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  • Lunedì 5 agosto 2019

In Sudan è finita la crisi?

Civili e militari hanno firmato anche l'ultima parte dell'accordo sul futuro governo: è una buona notizia, ma è presto per festeggiare

Due sudanesi si abbracciano per festeggiare la firma dell'accordo tra civili e militari. Khartum, Sudan, 4 agosto 2019 (AP Photo)
Due sudanesi si abbracciano per festeggiare la firma dell'accordo tra civili e militari. Khartum, Sudan, 4 agosto 2019 (AP Photo)

Sabato in Sudan civili e militari hanno firmato la seconda e ultima parte dell’accordo sul futuro del paese, mettendo fine a un gran pezzo di crisi politica iniziata lo scorso aprile con l’arresto del presidente sudanese Omar al Bashir. Negli ultimi mesi il potere era passato nelle mani dei militari, che però avevano promesso di condividerlo con i civili attraverso un piano che sarebbe risultato da un accordo tra le parti: il negoziato è terminato solo due giorni fa, dopo settimane di proteste e decine di manifestanti uccisi. Ovviamente però è ancora presto per parlare di democrazia in Sudan, per diverse ragioni.

Quella firmata sabato è la cosiddetta “dichiarazione costituzionale”, il più importante dei due documenti che compongono l’accordo per la condivisione futura del potere tra militari e civili: l’altro documento, la “dichiarazione politica”, era stato firmato a metà luglio. I mediatori nei colloqui sono stati l’Unione Africana e diversi rappresentanti dell’Etiopia.

La “dichiarazione costituzionale” prevede la creazione di un Consiglio formato da 11 membri, sia civili che militari, che governerà il Sudan per i prossimi tre anni in attesa di tenere nuove elezioni. Per i primi 21 mesi il leader del Consiglio sarà un militare, mentre per i restanti 18 sarà un civile. Il Consiglio sarà inoltre affiancato da un gabinetto di tecnici scelti dalle organizzazioni civili che avevano guidato le manifestazioni contro Bashir, e da un organo legislativo la cui maggioranza sarà garantita alle Forze per la dichiarazione della libertà e del cambiamento, la principale coalizione filo-democrazia. Il documento prevede altre due cose rilevanti, che nelle ultime settimane erano state oggetto di disaccordo tra civili e militari. Anzitutto è stato deciso che le Rapid Support Forces, unità paramilitare responsabile della recente repressione contro i civili, saranno integrate nell’esercito sudanese e non potranno più agire in autonomia; inoltre si è stabilito che non sarà garantita l’immunità totale ai militari condannati per le violenze degli ultimi mesi contro i civili.

L’accordo è stato celebrato sia dai militari che dai civili, che da tempo cercavano un’intesa che garantisse un periodo di transizione con un governo misto. L’intesa è stata accolta in maniera positiva anche da Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, tutti paesi che negli ultimi anni hanno aumentato la loro influenza in Sudan e che temevano che un cambio di regime portasse il paese a modificare anche le proprie alleanze internazionali.

Nonostante l’ottimismo, ha scritto Reuters, è ancora presto però per parlare di democrazia e di transizione riuscita: il timore è che i militari rinuncino a passare il potere ai civili e impongano nuovamente un loro regime usando la violenza e la repressione. Le incertezze derivano non solo dalla lunghezza del periodo di transizione – tre anni, di cui 21 mesi guidati da un militare – ma anche dalle difficoltà di organizzare elezioni libere dopo quasi tre decenni di governo autoritario di Omar al Bashir.

Qualcosa si comincerà a capire già nelle prossime settimane, quando cominceranno a lavorare i vari organi previsti dall’accordo, che verrà formalmente firmato il 17 agosto a Khartum, la capitale del Sudan. Il nuovo ministro verrà nominato il 20 agosto, il gabinetto il 28, e poi inizierà i suoi lavori anche l’organo legislativo.

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