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  • Mercoledì 16 gennaio 2019

Jan Palach si diede fuoco a Praga cinquant’anni fa

Il 16 gennaio 1969 fu la prima "torcia umana" a uccidersi per protesta contro la censura e l'occupazione sovietica della Cecoslovacchia, dando inizio a una lunga crisi

di Pietro Cabrio

Jan Palach nel 1967 (Three Lions/Hulton Archive/Getty Images)
Jan Palach nel 1967 (Three Lions/Hulton Archive/Getty Images)

Nella tarda mattinata del 16 gennaio 1969 uno studente cecoslovacco uscì dal suo alloggio universitario nella periferia sud di Praga per dirigersi verso il centro. Nel tragitto imbucò tre lettere, comprò due secchi di plastica e li riempì di benzina nei pressi della stazione ferroviaria. Nel primo pomeriggio raggiunse la vicina piazza San Venceslao, uno dei luoghi più frequentati della città. Si mise vicino alla fontana ai piedi della scalinata del Museo Nazionale e si tolse il cappotto. Inspirò dell’etere, si verso addosso la benzina e si diede fuoco.

Saltò un parapetto e si mise a correre in fiamme verso il centro della piazza. Venne urtato da un tram in corsa e cadde a terra. Alla scena assistettero diverse persone, alcune delle quali soccorsero il ragazzo spegnendo le fiamme con i loro cappotti: era ustionato gravemente su tutto il corpo ma ancora cosciente, e lo restò poi fino alla morte. Riuscì a comunicare con alcuni soccorritori dicendo loro di andare a prendere la lettera rimasta nella giacca ai piedi della scalinata. Poi disse: «Ho fatto tutto da solo». Pochi minuti dopo arrivò un’ambulanza che si trovava già nelle vicinanze.

A due ore di distanza l’Agenzia di stampa cecoslovacca – controllata dal regime, ritornato saldamente nell’orbita dell’Unione Sovietica – diffuse una breve notizia sul suicidio di uno studente della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università Carolina, citandone solo le iniziali. Il nome del ragazzo, Jan Palach, si diffuse però velocemente tra gli universitari di Praga, da lì in tutto il paese e nel giro di alcuni giorni nel resto d’Europa. Palach era un ragazzo di ventuno anni proveniente da un paesino a cinquanta chilometri da Praga, trasferitosi nella capitale per studiare dopo essersi diplomato nei primi anni Sessanta.

Jan Palach

Prima ancora del suo nome, a circolare in città fu il contenuto della lettera trovata nella tasca del cappotto in piazza San Venceslao e precedentemente spedita in tre copie al leader studentesco di Praga, all’assemblea della Facoltà di lettere e filosofia e a un compagno di studi. Nelle lettere Palach aveva scritto: «Io sono il primo a cui tocca l’onore di eseguire la nostra decisione. Sono il primo che ha avuto l’onore di scrivere la lettera e sono anche la prima torcia. La richiesta principale è l’abolizione della censura: se questa richiesta non sarà rispettata entro cinque giorni, vale a dire entro il 21 gennaio 1969, e se la gente non dimostrerà appoggio alla nostra azione, altre torce umane mi seguiranno». Le lettere erano firmate «Torcia umana numero 1».

Palach venne ricoverato ancora vivo e cosciente, ma con ustioni di secondo e terzo grado su quasi tutto il corpo, una condizione senza rimedio. I medici non poterono fare molto per salvarlo. Rimase agonizzante per tre giorni, durante i quali chiese più volte agli infermieri quale fosse stata la reazione della città, e se la gente ne stesse parlando. Ebbe una breve conversazione registrata con una psichiatra, a cui confermò che l’intento del suo gesto era risvegliare la coscienza pubblica del paese. Poi incontrò il capo del movimento studentesco della sua facoltà, Lubomir Holeček. Gli chiese di dire agli altri membri del gruppo delle torce umane di fermarsi, ma sulla veridicità di queste sue parole ci sono ancora molti dubbi.

La madre e il fratello maggiore di Palach ai funerali (Three Lions/Hulton Archive/Getty Images)

Palach morì nel pomeriggio del 19 gennaio, dopo che la sua famiglia – la madre e il fratello – fecero in tempo ad arrivare in ospedale per vederlo in vita gli ultimi istanti: successivamente verranno ricoverati entrambi in un ospedale psichiatrico. Il corpo di Palach venne portato al reparto di medicina legale dell’ospedale, dove di notte alcuni studenti insieme allo scultore Olbram Zoubek riuscirono a intrufolarsi per fargli un calco del viso. La scultura prodotta con il calco è tuttora esposta nella piazza intitolata a Palach, accanto all’auditorium del Rudolfinium.

La morte di Palach diede inizio a una grande crisi che coinvolse da una parte gli studenti e i cittadini che li sostenevano, come durante il periodo della Primavera di Praga dell’anno precedente, a cui Palach aveva partecipato entusiasta, e dall’altra il Partito Comunista locale e di riflesso quello sovietico. Un gruppo di studenti iniziò uno sciopero della fame nel luogo in cui Palach si era dato fuoco. Il giorno dopo la morte si tenne una lunga processione pacifica a cui parteciparono migliaia di persone, le quali partirono da piazza San Venceslao per arrivare davanti alla Facoltà di lettere e filosofia. Dalla facciata del palazzo i leader studenteschi ribadirono le richieste di abolizione della censura indirizzando critiche al segretario del Partito Comunista cecoslovacco, Alexander Dubcek, le cui idee riformiste che avevano ispirato la Primavera di Praga e il “socialismo dal volto umano” erano state accantonate dall’occupazione degli eserciti dei paesi del Patto di Varsavia ordinata da Mosca. Nei giorni successivi le proteste si diffusero in tutta la città, attirando altri cittadini e causando tensioni e scontri.

Il feretro esposto al pubblico nel cortile dell’Università Carolina (GERARD LEROUX/AFP/Getty Images)

Il 24 gennaio, alla vigilia dei funerali, una folla di circa 350mila persone fece visita alla salma esposta all’università. Dalla pubblicazione delle date dei funerali, centinaia di persone si adoperarono per raggiungere Praga da tutto il paese. Non esiste una stima esatta del numero, ma per i funerali di sabato 25 gennaio pare che le strade di Praga si riempirono con più di mezzo milione di persone. Palach venne sepolto nel cimitero di Olsany, nella zona orientale della città. In tutta Praga le manifestazioni spontanee continuarono fino al 27 gennaio e gli arresti da parte della polizia cecoslovacca alla fine furono circa duecento.

In quei giorni il segretario del partito, Dubcek, non si fece vedere a Praga e nemmeno in pubblico: stando alle cronache dell’epoca era a riposo per un’influenza nella sua casa di Bratislava, anche se le voci lo davano sopraffatto da una crisi depressiva legata alle vicende dell’anno precedente. A Praga, intanto, il governo cercò di contrastare le proteste screditando pubblicamente Palach, il quale venne definito un fanatico con problemi mentali, facendo riferimento a patologie mai riscontrate dietro le reali motivazioni del suo gesto. Un deputato e membro del Comitato centrale del Partito Comunista cecoslovacco, Vilem Nový, accusò l’opposizione di aver spinto Palach a darsi fuoco con l’inganno. Nový fece esplicitamente il nome di Emil Zatopek, uno dei più grandi atleti della storia, ritenuto fra gli istigatori. Tali accuse risultarono fin da subito infondate.

La targa con cui gli studenti diedero il nome di Palach a una piazza della città vecchia durante le proteste (GERARD LEROUX/AFP/Getty Images)

Stando alle indagini della polizia e ai documenti d’archivio, il gruppo di “torce umane” di cui scrisse Palach non sarebbe mai esistito; ma in quel periodo la sua morte rese secondari tutti gli altri eventi politici, non solo in Cecoslovacchia, ed ebbe una tale risonanza da creare veramente un gruppo spontaneo di “torce umane”. Ci furono infatti una decina di tentativi di immolazione in Cecoslovacchia e negli altri paesi del Patto di Varsavia. Cinque manifestanti morirono in questo modo, ma le loro storie furono tenute nascoste per anni.

Il più noto di questi fu Jan Zajic, studente in un istituto per ferrovieri della Moravia, che il 25 febbraio 1969 raggiunse Praga assieme a tre amici. Dopo aver lasciato loro delle lettere da distribuire alle università, andò da solo in piazza San Venceslao e si nascose dentro il cortile di un palazzo. Lì si cosparse di benzina e si diede fuoco, ma non riuscì a uscire in piazza e crollò bruciando ancora dentro l’edificio. Solo poche persone lo videro morire. Prima che la voce si spargesse in città, la polizia ne vietò i funerali a Praga, come invece Zaijc aveva richiesto nelle sue lettere, e ne dispose l’inumazione nel suo lontano paese natale, a cui parteciparono comunque migliaia di persone.

Prima di Zaijc, il 23 gennaio uno studente ungherese di sedici anni, Sandor Bauer, si diede fuoco sulla scalinata del Museo Nazionale di Budapest per protesta contro l’occupazione della Cecoslovacchia e la presenza di eserciti stranieri nel suo paese. Due giorni dopo Evzen Plocek fece lo stesso nella città ceca di Jihlava lasciando un messaggio in cui si opponeva all’aggressione sovietica. Il giornale locale, tuttavia, si limitò a dare la notizia di una persona ricoverata in condizioni critiche dopo essersi data fuoco per motivi non precisati. Il 13 aprile Ilja Aronovič Rips, studente lettone di vent’anni, tentò di darsi fuoco nel centro di Riga per protesta contro l’occupazione della Cecoslovacchia, ma fu salvato, arrestato e internato in una clinica psichiatrica. L’ultimo caso noto fu quello di Romas Kalanta, operaio lituano di diciannove anni: il 14 maggio 1972 si diede fuoco a Vilnius per protesta contro l’occupazione della Lituania. Lasciò scritto: «Accusate il regime totalitario della mia morte».

Dopo l’indipendenza della Cecoslovacchia il presidente ed ex dissidente Vaclav Havel omaggiò i loro sacrifici e dedicò una lapide a Palach e Zajic nel centro di piazza San Venceslao. La storia di Palach in particolare è tuttora omaggiata e fonte di molte ispirazioni. Il gruppo inglese dei Kasabian gli ha dedicato il brano Club Foot. Nel 2013 invece la divisione europea di HBO ha prodotto una serie sulla sua storia, Burning Bush, diretta dalla regista polacca Agnieszka Holland.

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