’intera area ha un’estensione che supera i 7 milioni di chilometri quadrati, con la foresta vera e propria che che occupa circa 5,5 milioni, circa 18 volte l’Italia. Da sola, la foresta amazzonica costituisce circa la metà di tutte le foreste pluviali ancora esistenti sulla Terra; ha un ecosistema estremamente diversificato, conta oltre 16mila specie di piante e si stima che nel complesso ospiti oltre 390 miliardi di alberi. La sua preservazione non è solo essenziale per tutelare la vita delle migliaia di specie che la popolano, ma anche per mantenere il giusto equilibrio di ossigeno nell’atmosfera.

Gli incendi
Nelle foreste gli incendi si sviluppano spesso per cause naturali e hanno la funzione di aiutare a ripulire il sottobosco, in modo che le piante possano crescere a una giusta distanza tra loro e diventare più forti. Gli incendi di grandi dimensioni sono però rari nelle foreste pluviali, dove le condizioni climatiche consentono alla vegetazione di crescere e prosperare anche senza i “reset” ciclici degli incendi.

Molti degli incendi scoppiati in queste settimane nella foresta amazzonica, soprattutto in Brasile, sono dolosi: innescati per accelerare la deforestazione e sfruttare il terreno per le coltivazioni. Il presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, ha detto in più occasioni di essere favorevole alla deforestazione e questo ha probabilmente indotto piccoli e medi coltivatori ad appiccare più incendi del solito, sapendo di correre minori rischi rispetto a un tempo dal punto di vista legale.

Secondo i dati satellitari raccolti dall’iniziativa Copernicus dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), attualmente gli incendi nella foresta amazzonica sono il quadruplo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Tra il primo e il 24 agosto l’ESA ha rilevato circa 4mila incendi, contro i 1.100 dell’agosto del 2018. Gli incendi hanno prodotto almeno 228 milioni di tonnellate di anidride carbonica (CO2), uno dei principali gas serra responsabili del riscaldamento globale. È comunque ancora presto per stime definitive, considerato che la stagione secca prosegue di solito fino a ottobre e che oltre alla dimensione dei singoli incendi c’è da valutarne la loro effettiva estensione.

Quanto ossigeno produce la foresta amazzonica
Negli ultimi giorni sono spesso circolate informazioni sul fatto che la foresta amazzonica produca da sola circa il 20 per cento dell’ossigeno presente nell’atmosfera. Il dato è stato diffuso da giornali e televisioni e ripreso da numerosi politici, compreso il presidente francese Emmanuel Macron, nel corso del G7 da poco concluso a Biarritz, in Francia. Anche il Post ha dato questa informazione in alcuni articoli poi corretti.

In realtà, hanno spiegato diversi esperti e ricercatori, quella del 20 per cento è una percentuale piuttosto arbitraria, anche perché è difficile stimare con precisione quanto ossigeno sia prodotto da una foresta (soprattutto di quelle dimensioni) e quali siano le oscillazioni di anno in anno nella produzione, a seconda di altre variabili. Al netto di queste incertezze, una stima più verosimile si attesta intorno a poco meno del 10 per cento di tutto l’ossigeno presente nell’atmosfera.

Parlare comunque di solo ossigeno prodotto non ha molto senso, perché oltre a sottrarla, le piante producono anche anidride carbonica. E qui è opportuno un breve ripasso sulla fotosintesi, per chi a scuola era un po’ distratto.

Fotosintesi e respirazione
La fotosintesi clorofilliana è il processo chimico con cui le piante (e altri organismi) producono carboidrati e altre sostanze organiche, partendo dall’anidride carbonica disponibile nell’atmosfera e dall’acqua. Per farlo sfruttano come fonte di energia la più grande e potente a disposizione sulla Terra: il Sole.

Nel corso della fotosintesi, la luce solare consente alla pianta di convertire sei molecole di anidride carbonica e sei molecole di acqua in una molecola di glucosio, uno zucchero fondamentale per la vita della pianta. La reazione porta inoltre a un sottoprodotto: sei molecole di ossigeno, che la pianta libera nell’atmosfera attraverso le sue foglie.

(Zanichelli)

Come gli altri esseri viventi, anche le piante “respirano” e il prodotto della loro respirazione cellulare è dell’anidride carbonica, che viene quindi rilasciata nell’atmosfera. Fortunatamente per noi, e per gli altri organismi aerobi, il bilancio complessivo è in positivo per l’ossigeno: semplificando molto, le piante immagazzinano più anidride carbonica nella fotosintesi di quanta ne producano con la respirazione consumando ossigeno. Parte del carbonio che viene assorbito rimane nella parte “morta” della pianta che costituisce il legno interno. Resta lì – a seconda del ciclo di vita della pianta – per anni, decenni e in diversi casi secoli. Quando la pianta muore e si decompone, l’anidride carbonica accumulata viene infine rilasciata nell’atmosfera. Se si sviluppa un incendio, il processo avviene prematuramente e si liberano grandi quantità di anidride carbonica, come sta avvenendo in Amazzonia.

Quindi la foresta amazzonica non è un “polmone verde”?
Se per assurdo isolassimo la foresta amazzonica da tutto il resto e la osservassimo nel lunghissimo periodo, alla fine della sua esistenza avrebbe prodotto e consumato la stessa quantità di ossigeno e di anidride carbonica. Ma l’Amazzonia è inserita in un sistema complesso che si chiama Terra, con una miriade di ecosistemi che interagiscono tra loro.

La quantità di ossigeno nell’atmosfera è più o meno costante e pari circa al 21 per cento (il gas più presente è l’azoto, al 78 per cento circa). Non ci serve più ossigeno di così: le piante “servono” per mantenere quel livello di ossigeno. Inoltre, non sono le foreste a produrre la maggior parte dell’ossigeno che respiriamo, ma il fitoplancton che si trova negli oceani. Si stima che almeno il 50 per cento (secondo altre stime fino all’85 per cento) dell’ossigeno presente nell’atmosfera sia prodotto dalla fotosintesi del fitoplancton, mentre il restante è prodotto dalle piante sulle terre emerse. Il 16 per cento dell’ossigeno prodotto da queste ultime proviene dalla foresta amazzonica.

C’è da preoccuparsi?
La quantità di incendi di quest’anno nella foresta amazzonica è anomala e allarmante, se confrontata con quelli degli anni precedenti, ma è presto per valutare quali ripercussioni possa avere sia localmente sia a livello globale. Il rischio più grande è che la grande quantità di anidride carbonica emessa localmente, insieme ai fumi e alle polveri, contribuisca a rendere più intensa la stagione secca, facilitando la formazione di nuovi incendi di ampie dimensioni.

Se si perdesse un terzo dell’attuale foresta, ci potrebbero essere conseguenze irreversibili per l’intera Amazzonia, con danni permanenti. Lo studio sull’estensione degli incendi, e non solo sulla loro quantità, dovrebbe offrire nei prossimi giorni elementi più concreti per valutare le dimensioni del problema e i suoi effetti nel medio e lungo periodo.