La gran storia di un rapimento in Cina di quasi un secolo fa
Nel 1932 la giovane inglese “Tinko” Pawley fu rapita insieme a due amici e a due stallieri cinesi: e per 41 giorni fu un caso internazionale
Nell’inverno del 1932 i giornali di tutto il mondo si occuparono per settimane di un rapimento di una diciannovenne inglese nel nord della Cina. La ragazza si chiamava Muriel “Tinko” Pawley, e fu rapita insieme a due amici – Charlie Corkran e Duncan “Mack” Macintosh – e due stallieri cinesi. Il sequestro durò 41 giorni, durante i quali i rapitori intrattennero lunghissime trattative con le autorità britanniche e giapponesi – che a quel tempo controllavano una parte del nord della Cina – che si conclusero all’improvviso, tanto rapidamente quanto erano cominciate.
La storia del rapimento è stata raccontata di recente sul South China Morning Post, un importante giornale in lingua inglese pubblicato a Hong Kong, da Paul French, già autore di Mezzanotte a Pechino, un libro che ricostruisce l’omicidio della figlia di un diplomatico britannico a Pechino, nel 1937. All’epoca Pawley era sposata da tre mesi con Kenneth Pawley, un ricco dirigente della compagnia petrolifera Asiatic Petroleum Company: i due si erano da poco trasferiti a Tientsin, una grande città costiera nel nord est della Cina. La donna in realtà aveva vissuto in Cina per la maggior parte della sua vita, visto che i suoi genitori erano medici missionari; quando fu rapita, infatti, era in visita da loro a Yingkou, poco lontano. Circa un anno prima i giapponesi avevano occupato la Manciuria, la regione di Yingkou, ma non avevano ancora stabilito un vero controllo: c’erano milizie ribelli e soprattutto c’erano i soldati cinesi che si erano dispersi e vivevano come fuorilegge. L’estrema povertà della regione rese molto comuni i rapimenti di stranieri.
Il viaggio di Pawley verso Yingkou andò liscio, ma la mattina del 7 settembre la giovane decise di andare a fare una cavalcata fuori città. Fu allora che fu rapita da una banda di criminali, insieme ai suoi due amici (Charlie Corkran e Duncan “Mack” Macintosh), anche loro dipendenti della Asiatic Petroleum Company, ai due stallieri cinesi (di cui non sono arrivati a noi i nomi, e di cui i giornali si dimenticarono quasi subito) e ai suoi tre cani, due pastori tedeschi e un pointer inglese di nome Squiffy. La banda era composta da un centinaio di sbandati, guidati da un uomo di nome Pei Pa-tien. Fu subito chiesto un riscatto: 32.500 dollari cinesi, equivalenti a oltre un milione di euro attuali; una cassa di oppio; 240 fucili, 4 carabine, 6 mitragliatrici e 38.000 proiettili; della seta nera; 100 anelli d’oro; 60 orologi d’oro; e una scorta di abiti invernali.
I rapitori, che da subito si concentrarono su Pawley, minacciarono di tagliarle un orecchio e ucciderne i cani se suo padre e suo marito non avessero pagato il riscatto. La Marina britannica stanziata nel Pacifico fu subito allertata, e l’esercito giapponese dispiegò 500 soldati con l’obiettivo di attaccare i rapitori. Il generale Wang Tien-chung fu incaricato di provare a intavolare delle trattative, e di uccidere i rapitori se fossero fallite.
Nel frattempo, pochi giorni dopo, Macintosh riuscì a scappare e a tornare a Yingkou, dove descrisse alle autorità l’accampamento dei rapitori. Confermò i sospetti che fossero una banda di disperati, e raccontò che Pawley era rimasta ferita dal cammino di 25 chilometri a cui erano stati costretti gli ostaggi. I suoi piedi si erano riempiti di vesciche, tanto che le erano state dovute tagliare via le calze, ma non era stata curata e aveva delle infezioni.
All’accampamento, raccontò Macintosh, faceva molto freddo e le condizioni igieniche erano terribili, con letti pieni di pidocchi e cibo immangiabile. Gli ostaggi praticamente non riuscivano a dormire per il baccano della banda, sempre condizionato dall’uso di oppio, e soprattutto erano stati legati insieme per bloccarne l’eventuale fuga: anche quando dovevano andare in bagno. Macintosh aggiunse che se non fosse stato pagato il riscatto, Pawley sarebbe stata uccisa a coltellate, e che nelle ferite le sarebbero stati messi dei peperoncini per aumentarne l’agonia.
Le informazioni raccontate da Macintosh finirono sui giornali inglesi e anche sui resoconti di altre testate europee, aumentando le preoccupazioni e facendo crescere l’attenzione mediatica sul caso. C’erano vari ingredienti che lo rendevano attraente per il pubblico occidentale: l’aspetto esotico, quello violento, e soprattutto c’era il fatto che Pawley era una bella ragazza, bionda e ricca.
Gli amici di Pawley riuscirono a organizzare dei contatti con la banda: dei messaggeri portavano periodicamente provviste, tabacco, vestiti e altri regali per i rapitori e per gli ostaggi, e portavano indietro le richieste della banda e le lettere di Pawley. Lei raccontava di stare bene ma di essere in condizioni precarie, chiedendo del sapone. In una lettera, scrisse di provare una «noia incredibile». Nel frattempo le autorità britanniche si rifiutavano di pagare il riscatto, ritenendolo sproporzionato. In una lettera, i genitori di Pawley e suo marito chiesero ai rapitori di dimostrare che la giovane fosse ancora viva: le fecero quindi scrivere qualcosa di personale, e lei chiese del rossetto. Sua madre ne fu confortata.
Ma Pawley scrisse anche che se non avessero portato 300mila dollari e 5 chili di oppio ai rapitori le avrebbero tagliato le orecchie. In Inghilterra i giornali dibattevano sull’opportunità di pagare il riscatto, mentre altri incolpavano il governo giapponese di non fare abbastanza. I più esperti erano però preoccupati da queste critiche, perché temevano che il generale Wang potesse assaltare l’accampamento provocando una strage, e uccidendo anche gli ostaggi. Stava probabilmente per succedere: Wang preparò un battaglione di 2.000 soldati per una missione di soccorso dall’esito molto probabilmente sanguinolento. Subito prima della partenza, però, suo figlio si ferì mortalmente controllando una pistola del padre. Wang si ritirò per il lutto, e la missione fu cancellata.
Era passato più o meno un mese, la collaborazione tra il Regno Unito e le autorità locali era problematica (perché i britannici non riconoscevano il Manciukuò, lo stato-fantoccio istituito dai Giapponesi nella Manciuria) e le trattative per abbassare il riscatto non producevano risultati. I rapitori rifiutarono le proposte di amnistia e cominciarono a dare diversi ultimatum minacciando di uccidere gli ostaggi, poi puntualmente disattesi. Il campo rimase isolato per dieci giorni a causa delle forti piogge: quando furono ristabiliti i collegamenti, arrivarono delle lettere degli ostaggi in cui praticamente dicevano addio ai propri familiari. Nei giorni successivi tuttavia furono riprese le forniture di beni di prima necessità, e il morale di Pawley e di Corkran migliorò, o perlomeno migliorò il tono delle loro lettere.
Era evidente però che la situazione non si sarebbe sbloccata da sola, e allora la prese in mano il capitano Kawahito, un diplomatico giapponese che era stato scelto come interlocutore principale dal Regno Unito, nei tentativi di convincere il Giappone a intervenire. Con l’aiuto della polizia locale Kawahito organizzò un’operazione al campo, circondandolo con 700 uomini: lui stesso poi entrò nell’accampamento portando oppio, tabacco, abiti invernali e un bel po’ di soldi. Aveva raccolto tutto con una specie di colletta tra alcuni notabili del Manciukuò, che volevano vedere riconosciuto internazionalmente il loro stato.
Kawahito trattò a lungo con Pei, il capo della banda, per convincerlo che era il meglio che potesse ottenere, e si dice che lui e i sequestratori condussero i negoziati puntandosi vicendevolmente una pistola al petto, pronti a sparare nel caso di un attacco. Oltre alla somma in denaro, corrispondente a 130.000 yen del Manciukuò, si accordarono per 75 chili di oppio, abiti invernali, 40 anelli d’oro, pellicce e stivali, abiti e scarpe britannici e una decina di orologi d’oro. Ma soprattutto, Pei ottenne che i suoi uomini fossero graziati e addirittura accorpati alla polizia locale. Due giorni più tardi, dopo che alcuni sarti del posto avevano lavorato giorno e notte per finire gli abiti inclusi nel riscatto, Pawley e Corkran furono liberati. I due stallieri erano stati rilasciati in precedenza. Kawahito all’ultimo regalò un paio di occhiali da sole a Pei, che era rimasto particolarmente colpito da quelli indossati dal capitano giapponese.
Secondo i racconti, Fawley e Corkran erano tutto sommato di umore buono, nonostante le sei settimane di prigionia. Pei raccontò che fu sollevato di liberarsi della giovane, che parlando un ottimo cinese provocava continuamente i rapitori e minacciava continuamente di digiunare per protesta. Aveva le gambe coperte di punture di zanzare, alcune delle quali infette, era molto sporca e aveva mal di stomaco e mal di gola, probabilmente per l’acqua sporca che aveva dovuto bere. Passò una decina di giorni all’ospedale in cui lavorava suo padre, e in un’intervista al giornale britannico Daily Mail – che aveva mandato un inviato sul posto a seguire la vicenda – disse di essere felice che la proposta di sua madre di sostituirsi a lei come ostaggio non fosse stata accolta, perché probabilmente non ce l’avrebbe fatta.
Alla fine Pei non entrò nella polizia insieme ai suoi uomini, ma si unì a un’altra banda criminale più importante: venne probabilmente ucciso il giugno successivo in uno scontro con la polizia. Nel 1935 Corkran si sposò a Shanghai, e Pawley gli fece da testimone. La giovane subito dopo il rapimento scrisse anche un libro per raccontare la sua storia, che però non vendette molto. Per quanto riguarda i cani di Pawley, uno dei due pastori tedeschi fu ucciso dai rapitori perché abbaiava, un altro fu malmenato ma riuscì a scappare, mentre Squiffy rimase sempre insieme alla padrona, e fu liberato con lei.