L’esperimento di Bergamo con i migranti

Siamo andati a vedere l'"Accademia per l'integrazione", un progetto voluto dal comune di centrosinistra e che punta a diventare un modello diverso e innovativo

di Elena Zacchetti

Alcuni allievi dell'Accademia per l'Integrazione a Urgnano, provincia di Bergamo (Mario Rota / Bergamo Post)
Alcuni allievi dell'Accademia per l'Integrazione a Urgnano, provincia di Bergamo (Mario Rota / Bergamo Post)

Al secondo piano dell’ex casa di riposo Carisma di Bergamo, a est del centro storico, da qualche giorno sono ospiti trenta ragazzi provenienti da diversi paesi del mondo, per lo più dall’Africa subsahariana, che hanno accettato di far parte di un progetto d’integrazione sperimentale e innovativo, basato su un modello unico in Italia: giornate intense, regole rigide, richiami in caso di infrazione, moltissime ore di lingua italiana, riti quasi militari e tirocini secondo le esigenze delle industrie locali. Il progetto, che nel giro di poche settimane includerà altri 30 ospiti, si chiama “Accademia per l’integrazione” ed è il risultato di una stretta collaborazione tra comune, Confindustria locale, Diocesi di Bergamo e organizzazioni del settore. È iniziato da circa un mese, anche se l’idea risale a molto prima: tre anni fa almeno, su un’auto diretta a Bergamo di ritorno da Matera, occupata dal sindaco Giorgio Gori e dal suo capo di gabinetto, Cristophe Sanchez.

Bastano queste poche cose per capire che nonostante sia appena partito, l’esperimento dell’Accademia è già interessante per almeno due ragioni: perché propone un modello di integrazione diverso da tutto quello che si è visto finora, il quale aspira a essere replicato in altre città italiane; e perché racconta un pezzo della città di Bergamo, e di come funzionano i rapporti tra alcune delle sue più importanti istituzioni cittadine.

Abbiamo visitato l’Accademia pochi giorni fa, dopo il faticoso trasloco che aveva portato attrezzature, richiedenti asilo e staff del progetto dalla piccola cittadina di Urgnano alla Carisma di Bergamo, già impiegata da qualche anno come centro di accoglienza straordinaria per migranti (CAS).

Alcuni degli “allievi” dell’Accademia giocano a calcio balilla mentre aspettano che sia pronto il pranzo (Il Post)

Che l’Accademia non sia un normale CAS lo si capisce subito, entrandoci verso metà mattina: spazi comuni puliti, stanze in ordine e con i letti perfettamente rifatti, e ospiti vestiti tutti con la stessa tuta blu con la scritta “Accademia per l’Integrazione. Grazie Bergamo”, attenti a seguire una lezione di italiano.

Non ci sono sguardi persi, né occhiate furtive ai cellulari. I telefoni sono stati ritirati dopo la colazione, verranno ridati brevemente durante la pausa pranzo e poi di nuovo alla sera, ma difficilmente verranno usati fino a tardi: alle 23 si stacca il wifi, anche perché la sveglia è alle 6:30 di mattina, sabato compreso, e la giornata è fitta di lezioni, volontariato, sport, compiti e attività di altro tipo. Per tutti le persone richiedenti protezione internazionale entrate in Accademia, questa sarà la vita per un anno intero: intensa e con obiettivi ambiziosi, anche se con poche certezze.

Una delle stanze degli allievi dell’Accademia: i letti vengono rifatti ogni mattina, in maniera uguale per tutti (Il Post)

Il nome “Accademia” è effettivamente adeguato per definire in una parola il progetto promosso dal Comune e gestito dalla cooperativa Ruah, che da anni si occupa con competenza di accoglienza di migranti in tutta la provincia di Bergamo.

Anzitutto è un programma su base volontaria rivolto ai «migliori dei migliori», come li ha definiti Ahmed Abdulkareeem, iracheno di Baghdad oggi operatore e referente sanitario per l’Accademia. Gli “allievi”, così vengono chiamati i partecipanti al progetto, vengono rigorosamente selezionati prima di essere ammessi: fanno tre colloqui, due con la cooperativa Ruah e l’ultimo con Sanchez, il capo gabinetto del sindaco Gori, durante i quali vengono valutate motivazioni e attitudini e viene spiegato loro quali sono le regole. Se accettano, e se vengono valutati idonei, firmano una specie di accordo e vengono fatti entrare in Accademia “in prova” per due settimane, al termine delle quali decidono se rimanere o andarsene (anche i membri dello staff decidono dopo due settimane se le persone candidate sono idonee).

I criteri di ammissione non sono tanto la conoscenza dell’italiano e il livello di scolarizzazione: vengono considerate più importanti la predisposizione per il rispetto delle regole e l’assenza di precedenti episodi di violenza.

L’insegnante Elena Scaramelli tiene la lezione mattutina di italiano agli allievi dell’Accademia: il tema nel giorno della nostra visita era “compilazione di un’agenda” (Il Post)

Il rispetto delle regole, degli orari e delle scadenze è fondamentale, ed è uno dei perni su cui si fonda l’intero progetto. Non per ambizioni militaresche, spiegano i membri dello staff dell’Accademia, ma per una necessità che conosce bene chi – come molti operatori, educatori e insegnanti di italiano – ha lavorato per anni in centri di accoglienza di diverso tipo. Elena Scaramelli, una delle due insegnanti di italiano dell’Accademia, ha spiegato: «Spesso la vita nei centri di accoglienza è diversa da quella dell’Accademia: i ragazzi perdono i punti di riferimento perché non lavorano, non c’è niente da fare. Dormono quando vogliono, mangiano quando vogliono, non hanno più regole né orari. Molti di loro si lasciano andare e scivolano in uno stato di apatia. Quello che tentiamo di fare è di riportarli a orari normali».

All’interno dell’Accademia violare le regole comporta un “richiamo”, per esempio l’obbligo di rimanere nella struttura durante il fine settimana. In realtà, ci dice lo staff, c’è stato qualche richiamo durante i primi giorni del progetto, quelli di assestamento, ma ora il rispetto delle regole, la puntualità agli appuntamenti, l’attenzione per la pulizia della propria camera sono diventati dettagli a cui gli allievi prestano grande attenzione.

Il merito sembra essere soprattutto del sistema di responsabilità imposto dallo staff fin dal primo giorno. Per esempio ogni settimana viene scelto un “capoclasse”, che si comporta come una specie di operatore aggiunto: si preoccupa di controllare che le stanze siano pulite e in ordine, che tutti siano puntuali agli appuntamenti, e così via. Se c’è qualcosa che non va, il “capoclasse” viene considerato responsabile di fronte allo staff. Il suo è un ruolo istituzionalizzato, diciamo così: il “capoclasse” ha tre segni distintivi sulla divisa (tre linee parallele), il suo vice ne ha due, mentre gli allievi senza alcun incarico ne hanno uno soltanto.

Nel primo mese di progetto, questo sistema ha fatto nascere un forte senso di appartenenza tra gli allievi dell’Accademia. Non solo per la responsabilità a rotazione, ma anche per molti altri dettagli scrupolosamente introdotti nella routine quotidiana degli allievi, per esempio l’uso di tute tutte uguali, che servono a dare senso di uguaglianza e appartenenza: gli ospiti del centro hanno una tuta da indossare la mattina, una divisa catarifrangente arancio per il volontariato, un’altra per fare sport. Secondo l’insegnante Scaramelli, le divise tutte uguali hanno contribuito a sviluppare tra gli allievi un forte senso di orgoglio: «Quando mettono le divise, se la tirano», dice Scaramelli ridendoci sopra. Poi, riferendosi al senso di appartenenza sviluppato in questo primo mese di progetto, aggiunge più seriamente: «Mi viene da dire che in un certo senso stiano recuperando la dignità».

Le divise date agli “allievi” dell’Accademia, riposte ordinatamente negli armadietti del corridoio fuori da ciascuna stanza (Il Post)

Scaramelli è una delle persone più importanti dell’Accademia e in generale l’insegnamento della lingua italiana viene considerata una delle priorità dell’intero anno di progetto: e si vede in qualsiasi momento della giornata.

Per fare alcuni esempi: gli allievi che vengono messi in stanza insieme sono di diverse etnie, religioni e lingue, di modo che usino sempre l’italiano per comunicare tra loro; gli insegnanti e gli operatori si rivolgono a loro sempre in italiano, anche se usare lingue come inglese e francese velocizzerebbe di parecchio le comunicazioni; all’italiano viene data enorme importanza nella valutazione che lo staff dell’Accademia compila una volta ogni due settimane per ciascun allievo (cioè la tabella qui sotto, dove nel punteggio finale, il sì/no, l’italiano vale doppio). «Senza italiano non c’è vita in Italia. Senza italiano non si può fare niente», ci dice Ahmed, operatore iracheno della cooperativa Ruah che diversi anni fa visse l’esperienza di arrivare in Italia sapendo dire solo «ciao».

Un pezzo della tabella di valutazione che lo staff dell’Accademia compila una volta ogni due settimane (sono state escluse le colonne dei nomi degli “allievi”, delle rispettive date di nascita, e delle “note” a uso interno elaborate dallo staff). Oltre alla lingua italiana, vengono considerati nella valutazione altri fattori, tra cui l’educazione e l’attitudine a rispettare le regole (Il Post)

In Accademia non si impara solo a parlare e a scrivere l’italiano. Alle tradizionali lezioni di lingua sono affiancate lezioni di “comportamento formale”, dove gli allievi imparano alcune regole di convivenza molto diffuse in Italia: per esempio imparano a usare il lei, utile sia in eventuali colloqui di lavoro sia per rivolgersi a persone che non si conosce. Inoltre, dopo i primi mesi di lezioni intensive e molte ore di volontariato, gli allievi inizieranno un tirocinio in un’azienda iscritta a Confindustria, dove potranno imparare una professione richiesta dal mercato del lavoro della città di Bergamo. L’assunzione dopo il tirocinio non è garantita: questo ce l’hanno ben chiaro anche gli allievi, ci assicura Sanchez.

L’incertezza su un’eventuale assunzione dopo il tirocinio non è l’unica incognita per gli allievi dell’Accademia, molti dei quali sono arrivati in Italia da soli, salendo a bordo di una delle tante imbarcazioni di fortuna che partono dalla Libia per raggiungere le coste italiane.

I partecipanti del progetto, ci spiega Arianna Pirotto, operatrice e referente dell’area legale per l’Accademia, sono quasi tutti nella fase iniziale della loro richiesta di protezione internazionale: devono ancora essere sentiti per la prima volta dalla Commissione territoriale, l’organo che decide del loro futuro. Sono stati scelti apposta con questa particolarità, di modo da evitare che di fronte a un secondo diniego della richiesta di protezione internazionale, dopo il quale non è più possibile fare appello, gli allievi siano costretti a interrompere il loro anno nell’Accademia. L’attesa di sapere cosa sarà del proprio futuro in Italia è una preoccupazione costante per molti allievi, ci dice Pirotto, ma non è vissuta come un’ossessione, cosa che succede spesso in altri CAS italiani: in Accademia le giornate sono piene, gli allievi hanno sempre molte cose da fare e la testa è occupata su diversi fronti. Alcuni ospiti ci dicono che questo primo mese di Accademia è la cosa migliore successa loro da quando sono arrivati in Italia.

Negli ultimi giorni, soprattutto dopo la conferenza stampa di presentazione del progetto tenuta la scorsa settimana a Bergamo con la presenza del sindaco Gori, l’attenzione verso l’Accademia è aumentata molto, e sono arrivati i primi apprezzamenti e le prime critiche, raccolte per esempio in un articolo del Bergamo Post intitolato: «Ma questa Accademia è di destra o di sinistra?».

La Lega ha definito l’Accademia un esperimento «fallimentare», accusando implicitamente la giunta locale di centrosinistra di avere stanziato soldi in più per sostenere il progetto: affermazione non vera però, visto che la quasi totalità dei costi rientra nei 35 euro al giorno a richiedente asilo che il governo italiano stanzia normalmente per le strutture di accoglienza come i CAS (l’Accademia è un CAS). Secondo altri, l’Accademia servirebbe per creare manodopera sottopagata, e i suoi allievi verrebbero usati solo per pulire i giardini pubblici, ma anche questa obiezione al momento sembra essere poco concreta: è difficile pensare di insegnare una professione prima ancora di avere un minimo di conoscenza dell’italiano scritto e parlato, e lo stesso progetto prevede dalla primavera l’inizio di tirocini presso aziende di Confindustria. Altri ritengono che il progetto sia un po’ «di destra», visto l’accento un po’ militaresco sulla rigidità delle regole e visto il fatto che lo stesso Gori ha detto di essere contrario al modello «dentro tutti», una frase detta e ridetta dai partiti di destra più contrari all’immigrazione; altri ancora ci vedono similitudini con lo scoutismo, dove il rispetto delle regole e la responsabilizzazione individuale continua sono cardini della proposta educativa rivolta ai ragazzi.

Di certo è prematuro fare valutazioni definitive sull’Accademia a un solo mese dall’inizio del progetto, anche a causa del suo carattere unico e sperimentale. Uno dei problemi più grandi riconosciuti dalla giunta di Bergamo e dallo stesso sindaco Gori è il fatto che le competenze che gli allievi acquisiranno alla fine del loro anno in Accademia non potranno essere fatte valere di fronte alla Commissione territoriale incaricata di decidere sulle richieste di protezione internazionale. Non importa quanto i richiedenti asilo sappiano l’italiano, quante ore di volontariato abbiano svolto e se abbiano firmato un contratto di lavoro: a oggi nessuna di queste cose serve a spostare la valutazione della Commissione.

Per questa ragione il Consiglio comunale di Bergamo ha approvato la proposta di introdurre una specie di “permesso premiale”, cioè un permesso di soggiorno che venga dato a chi ha un certificato A2 di italiano, chi ha fatto almeno 100 ore di volontariato e chi sta svolgendo un tirocinio o sta lavorando. La proposta è stata presentata dall’ANCI (Associazione italiana dei comuni italiani) alla Commissione Affari costituzionali alla Camera, sotto forma di emendamento al decreto “immigrazione e sicurezza” voluto dal ministro dell’Interno Matteo Salvini. Vista l’aria che tira sembra difficile che l’emendamento passi, anche se a Bergamo qualcuno ci spera ancora: «Io non ho il dono della fede, ma da qualche mese ho iniziato a pregare», ci ha detto Sanchez.